Corriere 18.2.16
La rivoluzione del Dante minore
Esperimenti letterari in latino
Le nuove prove dell’autenticità nelle due parti dell’Epistola a Cangrande
di Paolo Di Stefano
Parlare
di un Dante minore è un paradosso, perché anche il Dante delle epistole
occasionali o delle egloghe è pur sempre uno scrittore maggiore, fuori
dall’ordinario. Anche fuori dal suo capolavoro, l’Alighieri, fino alla
fine, non si stanca mai di sperimentare, di provare nuove strade
letterarie, di forzare le convenzioni. Fa un certo effetto, per esempio,
immaginarlo in piena attività, negli ultimi suoi anni di vita, nel
tranquillo soggiorno ravennate, circondato dai figli e ormai ammirato e
gratificato da un crescente circolo di adepti: ancora febbrilmente
intento alla conclusione del Paradiso , respinge — per raccoglierla a
suo modo — la proposta di dedicarsi a un componimento in latino di
argomento politico. L’invito (o la sfida) gli era arrivata da un
prestigioso retore e grammatico bolognese convinto della superiorità del
latino sul volgare, l’interlocutore privilegiato Giovanni del Virgilio,
il quale gli aveva promesso una corona poetica a Bologna capace di
garantirgli un trasferimento e magari qualche aggancio nell’ambiente
universitario. Il risultato, in forma di corrispondenza poetica con il
magister preumanista Giovanni, è l’unica opera dantesca in versi latini
che ci sia giunta: quattro carmi con cui, rivendicando tra l’altro la
qualità e l’altezza del suo poema in volgare, l’Alighieri approda, poco
prima di morire, a traguardi ancora una volta innovativi, per non dire
sconvolgenti, rispetto ai modelli contemporanei.
Ora questa
incredibile padronanza dantesca della poesia latina viene valorizzata e
commentata da Marco Petoletti nel volume V della Nuova edizione
commentata delle Opere di Dante (Necod) pubblicata da Salerno per il
Centro Pio Rajna. È Enrico Malato, nella Premessa, a parlarci della
complessa iniziativa nelle sue linee programmatiche che si riassumono in
alcuni principi generali: attenzione rigorosa, partendo dai testi
accertati, alla ricostruzione letterale dei testi e impegno
critico-esegetico che tenga conto dello sviluppo più recente degli studi
danteschi senza cadere in eccessi iperspecialistici. Questo nuovo
volume, che fa seguito ai commenti di Vita Nuova e Rime , Convivio , De
vulgari eloquentia e Monarchia , contiene, oltre alle Epistole e alle
Egloge , la Quaestio de aqua et terra , il trattato cosmologico di cui
non esistono testimoni manoscritti, ma solo una stampa del 1508. Le
singole opere vengono affidate a curatori diversi, con relative
introduzioni e note al testo, precedute da una utile Introduzione
complessiva di Andrea Mazzucchi, che mette in luce le più significative
acquisizioni dei vari commenti, offrendo quindi al lettore diverse
opzioni di lettura, dal più piano al più articolato.
Tornando alla
Quaestio , l’operetta scientifica latina che tratta la distribuzione
delle acque e delle terre sul globo, va detto che la sua attribuzione a
Dante è da sempre stata oggetto di discussione: considerata certa da
Michele Barbi nella fondamentale edizione delle Opere del 1921, è stata
autorevolmente esclusa da Bruno Nardi e rimessa in dubbio di recente da
Marco Santagata in virtù delle incongruenze rispetto alla caduta di
Lucifero sulla terra, descritta nell’ Inferno . Ora Michele Rinaldi si
schiera per la paternità dantesca sulla base di un numero notevole di
coincidenze con i testi danteschi e di fonti comuni utilizzate secondo
letture singolari. Ma viene richiamato come elemento decisivo il fatto,
anch’esso imperituro oggetto di confronto critico, che il figlio di
Dante, Pietro Alighieri, commentando i versi della caduta di Lucifero,
ricordi una disputa sullo stesso argomento (acqua e terra) sostenuta dal
padre a Verona all’inizio del 1320. Se è vero che la testimonianza
filiale non si sottrae a fondati sospetti di autenticità, Rinaldi offre
inedite pezze d’appoggio alla sua tesi richiamando alcuni passaggi delle
postille alla Commedia contenute nelle cosiddette «Chiose Cassinesi»
(conservate in un manoscritto trecentesco dell’Abbazia di Montecassino).
