mercoledì 20 luglio 2016

Corriere 20.7.16
Dentro la schizofrenia. L’universo pietrificato
Un male misterioso di cui non conosciamo le cause
Chi ne soffre finisce per assomigliare a un androidencapace di compiere solamente gesti meccanici
di Pietro Citati

si ringrazia Serena Petruzzo


Quando Sigmund Freud fu sul punto di concludere le proprie ricerche sul sogno, scrisse che, dopo di lui, restava aperto un compito immenso: indagare i desolati territori della schizofrenia. Pensava che essa avesse una causa, la quale poteva essere analizzata e scoperta.
Gli studiosi di oggi, come Christopher Bollas, che ha appena pubblicato un ottimo libro: Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia (Raffaello Cortina, traduzione di Paola Merlin Baratter, pp. 184, e 21), rifiutano di rispondere a questa domanda. Non possiamo sapere quale sia la causa della schizofrenia: se sia l’esito di cause genetiche, o di eventi legati alla prima infanzia; se sia conseguenza di uno choc sessuale o di un incidente. Bollas non rivela cause: si accontenta di descrivere; e lo fa mirabilmente, come del resto quasi tutti coloro che lo hanno preceduto, tra i quali Marguerite A. Sechehaye ( Introduction à une psychothérapie des schizophrénes , Puf, 1954; Diario di una schizofrenica , Giunti, 1962), o Ronald D. Laing ( L’io diviso , Einaudi, 1969). Gli analisti della schizofrenia sono narratori eccellenti: in primo luogo perché essa è un paesaggio straordinario, che risveglia le nostre qualità di narratori. Bollas preferisce parlare di schizofrenici piuttosto che di schizofrenia. Ognuno di essi è un caso unico e irripetibile, che va raccontato in un «ritratto».
Appena lo guardiamo, ci accorgiamo che lo schizofrenico vive lontano da ciò che noi chiamiamo realtà. Egli possiede libertà, potere, creatività: ma la libertà e il potere sono esercitati nel vuoto; mentre la creatività è soprattutto il dono di generare fantasmi. A volte, creder di aver ucciso il proprio io, allo scopo di evitare di essere ucciso. Se si adatta agli altri come l’ultimo dei conformisti, lo fa per esprimere la propria ostilità verso se stesso. Ora vive in una condizione di totale isolamento dagli altri: ora è attaccato ad essi come un’ostrica al sasso del mare. Teme di provare simpatia per qualcuno, perché pensa di poter diventare come lui: oppure si sente vulnerabile, esposto allo sguardo di Medusa; acutissimamente consapevole di sé come di un oggetto visto dal di fuori. Ogni amore è impossibile. La paura prende il posto dell’amore. Nulla si muove: nulla è vivente; ogni cosa è morta, compreso l’io. Invece di un rapporto creativo con altre persone, avviene un rapporto tra cosa e cosa: lo schizofrenico crede di essere penetrato, risucchiato, fatto a pezzi. Talora gli sembra di essere divenuto tutt’uno col mondo: il cielo e gli alberi, l’erba e i fiori; amato e abbracciato dal proprio ambiente. Ma, subito dopo, egli è terrorizzato dal pericolo di essere trasparente, e di perdere la propria identità.
Se vuole evitare di essere scoperto, non gli resta che diventare invisibile: o uno straniero; o una spia in incognito. Oppure genera una o più controfigure, che lo sostituiscono. Tutte le sue trasformazioni non sono che un terribile e (talora) divertente gioco. Nel profondo, egli vuole nascondersi. Comincia a muoversi in modo diverso dal solito: a strattoni, come se fosse afferrato da esseri invisibili e cercasse di evitarli: oppure non cammina, ma scivola sinuosamente: ripete a lungo un solo gesto, congelato nell’aria: si osserva le mani, strofina un braccio contro una gamba, come se stesse lucidando un oggetto prezioso; o resta assolutamente immobile, con lo sguardo fisso fuori dalla finestra, ignaro della presenza di altre persone.
