domenica 3 luglio 2016

Repubblica 3.7.16
La guerra al califfato e la crisi dell’Europa
di Eugenio Scalfari

MENTRE scrivo queste righe la nostra Nazionale di calcio sta giocando a Bordeaux contro la Germania con il lutto al braccio per i nove italiani torturati e poi uccisi dai terroristi dell’Is in un ristorante di Dacca, capitale del Bangladesh. Una guerra dall’altra parte del mondo. Non è rabbia e terrore provati dalle periferie del mondo. All’Is, al Califfato, interessa anche il terrore delle periferie, ma Dacca non è una periferia e il Bangladesh non è una periferia: è uno degli Stati dell’Asia con maggioranza religiosa di musulmani moderati. Quindi l’Is è a suo modo uno Stato, con una capitale, un esercito “regolare”, un Capo e il suo stato maggiore, più le periferie sparse dovunque.
Naturalmente ha molti nemici; alcuni sono alleati tra loro, altri combattono il Califfato da soli. Insomma c’è una guerra che ha generato parecchie guerre: la guerra in Siria, la guerra in Turchia, la guerra in Iraq, la guerra in Kurdistan, la guerra in Libia e in Tunisia. E la “mezza guerra” con l’Egitto, con l’Iran e con l’Arabia Saudita.
La guerra, come spesso avviene, diventa in certe fasi della storia una sorta di normalità: il potere lotta per consolidarsi ed estendersi.
POI arriva la pace, ma dura poco. Spiace dirlo ma guerra e pace (come magistralmente raccontò Tolstoj) si succedono l’una all’altra ma purtroppo lo stato normale è la guerra e il potere; la pace è un intervallo, un necessario riposo che presto scompare. *** Accanto alle guerre contro l’Is ce ne sono altre che per fortuna non contengono efferatezze e spargimenti di sangue (qualche volta accade ma più per caso che per libera volontà). Una, la più recente e tuttora in corso, è il cosiddetto Brexit, cioè l’uscita (non ancora ratificata ma comunque già irrevocabilmente avvenuta) dell’Inghilterra dall’Unione europea.
Si discute in tutta Europa se sia un grave danno per il nostro continente oppure un problema facilmente risolvibile e un vantaggio o un gravissimo errore per quella che ancora si chiama Gran Bretagna (Regno Unito non più per via della Scozia europeista e dell’Irlanda del Nord).
La risposta che un’attenta analisi suggerisce è la seguente: per l’Unione europea è una prova capitale: può rafforzarsi e fare passi avanti significativi verso uno Stato federale oppure sfasciarsi in molte parti sotto la spinta dei movimenti populisti antieuropei e antieuro. Per la Gran Bretagna è la fine. Una fine lunga almeno una decina d’anni, ma non revocabile in una società globale. Un’Inghilterra isolata. La cui influenza sul resto del suo impero d’un tempo e degli Stati Uniti d’America, è ormai prossima allo zero. A meno che una nuova maggioranza di inglesi non trovi il modo di sostituire la maggioranza che ha votato per il Brexit. È possibile che risanino l’errore ma non hanno molto tempo: un anno o al massimo due ma non di più.
***
Brexit a parte, resta da risolvere la questione europea che si compone di tre elementi: le elezioni tedesche che avverranno tra un anno e mezzo e che vedono la Merkel e i suoi alleati socialisti in difficoltà; il “sovranismo” francese che non è soltanto rappresentato dalla Le Pen, ma dal gollismo dove gran parte della classe dirigente di quel Paese ha ancora le sue radici; gli Stati dell’Europa dell’Est e del Nordest, come la Polonia, l’Ungheria, la Bulgaria, la Repubblica Ceca, ma anche la Danimarca e la Svezia. Questi Paesi, ai quali va aggiunta l’Ucraina a mezza strada tra la Ue e la Russia, che hanno conservato le proprie monete, vogliono uscire dall’Ue e vivere in proprio.
Come si muoveranno i Paesi che ancora credono nell’Unione e sanno che per sopravvivere e progredire l’Ue deve rafforzare le proprie istituzioni e puntare sull’obiettivo d’una federazione che lasci però ai singoli Stati un’ampia autonomia sia pure nel quadro generale? E qual è la parte dell’Italia in questo momento storico di particolare importanza?
