Avvenire.it 02.07.16
Chio, l'isola dei fantasmi: «Fateci partire»
di Gilberto Mastromatteo
La
coda per la cena si allunga nel cortile. Mohamed Seif Al Jassem è
scappato da Aleppo quattro mesi fa. Mostra il suo vassoio. Un pugno di
riso, dei fagioli e un'ala di pollo. «Non è mai abbastanza – dice –
siamo tutti a digiuno per il Ramadan. Come facciamo a romperlo con così
poco cibo? ». Sono le 21 a Souda, uno dei campi informali per migranti,
incastonato tra il mare e le fortificazioni bizantine, sull'isola di
Chio. Il sole è appena tramontato. Gruppi di bambini si rincorrono tra
le tende. Alcune donne preparano il fuoco, per rimpinguare il pasto con
qualche sarago arrosto pescato accanto al porto. Sebbene sia un campo
informale, Souda ospita ancora almeno un migliaio di migranti. Famiglie
siriane, in massima parte. Ma anche uomini soli e minori non
accompagnati dal Pakistan, dall'Afghanistan, dall'Algeria o dalla
Nigeria. «La rabbia aumenta di giorno in giorno», spiega Mohamed Seif,
uno dei tanti che attendono di conoscere l'esito della propria richiesta
d'asilo. «La burocrazia greca si muove a passo di lumaca – sbotta –
dovevano iniziare a registrarci a metà giugno. Non fanno che slittare».
Dalla spiaggia di Souda la Turchia si scorge a occhio nudo, in
lontananza. Il porto di Cesme dista appena 10 chilometri di mare. Qui,
fino a pochi mesi fa, il flusso di arrivi era continuo. Poi l'accordo di
marzo tra Unione europea e Turchia lo ha rallentato, ma mai estinto del
tutto. Solo a giugno sono stati 300 gli arrivi sulle isole greche
dell'Egeo. Oggi, a Chio restano bloccate circa 3.500 persone. Assieme ai
mille di Souda, circa 300 persone si sono accampate in un teatro
abbandonato, a Dipethe. Poi ci sono gli oltre 2mila rifugiati dell'ex
hotspot di Vial, oggi trasformato in un centro di detenzione a tutti gli
effetti. Il mese scorso 40 rifugiati hanno iniziato uno sciopero della
fame. Protestavano per le condizioni del campo e la penuria di
informazioni sui tempi per l'asilo. Poi, a giugno, c'è stato un
incendio. Varie tende sono andate a fuoco. E gli animi dei locali hanno
iniziato a scaldarsi. «Non li vogliamo qui – dice Angelos Doria,
cameriere, che nel cognome mostra chiare ascendenze coloniali genovesi
–, non fanno che creare disagi. Anche il turismo ne sta risentendo ».
Waddah ha una sessantina d'anni e viene da Aleppo. Si toglie la
maglietta e mostra freschi i segni di percosse sulla schiena e sul
fianco. «Un contadino mi ha bastonato – racconta – pensava che stessi
rubando, ma stavo solo camminando e non sapevo che quello fosse il suo
campo. Ora ho paura di uscire». «Molte persone soffrono di depressione
per via dello stress e dell'intolleranza dei locali», l'allarme lanciato
da Maria Lavida di Medecins du Monde. «Finché sono rimasti per pochi
giorni, la gente si è mostrata solidale – dice Jenny Kali, del Movimento
solidario di Chio – ora che sono qui da mesi, l'intolleranza cresce».
Wassim Omar passeggia con i suoi tre bambini sulla banchina di Souda.
Siriano, viene da Ain Al Fijah, sul confine con il Libano. A maggio è
stato tra i promotori dello sciopero della fame. «Non abbiamo lasciato
la Siria per rimanere bloccati sotto una tenda in Grecia» dice. La
maggior parte dei risparmi della sua famiglia li ha spesi per approdare
in Europa. «Mille euro a testa solo per arrivare qui da Cesme, su un
gommone – racconta –, ora siamo fermi. Non abbiamo soldi, né sostegno
internazionale e nessuna possibilità di lavorare». Qualcuno, come il
siriano Amir Alzir (prossima puntata del reportage, ndr) ce l'ha fatta a
nuoto, da Cesme a Chio. Tutti gli altri devono passare per i
trafficanti. «Ci sono almeno tre smuggler che operano a Chio – racconta
Mohamed Seif –, chi ha soldi riesce a partire per Atene. Chi non ne ha,
resta qui. Un passaggio per raggiungere la capitale costa 500 euro. E
poi c'è un giro di prostituzione all'interno dei campi, gestito dagli
stessi trafficanti. Qualcuno dice persino di essersi venduto un rene per
pagarsi il resto del viaggio». Le voci, alimentate dallo stallo
forzato, si propagano prive di conferma. Nel centro di Vial, pochi
chilometri a sud di Souda, l'attesa prosegue dentro container bianchi o
tende sistemate all'interno di un vecchio capannone industriale per la
produzione del mastice. L'oro di Chio. Sueil ha 20 anni e viene da
Daraa, al confine con la Giordania. «Studiavo Economia all'università –
spiega –, sono scappato dalla guerra civile per ritrovarmi in questa
situazione». L'obiettivo è uno solo. Raggiungere Atene. «Giorni fa,
alcuni ragazzi palestinesi hanno minacciato di buttarsi dal tetto –
racconta – li hanno portati subito nella capitale. Perché? Dobbiamo fare
come loro? Qui la gente è stanca, minaccia di darsi fuoco, se le cose
non dovessero cambiare». Accanto a lui, Ahmed da Idlib ha le idee
chiare: «Voglio tornare in Turchia – dice senza mezzi termini – appena
ne avrò l'opportunità tornerò indietro. Meglio vivere in Turchia che
restare qui ad aspettare». Nel container vive la famiglia di Fadi, anche
lui di Daraa. Cinque figlie, una delle quali avrebbe bisogno di un
delicato intervento al cranio. «Si può fare solo ad Atene – dice – ma
aspettiamo da un mese che ci diano il via libera. Dicono che né io né
mia moglie potremo accompagnare la bambina». Fuori dal container un
gruppo di ragazzi nigeriani si è ingegnato per allestire una sorta di
scuola per i molti bambini siriani presenti nel centro. «Insegniamo loro
l'inglese e li facciamo giocare – racconta Prince, cristiano di Abuja,
che prima di avventurarsi verso l'Europa faceva il tassista – quale che
sia il nostro futuro, meglio costruirlo ora».