Repubblica 18.7.16
L’America senza pace
Dalle armi facili ai conflitti razziali i nodi che Obama non ha sciolto
È una stagione di Guerra civile diffusa, nella quale cittadini e forze di polizia si uccidono fra di loro
Era dal 1968 che la stagione elettorale non veniva così sporcata dal sangue
di Vittorio Zucconi
CLEVELAND
CON un agguato da perfetta guerriglia urbana, in una calda mattina di
domenica in Louisiana, l’America della violenza a mano armata, bianca o
nera che sia, celebra a modo suo l’inizio delle due settimane più
solenni della propria democrazia elettorale, le Convention dei partiti.
Fuochi che si accendono e si rincorrono nella “Nuova Normalità” globale
della paura quotidiana, dall’Europa, all’Asia Minore, all’America.
Mentre
2.472 delegati all’incoronazione di Donald Trump stanno affluendo
nell’estremo Nord dei Grandi Laghi, a Cleveland, nell’Ohio, per
barricarsi nella fortezza del loro rituale circondati da venticinque
mila agenti di polizia, al capo opposto degli Usa, nel bacino
alluvionale del Delta del Mississipi un’altra battaglia della Guerra
Civile si è combattuta. Niente di nuovo dunque sul Fronte Occidentale.
A
Baton Rouge, dove l’ultimo Ok Corral – ultimo in ordine di tempo, non
finale – si è consumato ieri, l’asfalto era ancora fresco del sangue di
Alton Sterling, l’afroamericano di 37 anni ucciso dagli agenti che lo
avevano arrestato e immobilizzato a terra, ripresi da uno smartphone
mentre lo abbattevano.
E l’aria vibrava ancora dei pianti, degli
spari e delle orazioni funebri ascoltati a Dallas neppure quattro giorni
prima, attorno alle bare di cinque agenti uccisi da un soldato reduce
dall’Afghanistan, Micah Johnson.
Dunque le solenni parole, le
preghiere interreligiose di rabbini, pastori cristiani, imam musulmani,
gli appelli delle istituzioni, le veglie e i lumini accesi non sono
serviti ad altro che a sottolineare la disperata affermazione di
impotenza fatta dal presidente Obama, quando ha ammesso di non avere più
parole e di sapere che le sue parole non sarebbero servite a niente.
La
collera, il sentimento di ingiustizia, la voglia di vendetta e la fame
di violenza che ribollono sotto la crosta di tutte le società sono state
ancora una volta più forti delle esortazioni degli uomini di buona
volontà. E ancora una volta, come sempre, la demenziale disponibilità di
armi da guerra, quelle che «un ragazzo può comperare più facilmente di
un computer» come ha detto Obama, traduce tutto in stragi.
Questo,
che vediamo puntualmente scorrere sotto le diverse bandiere della
violenza, mistica, politica, demenziale che sia, in Europa come negli
Usa, è il “New Normal”, la nuova normalità nella quale siamo costretti a
vivere, lanciando prediche pie o grida di guerra inutili. E’ la
quotidianità dei risvegli accompagnati dal caffè e dal sangue sparso nel
nome di cause senza futuro e senza altra prospettiva che il momento
della morte. E’ la paura che ci rosicchia l’anima imbarcandoci su ogni
aereo, salendo su ogni mezzo, lasciando i bambini a scuola, anche
soltanto passeggiando su un lungomare.
Non una Terza Guerra
Mondiale, ma una Guerra Civile diffusa, nella quale sono gli abitanti, i
cittadini, le forze di polizia, a uccidersi fra di loro, all’interno
della collettività stessa nella quale vivono e sono cresciuti, che siano
bianchi, afro, arabi, asiatici, nati o naturalizzati. E’ la guerra di
noi contro di noi.
La “Parrocchia” di Baton Rouge, come sono
chiamate dai decenni dell’ occupazione francese le suddivisioni
amministrative in Lousiana, credeva di avere superato, dopo lo shock di
Dallas e la mobilitazione dei leader nazionali e locali, la rabbia per
gli “omicidi di polizia” e per la convizione che le vite dei neri “Don’t
Matter”, non abbiano importanza, come è accaduto a New York, a
Philadelphia, a Los Angeles, nella Cleveland del Congresso Repubblicano,
124 volte soltanto quest’anno. Ma l’infezione si dimostra più radicata,
più profonda, dell’esplosione occasionale di sintomi.
Continua a
corrodere perchè, proprio come le due celebrazioni politiche che oggi
cominciano a Cleveland e la prossima settimana continueranno a
Philadelphia dimostreranno, nello sfruttamento della vena di odio, che
ci sono grandi occasioni di profitto elettorale o di lucro. La violenza,
la guerra di noi contro di noi, la polarizzazione della società narrata
come una dialettica di “noi buoni” contro “loro cattivi”, di credenti
contro infedeli sono il ricco nutrimento dei parassiti dell’odio.
Generano
uno stralunato desiderio di farsi giustizia, di bonificare il mondo
dagli infetti, di saldare i conti, mentre l’autorità morale delle
istituzioni, che indossino la grisaglia del ministro o il blu del
poliziotti, si frantuma. Bastano pochi criminali perchè le parole
divengano armi, le armi producano morti e la paura produce la voglia di
“uomini forti”.
Era dal 1968 che la stagione della democrazia
elettorale non veniva schizzata in maniera così lancinante dal sangue di
strade americane, che ormai non possiamo più guardare come un altro
pianeta violento, al sicuro da un’Europa che si credeva immune.
Le
Convention dei partiti, le promesse dei candidati che ascolteremo a
Cleveland e poi a Philadelphia parlano di “riunificazione” e lo farà
ipocritamente anche quel Trump arrivato sul trono dei Repubblicani
predicando la contrapposizione, ma puntando sul contrario, sul
discredito e sul disprezzo dell’avversario. E su questo sentiero di
sangue e paura del “New Normal” spera di arrivare alla Casa Bianca. Ogni
agente, diceva alla CNN un capitano di polizia tra quelli incaricati
della sicurezza alla Convention Repubblicana, ormai sente di avere un
bersaglio da tiro a segno sulla schiena, una sensazione che la follia di
permettere il possesso di armi da fuoco a chi parteciperà a
manifestazioni a Cleveland, accentua, non importa se bianco o nero.
Sotto le volte della politica a lustrini risuoneranno promesse vuote di “legge e ordine”.
Sotto il cielo della realtà parlano le armi che i difensori della “legge e ordine” diffondono.
Ascoltate gli spari, non le parole.