Repubblica 20.7.16
La Turchia e i miei sei colpi di stato
di Siegmund Ginzberg
DA
BAMBINO avevo già visto i carri armati sferragliare minacciosi per le
strade di Istanbul. Era la legge marziale proclamata dopo i pogrom
anti-stranieri del settembre 1955. I golpe veri e propri erano venuti
dopo. Nel 1960, nel 1971, nel 1980, nel 1993, e ancora nel 1997, e
infine quest’ultimo. Sei in una generazione: un record. Si capisce che
non se ne possa più. E che il pronunciamento contro Erdogan sia stato
condannato anche da chi ha ragioni per avercela con lui: i curdi, i
difensori dello Stato laico, i moderati, i nazionalisti, persino chi
teme e già denunciava la sua deriva autoritaria.
Forse è proprio
questa la ragione principale per cui questo golpe era destinato a
fallire. Un colpo di Stato ha comunque bisogno di consenso, non basta la
forza bruta. Se ne possono enumerare molte altre. Anzi fin troppe. Al
punto che c’è chi addirittura dice che un golpe così maldestro Erdogan
se lo sarebbe dovuto inventare se non glielo facevano. Lui stesso ha
dichiarato che il golpe è stato «un dono di Allah», provvidenziale per
«fare pulizia » (nelle forze armate, e negli apparati giudiziari, nelle
istituzioni autonome che sono sempre state una spina nel suo fianco).
Un
ennesimo golpe era incomparabilmente più impopolare, suscitava molta
più preoccupazione e avversione della prospettiva di un Erdogan
pigliatutto. «Ne ho visti cinque, di colpi di Stato. Soprattutto non
vorrei vederne un altro» mi aveva detto, quando recentemente ero andato a
trovarlo nella sua antica casa affacciata sul Bosforo, un anziano
intellettuale laico, pure estremamente critico e preoccupato per le
derive del “Sultano” e l’esacerbazione di tutte le spaccature nel Paese.
Ero
stato io a sollevare sistematicamente con tutti i miei interlocutori un
tema che li metteva a disagio. Quasi nessuno, nemmeno tra chi considera
Erdogan una sciagura assoluta, mi aveva risposto: «Golpe? Magari». La
risposta prevalente era stata: «Non si può escludere. In futuro. Se la
situazione si deteriorasse, se ci fosse un collasso economico, o una
guerra, se la Turchia piombasse nel caos e nella guerra civile. Ma certo
non adesso. Sarebbe una follia. Nessuno può volerlo. Non la gente. Non i
generali. Nessuno può volerlo all’interno, nemmeno gli oppositori più
arrabbiati. Nessuno all’esterno, né gli amici né i nemici, certo non
l’Europa, non l’America, ma nemmeno la Russia… ». E mi avevano fatto
notare che l’esercito turco non è quello egiziano o siriano. Mantiene un
prestigio assoluto, è sempre stata ed è ancora l’istituzione più
rispettata. Come si è visto anche negli ultimi scabrosi frangenti.
Nel
1960 a intervenire era stato un gruppo di giovani ufficiali, che
dichiarò di essersi sollevato contro ruberie e corruzione dei governanti
e per “ripristinare la democrazia”. Il ministro dell’Interno si era
suicidato. Poi avevano processato e condannato a morte primo ministro e
presidente. Quello del 1971 fu il primo dei golpe “mediante memorandum”,
contro un governo di centro-destra: era stato presentato come una
risposta al caos del ’68 turco.
Il golpe del 1980 fu il più
violento: 50 giustiziati, mezzo milione di arresti, centinaia di morti
in carcere. Anche quello fu presentato come necessario per mettere fine
agli scontri tra destra e sinistra che stavano soffocando il Paese. Finì
con lo sterminio della sinistra. Il golpe del 1993 fu il più
misterioso, tanto che tra strategia della tensione e servizi deviati non
fu neanche annunciato.
I pronunciamenti del 1997 e 2007 furono
definiti “post-moderni” perché i militari non dovettero nemmeno mettere
in campo i carri armati. Cercavano di impedire l’ascesa del partito
islamico. Finirono per favorirla. L’Europa faceva il tifo per i governi
democraticamente eletti. Approvò quando Erdogan fece arrestare e
processare i generali felloni. E poi quando epurò i servizi segreti dai
seguaci del suo ex alleato islamico Gülen. Storcere il naso sarebbe
sarebbe stato come prendere negli anni ’30 la parte dei seguaci di
Trockij contro Stalin.
Quando lo scorso maggio il capo di Stato
maggiore delle Forze armate era comparso a sorpresa come testimone alle
nozze della figlia minore di Erdogan con un rampollo di magnati
dell’industria della Difesa, apparve suggellata la pace tra militari e
presidente islamico. Non per tutti evidentemente. Ma i golpe non si
fanno se si è in minoranza nelle forze armate.
Una costante dei
golpe turchi che hanno avuto successo è che i militari riuscivano a
presentarsi come arbitri, interpretavano o pretendevano di interpretare
in qualche modo i sentimenti di una maggioranza del Paese. C’è persino
chi sostiene che abbiano svolto una sorta di funzione di bilanciamento,
di composizione ponderata tra forze in rotta di collisione. I militari
soppesavano, valutato con attenzione da che parte tirava il vento della
maggioranza dell’opinione pubblica. Stavolta, a quanto pare, hanno
fatto, o gli hanno fatto fare l’esatto opposto.
L’autore è scrittore e saggista ed è nato a Istanbul, in Turchia