Repubblica 20.7.16
Intellettuale e agente Cia Marcuse uomo a due dimensioni
Gli
ultimi studi lo confermano: il filosofo più amato del ’68 lavorò per i
servizi segreti americani anche dopo la caduta del nazismo
di Angelo Bolaffi
«Alla
fine della guerra i comunisti in Francia e in Italia erano
probabilmente così forti che un tentativo di presa del potere sarebbe
stato giustificato. A impedirglielo fu non solo la presenza delle truppe
alleate ma anche l’interesse dell’Unione sovietica di evitare una
aperta rottura della alleanza militare. In questa situazione i comunisti
sono evidentemente giunti alla convinzione di poter arrivare al potere
tramite la collaborazione a una coalizione di governo (…) La
spettacolare crescita del comunismo in Francia e in Italia sembra dovuta
alle specifiche condizioni che esistono nei due paesi. In Italia un mix
di dominio fascista e di sconfitta bellica ha prodotto un vuoto
politico
di cui ha approfittato un dirigenza comunista estremamente capace e
brillante». Così Herbert Marcuse nella introduzione a un documento di
analisi strategica datato 1 Agosto 1949 intitolato The Potentials of
World Communism redatto dall’Office of Intelligence Research del
ministero degli Esteri americano. Dunque il filosofo che negli anni di
Weimar aveva per primo pensato di integrare l’esistenzialismo di
Heidegger (di cui poi divenne critico implacabile) con l’opera di Marx,
l’icona filosofica della ribellione giovanile del ’68 in Usa e in Europa
e per questo messo sotto osservazione dalla Fbi, l’autore di bestseller
planetari come L’uomo a una dimensione o Eros e civiltà, il critico
intransigente della “tolleranza repressiva” delle società di
tardo-capitalismo di cui proprio quella americana era per lui il
prototipo, ha collaborato con i servizi di informazione statunitensi.
La
notizia ha certo del clamoroso anche se voci in tal senso erano
circolate già ai tempi della rivolta studentesca. Ovviamente la vicenda
venne allora giudicata con estremo sospetto e condannata con molta
durezza. Memorabile in tal senso la contestazione, durante una
conferenza tenuta da Marcuse a Roma nel giugno del 1969 al teatro
Eliseo, di Daniel Cohn-Bendit, che chiese al filosofo tedesco-americano
di giustificarsi per quei suoi «scandalosi trascorsi» con la Cia. A dire
il vero almeno da quando tra il 1975 e il 1976 era stato tolto il
segreto che copriva le attività svolte dalla sezione Mitteleuropa del
Research and Analysis Branch (R&A) e dalla sezione ricerche e
analisi del Office of Strategic Services (Oss), poi inglobato nella Cia,
e grazie alla pionieristiche ricerche di Alfons Söllner documentate nei
due volumi apparsi in Germania nel 1986 col titolo
Zur
Archäologie der Demokratie in Deutschland, si sapeva che durante il
Secondo conflitto mondiale alcuni intellettuali ebrei poi costretti ad
attraversare l’Atlantico per sfuggire alle persecuzioni naziste avevano
collaborato con le autorità americane fornendo analisi della società
tedesca, delle ragioni della sconfitta delle forze democratiche e
repubblicane e dei meccanismi di funzionamento del regime del III Reich.
E che anche Franz Neumann, cui si deve la prima analisi sistematica del
regime nazionalsocialista apparsa nel 1942 col titolo di Behemoth, e
Otto Kirchheimer, il geniale allievo socialdemocratico di Carl Schmitt e
dello stesso Marcuse, avevano cooperato con il governo americano anche
dopo la fine della guerra. Per agevolare l’opera di denazificazione
della Germania e poi, scoppiata la Guerra fredda in Europa, per
respingere la minaccia del totalitarismo sovietico.
