La Stampa 3.7.16
Elie Wiesel, l’uomo che vide Dio appeso a una forca
Si
è spento a Boston, a 87 anni, lo scrittore premio Nobel per la Pace
Nato in Romania, rinchiuso nel ghetto e poi ad Auschwitz aspettò a lungo
prima di raccontare l’orrore, ma poi non ha più smesso
di Elena Loewenthal
Ed
è giunta anche per lui quella notte infinita di cui la sua scrittura
aveva fatto cifra del male assoluto in terra e in cielo. No, qualcosa di
più: La notte di Elie Wiesel è il ritratto del mondo che ha
attraversato: il ghetto. Buchenwald. Auschwitz. «Dietro di me sentii il
solito uomo domandare: Dov’è Dio. E io sentivo in me una voce che gli
rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca». Appeso a quella
forca c’era un bambino, ancora vivo per un soffio di tempo.
Elie
Wiesel ci ha lasciatI: l’annuncio arriva dalla collina dello Yad Vashem,
il memoriale della Shoah a Gerusalemme, ed è come un’eco triste che
risuona ai quattro angoli del mondo, ovunque lui ha vissuto, scritto,
lottato. Era nato nel 1928 a Sighetu Marmatiei, in Romania, anzi fra i
monti Carpazi, là dove c’era un ebraismo remoto, distante da tutto nel
tempo e nello spazio, quasi millenario. Un ebraismo di campagna e di
montagne, fatto più di silenzi che di parole. Wiesel aveva attraversato
l’infanzia insieme allo yiddish e a un chasidismo dolce, mite, condito
di un umanesimo spontaneo, fatto di parole antiche. Aveva studiato tanta
Torah, sia con il padre sia con la madre.
Nel 1944 lui, tutta la
sua famiglia e la comunità ebraica erano stati rinchiusi nel ghetto.
Anticamera di quello sterminio che da un campo all’altro, da una forca
all’altra si portò via tutto il suo mondo. Dopo la guerra Wiesel
cominciò a peregrinare: da un luogo all’altro, da una lingua all’altra,
da una solitudine all’altra. Incominciò a scrivere, come giornalista e
traduttore. Studiò il francese. Nel 1955 si trasferì a New York, ma in
fondo ha continuato per tutta la vita a viaggiare fra le sue diverse
esistenze, fra le sue lingue - yiddish, romeno, inglese, francese,
ebraico -, a muoversi dentro il proprio passato, ad abitarlo con le
parole, raccontarlo nello strazio, riviverlo nella consapevolezza che
trasmettere la storia di quel male fosse una missione imprescindibile.
Un dettato: non divino ma umano.
Ci mise però molti anni a
raccontare. Diversamente da Primo Levi che, appena tornato a casa da
Auschwitz sentì impellente il bisogno di scagliare sulla pagina quella
esperienza, come unica strada per provare a ricominciare a vivere,
Wiesel tacque per almeno dieci anni: non voleva né scrivere né parlare
di quello che aveva attraversato durante la Shoah. Ma quando cominciò fu
un fiume in piena, in yiddish, Un di velt hot geshiving (E il mondo
tacque, una specie di immensa bozza di autobiografia sulla quale sarebbe
poi tornato varie volte, affinando la scrittura, rendendo tutto via via
più lucido. Da quelle originarie 900 pagine fu tratto La notte, uscito
nel 1992 nella meritoria traduzione italiana di Daniel Vogelmann per La
Giuntina editrice.
Da questo libro in poi, Elie Wiesel è diventato
uno dei grandi cantori di quell’orrore. Ma è stato anche molto altro.
Intellettuale militante, sempre pienamente coinvolto nell’attualità,
sempre in dialogo con le grandi questioni del presente. E quando
parlava, la sua voce aveva sempre uno spessore tutto particolare, fatto
di impegno e pacatezza, di profonda partecipazione alla vita. Non a caso
non vinse mai il Nobel per la Letteratura, ma nel 1986 ebbe quello per
la Pace. Undici anni dopo gli fu offerta la carica di Presidente dello
Stato d’Israele, ma declinò, cedendo così il passo a Shimon Peres.
Eppure
Elie Wiesel è stato tutt’altro che un’icona, una figura «statica»
dall’aura spirituale carica di sacralità. La sua vera cifra, come uomo e
come scrittore, è l’umanità nel senso più pieno e anche più
contraddittorio. Ricco di quelle contraddizioni che raccontano una
complessità ricca di sfumature, capace di sfuggire sempre alle
semplificazioni. Lui che era nato in un mondo ebraico così conservatore,
così ai margini storici e geografici, divenne un ebreo cosmopolita,
capace di abitare lingue e spazi diversi: un cittadino del mondo. Si era
formato in un ebraismo tradizionale, era cresciuto dentro la Torah e
dentro il pietismo chasidico cui era rimasto in un certo senso fedele
per tutta la vita, come testimoniano i suoi tanti scritti dedicati a
quel mondo scomparso, da Il Golem. Storia di una leggenda alle
Celebrazioni chasidiche. Aveva scritto anche tanto di Bibbia e Talmud,
aveva una intimità profonda e spontanea al tempo stesso con tutta la
tradizione d’Israele.
Eppure come pochi altri intellettuali aveva
sfidato la fede, aveva sfidato Dio. Vuoi quando lo vede con rabbia e
rassegnazione e un dolore indicibile appeso alla forca nel corpo di un
bambino impiccato che lancia al mondo i suoi ultimi palpiti. Vuoi quando
scrive Il processo di Shamgorod: un testo bellissimo e terribile
sull’assenza di Dio, sull’ingiustizia del mondo, dove, a differenza del
biblico Giobbe, all’uomo non resta rassegnazione ma solo
un’interrogazione senza risposta. E uno sgomento muto di fronte al male,
alla sua presenza così incomprensibilmente invadente.
Elie Wiesel
è stato un grande testimone, un grande scrittore, uno straordinario
uomo di spirito, e anche di azione. Ma è stato soprattutto una figura
dalla complessità straordinaria, mai arreso di fronte
all’incomprensibile, mai stanco di interrogare e interrogarci. Ci
mancherà la sua parola. Ci mancherà la sua notte. Ci mancherà quel
silenzio abissale che stava sempre lì, tra una riga e l’altra di testo.