Repubblica 3.7.16
Se l’odio si serve della fede
di Roberto Toscano
La morte del leader e le proteste
Un
mese fa il Bangladesh ha impiccato il leader islamista Motiur Rahman
Nizami: la sua morte ha provocato reazioni in tutta l’Asia.
In alto, dolore in Pakistan. Qui, la rabbia degli studenti di Dacca,
attaccati dagli islamisti
Un movimento in crescita
Negli
anni Settanta e Ottanta il movimento islamista in Bangladesh è cresciuto
in modo costante: la sua presenza nella società è esplosa negli anni
Novanta. I governi che si sono succeduti da allora hanno chiuso gli
occhi di fronte alla diffusione del radicalismo: qualche misura
estemporanea (sopra, rabbia per la chiusura di una moschea vicina agli
estremisti nel cuore di Dacca) non è bastata a mettere il freno a una
crescente — e sempre più violenta — estremizzazione nella società.
Attacchi a blogger e intellettuali laici si sono moltiplicati a partire
dal 2010.
L’Islam del Bangladesh era un tempo moderato e basato sulla convivenza con l’induismo
Le tendenze estremiste oggi trovano spazio tra gli sconquassi della globalizzazione
QUESTA
volta è toccato a noi, ai nostri connazionali trucidati a Dacca. Ma
ormai è evidente che l’attacco del terrorismo islamista non risparmia
nessuno. Non si tratta, dovrebbe essere ormai chiaro, di un problema
medio-orientale, e non basta, per spiegarlo, chiamare in causa le
disgraziate avventure militari americane in quella regione, l’irrisolta
questione palestinese o la contrapposizione settaria fra sunniti e
sciiti.
TUTTI aspetti che contribuiscono alla radicalizzazione
jihadista a livello mondiale, ma che certo risultano insufficienti per
capire quello che è accaduto in Bangladesh. A rendere difficile la
nostra risposta (che deve essere nello stesso tempo militare, di
intelligence, politica e culturale: smettiamola di pensare che una sola
dimensione possa funzionare) è proprio questa complessità del fenomeno,
questo confluire di spinte contrastanti, squilibri, frustrazioni,
contese geopolitiche.
Speriamo a questo punto di non sentir dire
ancora una volta che «la religione non c’entra» e che «i terroristi non
sono veri musulmani», perché, anche se è vero che solo una ridotta
minoranza di musulmani aderisce al terrorismo islamista, è la religione a
fornire ideologia unificante e linguaggi, oltre che a configurare una
micidiale rete entro la quale prendono corpo alleanze e sinergie sul
piano operativo. E poi, come si fa a dire che la religione non c’entra
quando i macellai di Dacca hanno selezionato le vittime da uccidere con i
machete chiedendo agli ostaggi di recitare il Corano?
I
terroristi di Parigi e Bruxelles hanno usato esplosivi e kalashnikov:
quelli di Dacca avevano armi non troppo sofisticate e soprattutto
machete - quei machete usati in Bangladesh, ormai da molti mesi, in uno
stillicidio di uccisioni ispirate da un estremismo religioso diretto
contro atei, gay e seguaci di religioni diverse dall’Islam. Un
terrorismo “artigianale”, ma non per questo meno atroce, nei cui
confronti il governo della Primo Ministro Sheikh Hasina aveva dato prova
di pavida ambiguità, arrivando persino a far intendere che le vittime
se l’erano cercata, dato che «avevano offeso la religione». Ecco cosa
accade quando vengono meno i capisaldi dello stato di diritto e di una
laicità che deve difendere i credenti di tutte le religioni e i non
credenti: «stato laico più libertà religiosa», come ha detto
recentemente Papa Francesco, segnando un punto di arrivo del lungo e
difficile processo della Chiesa cattolica nei confronti della libertà di
coscienza. Un processo che nell’Islam è solo agli inizi, e che anzi
risulta attualmente minacciato dalla recrudescenza di tendenze
estremiste che sono sempre esistite storicamente, ma che oggi trovano
spazio negli sconquassi di una globalizzazione che promette più che
mantenere e che soprattutto ha aumentato le disuguaglianze, nella caduta
di un sistema bipolare che non è stato sostituito e nella sinistra
influenza saudita a base di una potente combinazione di ideologia
wahabita e di tanti soldi.
L’islam del Bangladesh era un tempo
moderato. Prima del 1947, data della traumatica indipendenza di India e
Pakistan, si trattava di un islam plasmato dalla convivenza con
l’induismo e con le altre religioni del subcontinente indiano. La
tragedia della partition aveva radicalizzato e introdotto violenza e
odio. Ma non basta, dato che il Bangladesh è il prodotto di un’altra
sanguinosa partition, quella del 1971, il distacco dal Pakistan dopo una
feroce guerra il cui trauma non è ancora superato. Se qualcuno dovesse
pensare che per vivere in pace bisogna separare e costruire entità
etnico-religiose omogenee, il caso del Bangladesh dovrebbe farlo
ricredere.
