Repubblica 2.7.16
Yves Bonnefoy la musica delle parole
Il grande poeta francese è morto ieri a Parigi all’età di 93 anni. Aderì all’avventura surrealista e contestò Valéry
di Valerio Magrelli
Nei
tempi andati, osservò un grande musicista, il calzolaio faceva le
scarpe per gli altri: oggi, invece, le fa solo per sé. Nella sua
disarmata semplicità, questa citazione riassume lo sviluppo delle arti
negli ultimi due secoli, da quando, appunto, si consumò il divorzio fra
l’autore e il suo pubblico. Infatti, a cominciare proprio dalla musica,
tale distanza si è talmente ampliata da costituire, in molti casi, una
barriera invalicabile, che ha escluso l’ascoltatore medio dalla
possibilità di un godimento estetico. Questo per dire come molta parte
della produzione artistica risulti oggi estranea ai “normali” fruitori.
Ciò vale anche per la poesia, che è andata inesorabilmente
allontanandosi
dal gusto medio. Il preambolo ci porta alla
domanda: come invitare a un’opera complessa come quella di Yves
Bonnefoy, uno dei maggiori poeti del secolo scorso, morto ieri a Parigi
all’età di 93 anni? Partiamo dicendo che, oltre ai suoi versi, egli ha
composto saggi che spaziano dalla critica d’arte alla storia della
letteratura, con interventi su Giacometti o Piero della Francesca, su
Ariosto, Shakespeare, Leopardi o Baudelaire. Con lui scompare un poeta
che, pur provenendo da una matrice speculativa, volle sempre aderire
alla realtà in maniera concreta, materica.
Diamo allora uno
sguardo alla sua formazione. Tra le letture predilette troviamo da una
parte Plotino, Hegel, Cèstov, Kierkegaard, dall’altra Dante, Racine,
Mallarmé, Bataille, e molti testi arcaici quali il Popol-Vuh, il Libro
dei morti egizio o il Kalevala finnico. A ciò si aggiunga l’influsso
dell’esistenzialismo e della fenomenologia. Si è parlato al riguardo di
una suspense metafisica, di una teologia negativa, di una concentrazione
che ricorderebbe il dialogo agostiniano dell’anima con se stessa.
Tuttavia, tale legame fra poesia e filosofia non deve far dimenticare la
ricchezza delle opere in prosa. Al pari di poeti quali Auden, Brodskij o
Paz, Bonnefoy ha cioè offerto avvincenti testimonianze di “saggistica
creativa”.
E dunque, rispondendo alla domanda iniziale, forse un
lettore non specialista dovrebbe proprio partire da questi libri, per
poi passare al nucleo centrale dei versi. Si pensi al Giacometti del
1991, un testo che, definito «biografia di un’opera», meriterebbe
l’appellativo di romanzo. Basti un esempio. Un giorno l’artista rimase a
casa di un’amica per badare al figlio. Al ritorno, la donna li trovò in
un silenzio glaciale. Cosa è successo? «Non ha voluto disegnarmi un
coniglio», dice il bambino in lacrime. «Non so disegnare un coniglio»,
rispose tetro l’improvvisato baby sitter. Nascosto alla fine del volume,
in qualche modo l’aneddoto ne costituisce il fulcro. A ben vedere,
infatti, tutto il libro non è che un illuminante commento a tale
incapacità di rappresentare la vita naturale. Ma se un artista non sa
disegnare conigli e rifiuta il richiamo del vero, quale sarà l’oggetto
della sua arte? La risposta sta appunto nello sguardo del
poeta-biografo, che tramite il doppio registro psicoanalitico e
fenomenologico incrocia la vita di Giacometti con la sua arte.
Nato
a Tours nel 1923 da padre operaio e madre insegnante, Bonnefoy studia
filosofia (prima alla Sorbona, poi con Gaston Bachelard) e si avvicina
al surrealismo, stringendo amicizia con scrittori e pittori quali Paul
Celan, Philippe Jaccottet, André Frénaud, Balthus e Pierre Klossowski.