Lo schizofrenico finisce per diventare qualcosa di simile a un androide, o a un robot, capace di compiere soltanto gesti meccanici. Intanto gli oggetti si risvegliano, si muovono, compiono qualche gesto improvviso e pericoloso, che sembra umano. Sia i malati sia i medici sia gli oggetti recitano un immenso testo teatrale. A volte, lo schizofrenico avverte la sensazione che qualcuno o qualcosa lo derubi di uno dei suoi organi vitali, come il fegato; e getta un urlo, in modo sempre più insistente, furibondo e aggressivo. La catastrofe è prossima. L’io scompare, davanti ai nostri occhi, fagocitato da una tremenda psicosi.
Per bandire il mondo, lo schizofrenico bandisce ogni sensibilità dal proprio io: diventa freddo come la pietra e il ferro; e il suo sguardo cerca di trasformare gli uomini in un sinistro corteo di sassi. Vaga così, col cuore vuoto, col cuore spento, col cuore di pietra. Qualche volta aspetta disperatamente che un’ondata di amore torni a scaldare il mondo, che egli stesso ha gelato. Spesso i suoi gesti, sempre più artefatti, le sue parole, ora barocche ora ellittiche, e i suoi inquietanti bons mots non hanno nulla di umano.
Col cuore di pietra, lo schizofrenico guarda gli spettacoli della realtà. Li vede attraverso un velo: i suoni gli giungono attraverso un muro; e gli sembra che una spessa membrana gli ricopra la pelle. Le cose gli appaiono lontanissime, o vicinissime e rimpicciolite: sbiadite, senza contorni — pochi alberi stenti, pochi edifici abbandonati, poche lampade a gas spente. La terra gli è sconosciuta. Ogni uomo che vede, ogni persona che incontra, ogni pensiero che attraversa la sua mente gli sembra irreale. Incapace di varcare la barriera invisibile, si schiaccia una sigaretta sulla mano, si preme un dito contro gli occhi, si strappa delle ciocche di capelli, come se soltanto il dolore potesse restituirgli il senso della realtà. Tutto è vano. Tutto il mondo è soltanto un vuoto e assurdo spettacolo di teatro. L’universo è diviso, spezzato, strappato in milioni di parti, che non hanno nessun rapporto tra loro.
Se lo schizofrenico torna a guardare se stesso, gli sembra di essere un’altra persona. Quando si sente parlare, è un altro che parla: quando gestisce, mangia e cammina, è l’altro che gestisce, mangia e cammina; un altro incontrato chissà dove. Egli è soltanto un remoto e indifferente spettatore: una marionetta o un morto vivente, lasciato da Dio sulla terra; un oggetto, abbandonato a caso sulla scena del mondo. Conosce un solo spiraglio di salvezza, che, per qualche istante, gli da un sollievo apparente: sta perfettamente immobile, con lo sguardo fisso e le braccia tese; sale su una seggiola, e ferma le lancette della pendola. Quando gliene chiedono la ragione, risponde: «Voglio fermare la marcia del mondo verso la catastrofe. Voglio immobilizzare il corso del tempo, fermare l’eternità». Fissa una macchia di vernice sul muro, o una macchia di ruggine sul tovagliolo; e si afferra con gli occhi alla macchia, la penetra, l’attraversa, sprofonda nell’ultimo dei suoi atomi — fino a quando quel punto minuscolo diventa l’unico mondo esistente.
L’universo è completamente pietrificato. Lo schizofrenico abita nel paese del freddo, che egli stesso ha creato. «Io sono imprigionato — dice — in una zona di ghiaccio, sono perduto nella pianura ghiacciata della Russia. Io sono irrigidito nel gelo. Del fuoco, per favore, del fuoco!». Se è una donna, immagina di diventare la «regina del Tibet». Vive sola, in un Paese lontano, separato da tutti i Paesi, dove l’entrata è proibita. Non regna sugli uomini: ma soltanto sulla «solitudine deserta e ghiacciata dell’implacabile luce elettrica». Tace. Le pochissime parole che escono dalle sue labbra sono segni cifrati che nessuno comprende. Infine, arriva veramente al di là, oltre la vita, oltre il dominio della schizofrenia, nel vuoto, nel nulla, dove nessun grido spezza il mortale silenzio dell’invincibile notte.