Repubblica 2.7.16
L’economista Piketty: la Brexit non è un voto contro la Ue ma contro l’immigrazione e i mercati che creano diseguaglianze
“Il capitalismo ha bisogno di regole per tornare al servizio della collettività”
di Anais Ginori
PARIGI.
«Più che un voto contro l’Europa, la Brexit esprime soprattutto un
segnale contro l’immigrazione e la globalizzazione». Grazie ai suoi
studi sulla storia del debito e delle disuguaglianze, Thomas Piketty
inquadra il nuovo terremoto che ha scosso l’Unione europea in un
contesto più ampio di disaffezione per l’ideologia della libera
circolazione e un sintomo della crisi del capitalismo. «Una tendenza
internazionale nella quale però l’Europa ha le sue responsabilità»
spiega l’economista francese, autore de “Il Capitale del XXI secolo”.
La Brexit rappresenta anche la fine di un ciclo della globalizzazione?
«Si
avverte sempre di più la necessità di una regolamentazione del
capitalismo. Abbiamo bisogno di istituzioni democratiche forti che
possano limitare la crescita delle disuguaglianze, e rovesciare il
rapporto di forza. La potenza del Mercato e dell’innovazione economica
deve essere messa al servizio dell’interesse generale. E’ sbagliato
pensare che tutto si risolve in modo naturale. Lo abbiamo visto in
passato ».
Quando?
«Nel primo ciclo della globalizzazione,
tra l’Ottocento e il 1914, quando la fede cieca nell’autoregolazione dei
mercati ha provocato disuguaglianze, tensioni sociali, crescita dei
nazionalismi, fino alla guerra mondiale. Dopo, c’è stata una fase
storica nella quale le élite occidentali hanno avviato riforme sociali,
fiscali, mettendo un freno alle disparità. A partire dagli anni Ottanta,
siamo entrati in una nuova fase di deregulation legata a diversi
fattori, tra cui le rivoluzioni conservatrici anglosassoni, la caduta
dell’Urss».
Non vede nessun segnale di autocritica?
«Purtroppo
la crisi del 2008 non ha prodotto alcun cambio sostanziale. Resta la
fede nell’autoregolazione dei mercati e nella “sacra” libera
concorrenza, nonostante le disuguaglianze provocate. Se non si riuscirà a
dare una risposta con politiche progressiste resterà la tentazione di
trovare dei capri espiatori: il polacco nel Regno Unito o il messicano
negli Stati Uniti. Ci saranno sempre responsabili politici che
cavalcheranno questi sentimenti».
Come Donald Trump o Marine Le Pen?
«Molti
dei leader populisti e xenofobi appartengono a categorie di
privilegiati che spiegano alle classi popolari bianche che i loro nemici
non sono i miliardari bianchi, bensì altre classi popolari nere,
immigrate, musulmane. E’ un modo di distorcere l’attenzione dai problemi
del sistema capitalistico ».
Cosa fare contro il ritorno dei nazionalismi?
«Il
quadro in Europa non è così nero. Rispetto agli Stati Uniti o alla
Cina, continuiamo ad avere un modello sociale di sviluppo molto più
soddisfacente. Al tempo stesso, l’Europa soffre di una frammentazione
politica, con Stati-nazione ancora in competizione gli uni con gli
altri. All’interno dell’Ue c’è un dumping sociale, fiscale. L’esempio
più evidente è la mancata volontà di unificare l’imposta sulle società.
Le classi medie hanno l’impressione che i più privilegiati pagano meno
di loro. Queste disuguaglianze alimentano i populismi di destra e la
nascita di movimenti come Podemos o Syriza».
Perché ha accettato di lavorare come consigliere di Podemos?
«Pablo
Iglesias o Alexis Tsipras non sono perfetti ma sono molto meno
pericolosi dei nazionalisti polacchi o ungheresi. Basta vedere gli
sforzi che la Grecia fa per accogliere i rifugiati. Nel caso della
Spagna ci vorrebbe un atto di coraggio, ovvero una moratoria sul debito
pubblico, per invertire tendenza su crescita e disoccupazione. Solo così
Psoe e Podemos potrebbero formare un governo. E ci sarebbe un cambio di
maggioranza politica nell’Unione. La Francia, l’Italia e la Spagna
rappresentano insieme il 50% del Pil rispetto al 27% per la Germania».
Perché ha interrotto la collaborazione con il leader laburista Jeremy Corbyn?
«Non
avevo tempo di partecipare alle riunioni. Nessun legame con la campagna
sulla Brexit. In sei mesi, non sono mai riuscito ad andare agli
incontri del Labour. Nel caso di Podemos, sono stato invece più volte a
Madrid. Pablo Iglesias è anche venuto a Parigi».
Ha contatti con partiti italiani? Potrebbe collaborare con il Movimento 5 Stelle?
«No,
francamente non credo proprio. Ho invece parlato con alcuni
collaboratori di Matteo Renzi, soprattutto per esprimere il mio
scetticismo. Sulla riforma dell’eurozona, speravo che Renzi fosse più
ambizioso. Invece si è accontentato di qualche aggiustamento marginale».
Forse perché la Germania è inflessibile su certi punti?
«Se
l’Italia, la Francia e la Spagna mettessero sul tavolo un proposta di
unione politica e finanziaria con un parlamento dell’eurozona competente
sul livello di deficit e sulla ristrutturazione dei debiti sovrani,
allora la Germania non potrebbe mettere i bastoni tra le ruote. Invece
la Francia non ha fatto niente per l’Europa del Sud, assecondando la
Germania per avere gli stessi tassi d’interessi. Mentre Berlino continua
ad avere un atteggiamento insopportabile».
A quale atteggiamento si riferisce?
«Avere
l’8% del Pil di eccedenza nella bilancia commerciale non serve a
niente. La Germania deve investire nel paese e aumentare i salari. Già
durante la prima fase globalizzazione la Francia e il Regno Unito
avevano accumulato per decenni eccedenze commerciali. Un’aberrazione.
L’unico motivo, più o meno esplicito, è una volontà di dominazione su
altri paesi. E’ una patologia della globalizzazione che purtroppo si
ripete adesso».