A
proposito di attribuzione e di autenticità torna ovviamente la
questione (anch’essa ancora aperta) della Lettera a Cangrande della
Scala, che ha trovato eserciti di detrattori radicali, di mezzi fautori e
di fautori convinti. L’Epistola XIII viene collocata in un capitolo a
sé rispetto alle precedenti: del resto, è noto che le lettere latine di
Dante, come le Rime , non si compongono in un corpus organico e omogeneo
strutturato dall’autore. Per le prime dodici, Marco Baglio, motivata la
disomogeneità della raccolta, illustra di ciascuna le ragioni
politiche, personali e ideali all’interno della tormentata biografia
dantesca (in particolare il vagabondaggio e le instabilità anche
intellettuali dell’esule), ma individuando anche nodi tematici e tessere
lessicali riconducibili alla Commedia e non solo.
Alla faccenda
più spinosa si dedica Luca Azzetta, anche con argomenti stilistici e
strutturali che conducono a confermare l’autenticità della lettera nelle
sue due parti (la seconda in particolare è quella che suscita da sempre
maggiori perplessità). L’Epistola a Cangrande si presenta, nella breve
sezione iniziale, come la manifestazione di amicizia al signore di
Verona presso cui Dante ebbe ospitalità in un periodo situabile tra il
1316 e la fine del 1319, prima di abbandonare la corte scaligera per
ragioni che rimangono oscure. Allo scopo di conservare l’amicizia, Dante
offrirebbe in dono a Cangrande la dedica del Paradiso . La seconda
parte, più lunga, è una sorta di trattato esegetico dell’intero poema,
cui fa seguito un’analisi del proemio del Paradiso . La ricca e tarda
tradizione manoscritta che tramanda la lettera (a partire dalla metà del
Cinquecento); le tante testimonianze indirette che ne accertano la
precoce circolazione e diffusione; l’incertezza sulla localizzazione
(tra Verona e Ravenna) e sulla datazione (che oscilla tra il 1315 e il
settembre 1321); i dubbi sulla qualità della lettera: ogni aspetto ha
contribuito a far scorrere fiumi di inchiostro, anche perché
l’autenticità o meno della lettera comporta argomenti cruciali come
quello della titolazione del poema (proprio nell’epistola vengono
illustrate le ragioni del presunto titolo, Commedia ).
Allo stesso
Azzetta si deve, di recente, la scoperta della precoce testimonianza
contenuta nelle Chiose alla Commedia , collocabili tra il 1341 e il
1343, di Andrea Lancia, dove il celebre notaio fiorentino mostra di
conoscere la Lettera a Cangrande e di attribuirla in toto a Dante.
L’integrale paternità dantesca della lettera trova conferma, secondo
Azzetta, in una fitta serie di elementi che capovolgerebbero la diffusa
convinzione che considera la seconda parte un commento del poema
limitativo, semplicistico e «conservatore», dunque difficilmente
attribuibile a Dante: viene rivendicata, al contrario, l’efficacia
illuminante e l’originalità esegetica su alcuni snodi della Commedia .
Azzetta replica ai singoli detrattori, cercando di valorizzare il
carattere non convenzionale e anzi l’eversività (antitomistica) degli
argomenti e, simmetricamente, la novità strutturale di una lettera che
dunque andrebbe intesa non solo come unitaria ma, ancora una volta, come
un unicum . Molto affascinante: seguiranno fiumi di inchiostro.