La storia è importante, ma non spiega tutto. Ovunque ci
sono spinte radicali, ovunque esistono nuclei violenti e intolleranti
potenzialmente capaci di entrare in azione. Ma se oggi il potenziale di
violenza si traduce su scala mondiale in uno stillicidio di episodi uno
più atroce dell’altro è perché, pur nella varietà di motivazioni e
composizione sociale di questi gruppi (gli ex piccoli criminali di
Parigi e Bruxelles non hanno niente a che vedere con il
sottoproletariato del Bangladesh) esiste un potente e unificante
elemento ideologico. E quale ideologia è più forte di quella religiosa?
Non esiste un comando centrale, un Grande Vecchio islamista da cui
provengono ordini e strumenti operativi. Ma non è neanche vero che siano
in campo solo “lupi solitari” e nuclei autonomi. Lo Stato Islamico, che
in questo caso ha rivendicato la paternità dell’operazione, c’entra, ma
con una varietà di modalità che lo rendono particolarmente pericoloso –
più pericoloso della stessa Al Qaeda, che continua ad operare, ma ormai
come socio minore dello schieramento jihadista - e difficile da
contrastare.
L’attentato dell’aeroporto di Istanbul è stato opera
di foreign fighters almeno in un caso provenienti dalla “capitale” dello
Stato Islamico, Raqqa. Un’operazione diretta, anche se non rivendicata
probabilmente per aggiungere un elemento di confusione in un paese alle
prese con la questione curda.
A Orlando, in Florida,
l’afgano-americano Mateen ha citato lo Stato Islamico come ispirazione
della sua strage alla discoteca gay, ma anche – con una contraddizione
che rivela un’ignoranza sconcertante per un sedicente militante
islamista – Hezbollah. Un “lupo solitario”, certamente, ma capace
comunque di mettere in atto un’azione che oggettivamente s’inserisce in
un disegno destabilizzatore a livello globale.
La strage di Dacca
si situa a metà strada tra questi due estremi. È opera di fanatici che
non fanno parte di una rete operativa transnazionale, ma che trovano
nello Stato Islamico un riferimento cui corrisponde un coinvolgimento
della “casa madre” di Raqqa a livello di comunicazione. Fa pensare il
fatto che immagini trasmesse dagli assassini dall’interno del ristorante
siano state inviate alla efficiente rete di comunicazione dello Stato
Islamico che le ha ritrasmesse, appropriandosi a posteriori di
un’operazione che certo non aveva bisogno di una direzione esterna.
Emerge
qui un’altra delle ragioni che rendono particolarmente difficile
lottare contro il jihadismo globale: l’esistenza di internet e dei
social media. Risulta oggi patetico l’entusiasmo di chi riteneva che le
prospettive schiuse dalle straordinarie ed accelerate trasformazioni nel
campo delle comunicazioni sarebbero state unicamente positive. In
particolare si è sottolineato che il fatto che i governi perdessero il
monopolio dell’informazione avrebbe avuto un effetto positivo sul grado
di libertà degli individui e dei gruppi. Vero, ma si era dimenticato il
rovescio della medaglia, ovvero il fatto che chiunque – compresi i
terroristi e i criminali comuni – hanno acquistato un potentissimo
strumento per portare avanti le proprie finalità. Viene in mente
l’entusiasmo che, al momento della diffusione della radio come strumento
di comunicazione di massa, portò molti commentatori a dire che la
democrazia ne avrebbe approfittato, rafforzandosi, per diffondere
informazione e partecipazione. Dimenticavano che anche Adolf Hitler la
poteva usare, e sappiamo oggi che uno dei più atroci genocidi del XX
secolo, quello avvenuto in Ruanda nel 1994, si può far risalire all’uso
della radio da parte dei génocidaires hutu per suscitare paura e odio
nei confronti dei tutsi.
Oggi dittatori e terroristi sono
diventati provetti comunicatori digitali. Da tutte le indagini sul
terrorismo islamista dei nostri giorni risulta che nella maggioranza dei
casi è proprio attraverso la rete che avviene la captazione dei nuovi
adepti e il loro indottrinamento. C’entrano ovviamente le moschee
radicali – come nel caso specifico del Bangladesh, dove la penetrazione
wahabita è stata negli ultimi anni particolarmente capillare, ben dotata
com’è di fondi sauditi – ma oggi il messaggio islamista radicale si
diffonde sempre più grazie al crescente uso di computer e cellulari
anche nelle parti meno sviluppate del mondo.
Prepariamoci.
Purtroppo siamo solo agli inizi di un’offensiva globale alla cui base vi
è una spinta ideologica (una “teologia politica” in cui la politica è
il fine e la teologia il mezzo) culturalmente arretrata ma che sa
utilizzare tutti gli strumenti del mondo globalizzato in un disegno di
illimitata violenza. Un’offensiva condotta contro di noi, ma soprattutto
tesa ad affermarsi all’interno di una galassia musulmana storicamente
plurale e variegata (fra sunnismo e sciismo, sufismo mistico e tentativi
di dialogo con la modernità), ma che oggi subisce l’offensiva di
un’ideologia che, all’insegna dell’utopia reazionaria del califfato,
punta a terrorizzare ma soprattutto a costruire egemonia.