Repubblica 3.7.16
Business e relazioni dalla Turchia alla Cina ecco il risiko di Putin contro le sanzioni Ue
Nonostante
il prolungamento dei provvedimenti economici deciso dall’Europa la rete
di alleanze (anche inedite) politiche e militari di Mosca si trasforma
in strategia diplomatica.
Il Cremlino ha bisogno di coprire un deficit stimato in 36 miliardi di dollari per quest’anno
Mentre gli accordi di Minsk sull’Ucraina restano disattesi
di Paolo Garimberti
LA
COMMEDIA delle parti delle sanzioni alla Russia segue un copione
largamente scontato, in cui tutti fingono di credere anche se sanno
benissimo che è più fiction che realtà. O, al massimo, è un reality
show. Poco meno di un mese fa, il Senato francese ha votato a stragrande
maggioranza una risoluzione non vincolante per «un parziale e graduale»
allentamento delle sanzioni. Ma l’Eliseo ha subito fatto sapere che il
presidente Hollande avrebbe sostenuto il prolungamento fino alla fine di
gennaio del 2017, come è avvenuto l’altro ieri. Il presidente della
Commissione Ue Juncker è andato al foro economico di San Pietroburgo, la
Davos russa, insieme a Matteo Renzi: parole di miele di Putin per
entrambi, e clima molto cordiale (oltre che non trascurabili affari per
gli operatori italiani nel perimetro consentito dalla “punizione” alla
Russia). Ma né Juncker, né Renzi si sono pronunciati per la fine delle
sanzioni. Da parte russa viene ostentato un olimpico distacco
(sicuramente molto più olimpico di quello mostrato per il bando
dell’atletica russa dai Giochi di Rio). L’ambasciatore di Putin presso
la Ue, il veterano Vladimir Chizhov, ha detto: «Noi non discutiamo le
sanzioni con l’Unione europea. È un problema interno loro. Se trovano il
modo di risolverlo, sanno dove trovarci».
Nel frattempo il
Cremlino non rimane fermo in attesa di una telefonata da Bruxelles. Si
muove, intessendo una ragnatela di rapporti commerciali, politici e
anche militari, alcuni dei quali sorprendenti per chi non conosce
l’assoluto pragmatismo di Putin, oltre che la sua sapienza scacchistica,
che mescola il cinismo della scuola Kgb con l’astuzia del mercante di
San Pietroburgo.
Prendiamo le relazioni con Israele. Benjamin
Netanyahu è stato a Mosca ben quattro volte in un anno. La motivazione
iniziale, la preoccupazione del premier israeliano per la guerra in
Siria e l’appoggio della Russia al suo arcinemico, il dittatore Assad,
era certamente vera, ma poi è diventata un pretesto per sviluppare un
rapporto commerciale a tutto tondo, fino a lanciare negoziati per
stabilire una zona di libero scambio tra l’Unione economica euroasiatica
(la risposta russa alla Ue) e Israele. Netanyahu definisce la Russia
«una grande potenza», che è quello che Putin ama sentirsi dire, lui
orfano conclamato della superpotenza Urss. E per il premier israeliano
la partnership con il Cremlino è un segnale alla Casa Bianca, con la
quale i rapporti sono al minimo storico.
Un percorso molto simile è
stato compiuto da Putin verso l’Arabia Saudita. È da un anno, da quando
il nuovo monarca saudita e una folta delegazione economica si recarono a
Mosca, che la Russia tesse una tela dalle maglie sempre più fitte con
Riyad. C’è anche l’interesse comune che rafforza il legame: la caduta
del prezzo del petrolio. Ma anche in questo caso giocano, come sfondo
politico, i difficili rapporti dei sauditi con gli americani, una
lacerazione nella quale il presidente russo ha visto una straordinaria
opportunità da sfruttare. La Turchia merita un discorso a parte, anche
perché ancora una volta il sultano e lo zar, omologati dal loro superego
e da un regime interno eufemisticamente catalogato come «democrazia
controllata», sembrano accomunati da un insolito destino di opposti che
ora si respingono e ora si attraggono. Anche Erdogan, come Putin, cerca
di sottrarsi all’isolamento con un’offensiva diplomatica a tutto campo,
che include (come per la Russia) Israele. «Un indispensabile e perfino
tardivo ritorno al pragmatismo nella politica estera della Turchia», lo
ha definito Sinan Ulgen, uno dei più rispettati analisti di Istanbul. Il
passo più clamoroso sono state le scuse (in questo caso davvero
tardive) di Erdogan a Putin per l’abbattimento del caccia russo Su-24 ai
confini con la Siria nel novembre scorso. «Una pugnalata alla schiena
», lo aveva definito lo zar (che del sultano un tempo era amico)
annunciando l’ampio pacchetto di sanzioni economiche contro Ankara.
Ultimo
nella shopping list, ma non certo per importanza, è il revival delle
relazioni russo-cinesi. Putin da tempo flirta con Pechino sul piano
economico, ma i cinesi sono riluttanti di fronte alle sue avances perché
non nutrono grande fiducia nell’economia russa. Ma le cose vanno molto
meglio sul piano politico e soprattutto militare. I vertici di due
eserciti, che nel 1969 si combatterono sulle rive dell’Ussuri, ora
collaborano sempre più intensamente. A maggio per cinque giorni hanno
condotto un’esercitazione congiunta (senza muovere un solo aereo o
blindato, solo simulazioni al computer) per rispondere a un attacco
balistico. Da parte di chi? Degli Usa, naturalmente.
Ma allora le
sanzioni non scalfiscono la pelle dell’orso russo, come fa intendere il
suo ambasciatore alla Ue? E, anzi, rendono ancora più acuminati i suoi
artigli? Non del tutto. Il settore bancario soprattutto ne risente,
eccome. La Russia ha bisogno di soldi per coprire in parte il suo
deficit, previsto per quest’anno in 36 miliardi di dollari. E ha urgenza
che gli investimenti stranieri tornino a fluire. Ma conoscendo le
divisioni europee (ancor più dopo la Brexit) e coltivando una piccola
speranza che a novembre vinca Trump, il Cremlino si arma di pazienza e
la chiede al suo popolo. A gennaio si vedrà. Intanto gli accordi di
Minsk sull’Ucraina, precondizione per abolire le sanzioni, restano
lettera morta. Non solo per colpa di Mosca, ma anche dell’inettitudine
di Kiev.