Tra le sue raccolte di versi, dopo il grande successo di Du mouvement et
de l’immobilité de Douve (1953), si segnalano Hier régnant désert
(1958), Pierre écrite
(1965), Dans le leurre du seuil ( 1975), Ce
qui fut sans lumière (1987), La vie errante (1993), Les Planches Courbes
(2001) e L’heure présente (2013). Da segnalare la cura di un Dizionario
della mitologia in tre volumi (poi edito da Rizzoli nel 1989). Fra le
prose, L ´ Arrière- Pays (1972) e Rue Traversière (1977). Sposato nel
1968 con la pittrice americana Lucy Vines, nel 1972 ha una figlia,
Mathilde, oggi regista. Dal 1981 viene nominato alla cattedra di “Studi
comparati della funzione poetica” al Collège de France. Una curiosità:
nel romanzo di Leonardo Sciascia Candido ovvero un sogno fatto in
Sicilia, compare proprio Bonnefoy (autore, non a caso, di un testo
intitolato Un sogno fatto a Mantova, tradotto da Sellerio nel 1979).
Ma
torniamo all’avventura surrealista. Dopo una prima adesione al
movimento, già nel 1947 Bonnefoy rifiuta di firmare un manifesto
surrealista. Motivo del distacco è il rimprovero, rivolto a Breton e
compagni, di sostituire alla realtà una surrealtà. Eccoci al centro
della sua ispirazione: attingere a una sorta di infanzia linguistica,
per ritrovare, come è stato detto, la nativa vicinanza delle parole e
delle cose minacciata dalla concettualizzazione e dall’astrattezza. Da
qui la violenta polemica con Valéry. La sua indagine vuole restare
ancorata alla sfera mondana, e lo dimostrano sia il titolo della prima
raccolta ( Anti- Platone), sia l’intento di «restituire all’oggetto
terrestre la sua vocazione all’assoluto».
Come mi capitò di
notare, il suo universo lirico pare ridursi ad alcuni elementi
primordiali (pietra, fuoco, sangue, spada, vento, albero, schiuma,
acqua, ferro, terra, lampada, alba, uccello, riva, stella), “sostanze”
che formano un dettato chiuso e sigillato, spesso ermetico, benché
animato da misteriose, vivissime presenze. Possiamo dire insomma che la
sua scrittura, in versi o in prosa, abiti una dimensione fatta di enigmi
e presagi, come si legge in uno dei suoi capolavori, L’Arrière- Pays
(1972), ossia L’entroterra, uscito da Donzelli nel 2004. Quando una
strada si leva, scoprendo in lontananza altri percorsi nelle pietre;
quando il treno si infila in una stretta valle, all’imbrunire, passando
davanti a certe abitazioni dove per caso si accende una finestra; quando
la nave segue da vicino una costa, mentre il sole ha un bagliore su un
vetro distante; quando il mistero tocca per un attimo cose umili quali
uno specchio consunto, un cucchiaino di stagno, un giardino scorto
attraverso una siepe — ebbene, quando ciò accade, allora la realtà
sembra dischiudersi e divaricarsi come a un bivio. Che nome hanno quei
villaggi laggiù? Perché sta ardendo un fuoco su quella terrazza? Chi è
che ci fa segno? A chi è rivolto quel saluto?
Epifanie,
apparizioni, presentimenti, costituiscono un tratto inconfondibile della
sua ricerca, e a partire da questa idea di soglia della percezione,
Jean Starobinski ha individuato il sussistere di un atteggiamento
gnostico, rimpianto di una perdita originaria: «In simili occasioni, è
rapida in me una particolarissima emozione. Credo di essere vicino, mi
sento chiamato alla vigilanza. Basta un cenno perché l’essere e la sua
luce si divida, e io mi senta in esilio». Ecco, Bonnefoy ci ha lasciato,
ma lasciandoci un inesausto desiderio di senso e insieme di fratellanza
verso il Creato.