Solo che fino
ad oggi non era stato possibile individuare con certezza l’autore delle
singole analisi. Adesso grazie a un imponente lavoro d’archivio condotto
dallo studioso italiano Raffaele Laudani negli US-National Archives del
Maryland è stata fatta piena luce su un capitolo fondamentale
dell’emigrazione ebraico-tedesca «da sponda a sponda», secondo la felice
formulazione di H. Stuart Hughes. Dunque conosciamo la paternità dei
singoli documenti che lo stesso Laudani ha raccolto e pubblicato in un
volume di quasi 800 pagine apparso prima in inglese ( Secret Reports on
Nazy Germany. The Frankfurt School Contribution in the War Effort,
Princeton University Press, 2013). E proprio in questi giorni in tedesco
col titolo Im Kampf gegen Nazideu-tschland.
Die Berichte der
Frankfurter Schule für den amerikanischen Geheimdienst 1943- 194 9
(Campus Verlag Frankfurt/ New York 2016) nella collana ufficiale
dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte diretto da Axel
Honneth, che in questa carica ha preso il posto di Jürgen Habermas.
La
scelta di ritradurre in tedesco, nella lingua madre degli autori, testi
che questi avevano scritto in inglese ha una ragione stilistica e una
politico-simbolica. Infatti quando Herbert Marcuse, Franz Neumann e Otto
Kirchheimer redassero i loro report per il servizio segreto americano
parlavano un broken English, quell’inglese zoppicante tipico degli
emigranti, che aveva fortemente limitato le loro capacità espressive
rendendo molto faticosa la loro lettura e in qualche caso anche la loro
comprensione. Inoltre nel riferire in inglese citazioni e brani tratti
da giornali, riviste e saggi tedeschi gli autori erano incorsi in
numerose imprecisioni o commesso veri e propri errori. Come ad esempio
usare differenti termini inglesi per la medesima parola tedesca. Inoltre
la decisione di ritradurre in tedesco questi scritti dall’esilio è un
simbolico gesto di gratitudine morale nei confronti di chi si era
impegnato nella lotta contro la Germania nazista. Il riconoscimento che
l’attività politica e culturale di chi aveva scelto la via dell’esilio e
poi esaminato criticamente la realtà della società americana ha
costituito uno dei presupposti spirituali che hanno consentito la
straordinaria metamorfo-si, quel «lungo commino verso Occidente» come
l’ha definito lo storico Heinrich Winkler, che ha fatto della odierna
Germania un paese democratico e liberale.
Un gesto, quello
compiuto dall’Istituto per le ricerche sociali di Francoforte, che
inoltre archivia definitivamente la drammatica frattura, politica e
filosofica che negli anni ’40 aveva contrapposto, come bene ricostruisce
Laudani nella sua ampia e documentata introduzione (e conferma lo
stesso Honneth) Adorno, Max Horkheimer e Friedrich Pollock a Neumann,
Kirchheimer e Marcuse. I primi convinti che il fenomeno del nazismo
fosse parte di una più generale processo di trasformazione che
comprendeva tanto il comunismo sovietico che le società democratiche
dell’occidente e parlavano per questo di Staatskapitalismus, di un nuovo
ordine sociale in cui le ragioni del potere aveva- no definitivamente
sostituito quelle del profitto. Una visione catastrofica e pessimistica
che accomunava Hitler, Stalin e Roosevelt, Auschwitz, il Gulag e
Hollywood da cui nacque il colossale abbaglio chiamato Dialettica
dell’illuminismo. I secondi convinti invece che il nazismo fosse una
forma di capitalismo monopolistico tendenzialmente totalitario contro
cui si poteva e doveva combattere in nome dei valori dell’illuminismo e
della emancipazione politica e sociale.
Ragione per cui, dopo la
caduta del nazismo, ritennero necessario proprio in nome del “vero” Marx
opporsi al “marxismo sovietico” e alle minacce del nuovo totalitarismo
di Mosca, restando al tempo stesso critici delle degenerazioni del
tardo-capitalismo americano.