Corriere 20.7.16
Il programma di Trump: trasformare le paure in voti
di Massimo Gaggi
Donald
Trump, poi il deserto. Sul palco della convention sfilano comparse che
recitanoil testo che scorre su uno schermo. La conclusione è sempre la
stessa: «Se vuole tornare grande, l’America deve affidarsi a Trump». Una
giornata passata a discutere se alcune frasi della moglie Melania sui
valori di Donald e l’impegno per consegnare ai figli un’America migliore
siano state copiate dal discorso di Michelle Obama alla convention
democratica del 2008 dà la misura di questo vuoto pneumatico. Che è un
effetto voluto da un candidato allergico agli impegni programmatici, ma
abilissimo nel trasformare insicurezze e paure in consenso .
L a
prima giornata della «kermesse» è stata dedicata alla paura per la
sicurezza perduta. La seconda, apparentemente più costruttiva, al «che
fare» per dare lavoro agli americani. In realtà, nonostante il tasso di
disoccupazione Usa sia più che dimezzato durante la presidenza Obama
(ora è al 4,9 per cento), anche qui domina il catastrofismo: economia
malata, lavori precari, ceto medio in rovina.
Che le cose non
vadano bene nonostante le apparenze è sicuramente vero: Trump cavalca un
malessere reale del ceto medio e del proletariato conservatore
impoverito. Per capirlo, più che ascoltare gli oratori della
“convention”, bisogna uscire fuori dal suo perimetro blindato e
infilarsi nella folla variopinta di fan e avversari di Trump tra i quali
spicca, oltre a quella dei «bikers», i trumpiani arrivati a cavallo
delle loro Harley Davidson , la tribù dei «Truckers for Trump». È
l’avanguardia arrabbiata e spaventata dei 3,5 milioni di autisti di
camion e autotreni d’America, i primi professionisti del volante che
rischiano di perdere il lavoro con l’avvento dei veicoli che si guidano
da soli.
Cosa promette loro Trump? Il muro per bloccare gli
immigrati messicani che si prendono i lavori più umili, la fine del
«free trade», il ritorno in America delle fabbriche emigrate in Cina.
Misure che, nella sostanza, hanno poco senso: i campionisti e molti
altri perdono il lavoro per via dell’automazione, non per colpa del
libero scambio o della globalizzazione. E le fabbriche che tornano negli
Usa sono solo quelle che possono essere riempite di robot: di posti di
lavoro ne producono pochini.
Ma il messaggio funziona comunque
perché il superimbonitore Trump sa porrlo in modo seducente, sa
stuzzicare i timori, giocare sulle insicurezze, magari indirizzandole su
bersagli fasulli. L’economista conservatore Tyler Cowen, per dirne una,
lega il malumore del ceto medio impoverito anche all’angoscia dei «baby
boomers» che oggi hanno dai 55 ai 64 anni: hanno un risparmio
previdenziale medio di 110 mila dollari e un’aspettativa di vita
superiore ai 20 anni. Significa che dovranno vivere, in media, con 23
mila dollari l’anno (16 mila di assegni della previdenza sociale e 7
mila di pensione privata). Pensioni vicine alla soglia di povertà che
provocano rabbia e malessere ma delle quali non è certo colpevole Obama:
sono figlie della crisi finanziaria del 2008 (a sua volta figlia della
«deregulation» reaganiana) e della parziale privatizzazione del sistema
pensionistico con la responsabilizzazione del singolo lavoratore che
doveva diventare l’assicuratore di sé stesso.
Insomma, se si
comincia ad andare a fondo sui fenomeni le cose cambiano aspetto: allora
meglio restare in superficie facendo il surf sugli slogan populisti. Si
spiega così questa «convention» apparentemente sbilenca, disertata
dagli esponenti repubblicani di maggior peso (sbeffeggiati senza pietà
dal team Trump: i due ex presidenti Bush definiti «puerili,
bambineschi», il governatore dell’Ohio John Kasich liquidato come un
personaggio «petulante e imbarazzante») e zeppa di mezze figure.
Tanto
che, a parte Melania, il protagonista assoluto della prima serata è
stato un vecchio arnese come Rudy Giuliani, ripescato dalla soffitta
della politica americana dopo i suoi falliti tentativi presidenziali di
quasi dieci anni fa.
Quello che doveva essere il pezzo forte della
serata, l’attacco a Hillary sulla gestione della crisi di Bengasi con
le testimonianze dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime, si è
risolto in una narrazione confusa, prolissa, ripetitiva alla quale
nemmeno i delegati si sono appassionati. Ha scosso di più la platea lo
sceriffo nero di Milwakee, David Clarke, col suo «blue lives matter»
contrapposto al «black lives matter» degli attivisti afroamericani. Il
richiamo alle divise blu dei poliziotti ha suscitato l’ovazione più
convinta della serata in una città nella quale per tutto il giorno la
folla della «convention» non ha fatto altro che ringraziare gli agenti.
Il
senatore dell’Arkansas Tom Cotton, un emergente della nuova onda
populista, è quasi invisibile col suo intervento incolore, subissato
dalla «verve» del sindaco della «tolleranza zero» che promette un Trump
capace di «fare in America quello che io ho fatto a New York». Poi
Giuliani rivela: «Donald ha un cuore grande, è un benefattore generoso,
ma non vuole che si sappia».
Alla fine il dato politico più
significativo viene dall’intervento di Melania. Avrà pure copiato, ma in
una serata di rabbia, frustrazione e America in rovina, lei è l’unica a
puntare su un messaggio positivo: Donald, il miliardario che ha voltato
le spalle a Wall Street, aiuterà i deboli, gli impoveriti. In realtà
Trump sta per annunciare nuovi tagli fiscali di cui dovrebbero
beneficiare soprattutto i benestanti, ma a lui gli elettori concedono
assegni in bianco: è questa la chiave elettorale del successo del
«tycoon» che prova a travestirsi da Robin Hood .