venerdì 1 luglio 2016

Repubblica 1.7.16
 I dibattiti sul razzismo nascondono molte ipocrisie Parola di un autore (nero) ospite alle “Conversazioni”
Perché non dobbiamo più parlare di “diversità”
di Marlon James

Si penserebbe che, con l’ascesa di Donald Trump negli Stati Uniti, Marine Le Pen in Francia, il recente rinvigorirsi del movimento neonazista e del Ku Klux Klan, e con gente che all’improvviso in tutto il mondo (ma in particolar modo in Europa) si sente incoraggiata a esprimere pubblicamente il proprio razzismo, antisemitismo, sessismo, la propria omofobia, transfobia e xenofobia, questo sarebbe il momento perfetto per tener alta la bandiera della diversità. Adesso dovrebbe essere il momento di intavolare discussioni e stimolare una maggiore consapevolezza. E invece questo sembra il momento perfetto per smettere di parlarne.
O almeno smettere di parlarne come abbiamo sempre fatto. Ma perché proprio ora, quando quella voce sembra più che mai necessaria? Il problema è appunto tutto questo parlare. I progressisti, in particolare, amano parlare. Ci confrontiamo sulle problematiche, esaminiamo il punto di vista conservatore (nonostante non ci venga mai restituito il favore), parliamo di soluzioni, cerchiamo perfino di essere tolleranti verso chi tollerante con noi non vuol esserlo affatto. Il problema di tutto questo dialogare è che non facciamo altro. Organizziamo dibattiti sulla diversità e invitiamo scrittori di colore, magari Roxane Gay o Junot Diaz, o un nativo americano e/o un aborigeno australiano per non trascurare i popoli indigeni. Invitiamo un gay o una lesbica, con punti extra in omaggio se l’omosessuale è di colore. Poi invitiamo qualche bianco che afferma di aver capito bene la faccenda, sebbene non sappia spiegarsi l’esplosione di contrasti razziali nei campus universitari (non sono tutti ragazzi ricchi?) o il movimento di protesta Black Lives Matter (“La vita dei neri conta”).
Non è solo che la diversità, come la tolleranza, è un risultato concepito come un obiettivo. È che troppo spesso cadiamo nell’errore di confondere le discussioni sulla diversità con il fare qualcosa di costruttivo in proposito. Potrebbe essere qualcosa che abbiamo mutuato dal mondo accademico, l’idea che discutere di una problematica equivalga grosso modo a risolverla, o quantomeno ad averne avviato il processo di soluzione. Un dibattito sulla diversità è come un dibattito sulla pace nel mondo. Dovrebbe avere come obiettivo il momento in cui non ci sarà più bisogno di dibattiti del genere. Dovrebbe essere un dibattito che lavora intensamente per raggiungere la propria irrilevanza. Il fatto però che questi dibattiti continuino a esserci significa non solo che noi continuiamo a fallire, ma che l’ingannevole sensazione di aver concluso qualcosa solo perché ne abbiamo tenuto uno ci induce erroneamente a pensare che un tentativo sia stato fatto.
Ci si potrebbe chiedere, ma non è proprio per questo che bisogna più che mai parlarne? Per riconoscere e apprezzare di più la diversità, per vincere il razzismo, il sessismo e tutti gli ismi che ci dividono? Beh, tanto per cominciare, dire che questi ismi ci dividono è sottintendere che siamo tutti colpevoli in egual misura di tale divisione. Quello che sta accadendo però è che un gruppo usa le politiche sociali ed economiche e la politica stessa per separarsi dagli altri, non sempre di proposito. Non sta alla persona di pelle nera avere una mentalità più aperta. Sta alla persona di pelle bianca essere meno razzista. Non sta alla persona transessuale dimostrare perché ha l’esigenza di usare la toilette delle donne. Sta al retrogrado oltranzista smettere di attaccare i transessuali. Il mio disagio nel venire a un tavolo a parlare di diversità è l’altrui convinzione che io abbia un ruolo da svolgere nel raggiungere lo scopo, cosa che non ho. E il fatto che a quel tavolo io debba tornarci tanto spesso dovrebbe essere la prova che queste discussioni non realizzano quello che si sono prefisse. E comunque di chi è la diversità? Accogliamo davvero la diversità, o stiamo solo allargando la messa a fuoco della lente gerarchica così che un settore della popolazione possa ampliare la sua visuale del mondo? Per qualcuno, un comprimario asiatico in un film è diversità. O una donna bianca che indossa un kimono. Ma a chi giova questa diversità? E che dire degli effetti collaterali della diversità, come l’appropriazione culturale, che alcuni vedono ancora come positiva? Stiamo davvero allargando i nostri orizzonti, o ci stiamo giusto ritagliando un pezzo di esotismo gestibile o peggio, ci mettiamo sopra la voce di un bianco o di una bianca e vendiamo milioni di copie, sfruttando così la ricchezza culturale di popoli diversi senza però accettare – o peggio ancora, allontanando in quell’istante stesso – le persone che ne fanno parte?
Perché l’altro problema legato alla diversità è che funziona sorprendentemente bene con la segregazione. Di fatto dà soprattutto ai progressisti l’occasione di sostenere a parole una cosa che potrebbero non potere o non volere mettere davvero in pratica. Beh, non è del tutto vero. Volendo, potrebbero venire a visita- re i quartieri di colore (magari per assaggiare un’autentica cucina indiana), se non fosse che temono per la propria sicurezza.
“Losco” diventa la parola in codice per individuo di pelle nera o scura o semplicemente povero. Inoltre, queste sono città progressiste che vanno orgogliose della loro diversità, eppure New York ha le scuole più segregate d’America. A Chicago, neri e bianchi conducono una vita così radicalmente diversa che in pratica è come se stessero in due città separate. Una molteplicità di quartieri significa soltanto che la molteplicità esiste, non che la gente viva, lavori o addirittura giochi insieme.
L’anno scorso, quando un amico si lamentava con me perché lo stavano cacciando da Williamsburg, quartiere di Brooklyn, io gli suggerii di rintracciare i portoricani che il suo arrivo aveva contribuito a sfrattare, e di vedere dov’erano finiti. Meglio ancora, provate a fare quest’esperimento su Airbnb. Fate alcune prenotazioni con la foto di una persona bianca. Poi cambiate quella foto con una della stessa persona abbracciata a una persona di colore.
La diversità non riesce ad arrivare a niente, perché tanto per cominciare non avrebbe dovuto essere un traguardo.
Traduzione di Paola D’Accardi