L’Italia di fatto fa ormai parte di un triumvirato insieme alla Germania e alla Francia. Quel triumvirato non sempre trova l’accordo sui problemi in questione, ma rappresenta comunque la punta di vertice, le tre gambe che reggono il tavolo attorno al quale sono seduti i rappresentanti delle istituzioni europee: la Commissione, il Parlamento, le Corti di giustizia. E i capi dei 27 Stati ancora teoricamente membri dell’Unione. Ma se alcuni di essi dovessero uscirne, come abbiamo già ipotizzato, i 27 si restringerebbero ai 19 dell’Eurozona e forse nemmeno a tutti di essi.
I problemi che hanno sul tavolo sono i seguenti: 1. La guerra all’Is. 2. Il rapporto con gli Stati Uniti d’America soprattutto dal prossimo novembre quando Obama sarà sostituito. 3. Il rapporto con Putin. E poi i temi socio- economici: il rafforzamento dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni sociali, del sistema bancario, del debito pubblico, del bilancio dell’Unione europea e del suo debito pubblico, gli investimenti e la scelta politica che deve guidarli. Infine e soprattutto il tema dell’immigrazione, che comporta anche quello delle periferie e quello della libertà religiosa.
Abbiamo altre volte detto che uno degli attori principali dell’intera vicenda europea è Mario Draghi. Lo è sempre di più, man mano che la vicenda generale si aggrava. Tutte le questioni economiche, che sono una moltitudine, lo impegnano direttamente, a cominciare dal rafforzamento del sistema bancario, del debito europeo che deve assumere le caratteristiche di un debito sovrano rispetto a quello dei singoli Paesi e infine la lotta con la deflazione che sta particolarmente penalizzando l’Italia.
Draghi preme per l’istituzione di un ministro delle Finanze unico dell’Eurozona e anche Renzi preme in quel senso. Ed ecco l’altro attore della vicenda europea e italiana: Matteo Renzi. Sui problemi europei l’abbiamo già visto come “triumviro”, ma sullo scacchiere italiano? *** Era molto popolare nel 2013 e lo è stato fino al 2015. Adesso ha perso peso, in parte per l’andamento delle amministrative in alcune città fondamentali come Roma, Torino, Napoli. In parte perché la gente non sente benefici, anzi avverte un aggravarsi dei sacrifici da sopportare. In parte è la realtà, in parte è un modo di sentire.
Il risultato è che Renzi e il suo partito hanno perso l’appoggio di una quota rilevante della pubblica opinione. Due anni fa erano al 40 per cento, oggi (per quel che valgono) i sondaggi lo danno tra il 32 e il 34 per cento.
La destra è del tutto sfasciata tra Salvini-Meloni e Forza Italia; ma se la destra fosse unita supererebbe anch’essa il 30 per cento. Quanto ai 5Stelle anch’essi sono su quella quota.
In sostanza è una struttura tripolare, pessima situazione per la governabilità democratica d’un Paese, specie in vista d’un referendum confermativo che avrà luogo ai primi del prossimo ottobre e al cui risultato Renzi, credendo con ciò di rafforzarsi, ha legato la propria sorte politica.
Non starò qui a ripetere ciò che penso di quel referendum. Non mi piace l’abolizione del Senato, ma per il resto il contenuto di quel referendum è accettabile. Non è accettabile però la legge elettorale che aggancia il sistema monocamerale ad una legge maggioritaria che può avere due risultati: una vittoria del Pd renziano che dà all’Esecutivo (cioè a lui) pieni poteri di governo; oppure dà la vittoria ai 5Stelle mettendo il Paese nelle mani di un movimento praticamente populista (non a caso nel Parlamento europeo i suoi membri hanno votato con Farage, l’inglese che rivendica il merito del Brexit).
Queste due prospettive — o Renzi o i 5Stelle — fanno rabbrividire un buon democratico europeista. Perciò Renzi deve cambiare sostanzialmente la legge elettorale, avendo ben presente la fase degasperiana e post-degasperiana della Dc, che governò con i suoi alleati per dodici anni avendo il 40 per cento di voti propri e un 9 per cento dei suoi alleati (liberali, repubblicani, socialdemocratici).
Questo deve fare Renzi per l’Italia, altrimenti il rischio è che al referendum vincano i “no”, con quel che ne seguirebbe, anche con contraccolpi negativi della presenza italiana in Europa.