domenica 17 luglio 2016

Repubblica 17.7.16
A Istanbul il Sultano e a Nizza il soldato Mohamed
di Eugenio Scalfari

C’È il terrorismo e c’è il fallito “golpe” dell’esercito e la schiacciante vittoria di Erdogan in Turchia. Due fatti separati tra loro e geograficamente assai lontani, a Nizza il più recente e sanguinoso atto di terrore rivendicato dall’Is e ad Istanbul la vittoria del dittatore turco sui soldati ribelli. Ma politicamente qualche connessione tra questi fatti c’è, si era già visto ma lo si rivedrà ancora.
Il mondo intero è sconvolto da quanto è accaduto, le ripercussioni si avvertono soprattutto in Europa e in America e incidono anche sulle politiche locali.
Istanbul. Nella tarda serata di venerdì 15 sembrava che lo spirito di Atatürk fosse tornato per rinnovare laicamente e militarmente la Turchia, ma appena due ore dopo la situazione era già capovolta e all’alba di ieri il dittatore era di nuovo in sella più forte di prima. Evidentemente lo spirito di Atatürk non era affatto tornato. La storia non è mai la stessa. Per capire bene dobbiamo ricordare in che modo un secolo fa la Turchia era diventata una nazione pur essendo stata duramente sconfitta nella Prima guerra mondiale.
Kemal Atatürk era nato nel 1881 e morì nel 1938 a soli cinquantasette anni, ma non a caso per celebrare la sua scomparsa fu chiamato Grande Turco e Padre della Patria.
Da studente aveva frequentato associazioni laiche e democratiche che rappresentavano un’infima minoranza di un Paese che era il centro di un impero.
SEGUE A PAGINA 25
ARRIVAVA dal Mar Nero fino alla costa adriatica, dai Balcani fino al Marocco. Dominava il Paese la religione musulmana che aveva però ben poco dell’islamismo arabo. Il governo ottomano era guidato da un sultano e dai califfi che gli facevan corona. L’esercito, ancorché sconfitto insieme all’Austria e alla Germania, era ancora un punto forte del Sultanato e Atatürk decise di imboccare la carriera militare. Di quell’esercito diventò un alto ufficiale, ma aveva tutte le qualità e il desiderio di farne la pietra angolare del Paese.
Non trascurò tuttavia di diffondere, soprattutto tra i giovani, una cultura laica e progressista fino ad allora del tutto ignota. La civiltà inglese e quella francese erano i suoi punti di riferimento e fu con quelli che cercò di far breccia sulla pubblica opinione. Nel frattempo continuava ad accrescere il suo prestigio militare. Comandò le truppe che sconfissero l’esercito greco che tentava di impadronirsi della Turchia occidentale; difese i Dardanelli dalla pressione russa, conquistò la Tracia e allargò i confini dell’Anatolia. Ormai era il capo dell’esercito ma in breve divenne anche il capo politico in un Paese che faceva massa in suo favore. Nel 1922 abolì il Sultanato, poi abolì i canoni islamici. Nel ’23 fu proclamata la Repubblica di cui fu il presidente; una repubblica laica, della quale i giovani ufficiali rappresentavano il nucleo. Questa fu la grande rivoluzione di Atatürk che molto più tardi ispirò gli ufficiali egiziani, a cominciare da Naguib e da Nasser, che divennero la classe dirigente dell’Egitto repubblicano dopo la cacciata del re Farouk.
Ma, venendo ad oggi dopo questo inevitabile ricordo storico, la situazione della Turchia e del suo esercito non hanno nulla a che fare con Atatürk. L’opinione pubblica turca era quasi interamente con Erdogan e infatti l’esercito, insorto l’altro ieri, non aveva alcun seguito tra la gente. Ha tentato un golpe, un colpo di Stato e così l’ha chiamato. Ha mandato truppe e carri armati nelle strade delle principali città del Paese, ha occupato alcuni palazzi del potere ed ha sperato di poter costringere Erdogan alla fuga, malgrado che il Presidente avesse nelle sue mani la polizia, molto numerosa e bene armata e soprattutto la grande maggioranza della pubblica opinione. L’esercito ha invitato la popolazione a chiudersi nelle proprie case, Erdogan ha invece lanciato l’invito opposto: «Uscite in strada e opponetevi a quanto avviene» e la popolazione gli ha dato ascolto e ha preso d’assalto a mani nude i carri armati cercando di fraternizzare con i giovani soldati.
Che poteva fare l’esercito? Sparare sulla gente? Ha sparato sulla polizia che però ha assaltato alcuni contingenti militari là dove erano assai inferiori di numero e così la polizia ha avuto la meglio. Ma la pressione maggiore è venuta dalla gente e poche ore dopo tutto è cambiato. Non c’era un capo militare e politico, non c’era un Atatürk redivivo, non c’era stato alcun lavoro di persuasione. Un golpe, represso in tre ore. E questo è tutto.
***
In realtà non è affatto tutto, anzi prelude ad un Erdogan che ora vorrà dettar legge all’Europa e alla Nato di cui già fa parte. Dettar legge sui temi dell’emigrazione, dei contributi finanziari, del ruolo della Turchia in tutto il Medio Oriente, parlare con al-Sisi e con l’Egitto, visto come non affidabile. Più affidabile per Erdogan l’Arabia Saudita e qui si percepisce anche la connessione, sia pure sottotraccia, con il Califfato di Raqqa.
Qui veniamo all’altro tema fondamentale, che perseguita da anni il mondo intero dal Bangladesh a Nizza, passando anche dagli Usa e dall’Africa dell’ampia fascia che va dalla Nigeria e dal Ciad fino alla Somalia e al Sudan, alla Tunisia e alla Libia.
Il terrorismo si compone di tre elementi, distinti ma profondamente interconnessi: il Califfato che è un vero e proprio Stato con un suo Capo, un suo stato maggiore, un suo esercito, un suo territorio; le periferie del mondo, abitate dagli esclusi, dalla loro rabbia, dal loro tirocinio che vanno a fare sul territorio del Califfato oppure in casa propria dove sono aiutati da chi quell’apprendistato di terrorismo l’ha fatto dove si poteva. Infine i singoli, raggiunti attraverso il web usato con grande intelligenza da esperti specialisti del Califfato. La parola del Califfo è lo strumento che si rivolge a chiunque sia dominato dalla rabbia, da una vita economicamente e socialmente instabile o, ancor più frequentemente, da una depressione psicologica o comunque da una instabilità che lo spinge verso il desiderio del male e della morte, contro i diversi da sé, contro il mucchio che si diverte, contro un se stesso che vuol sfuggire alla propria compagnia.
A questa miriade di persone si rivolgono il Califfo e i suoi esperti che fabbricano messaggi e si annettono comunque tutti gli episodi di terrore rivendicandoli come propri, da loro ispirati e da loro riconosciuti.
La situazione che ne deriva è terribile: una guerra senza quartiere, una religione asservita al potere, della quale il mondo intero è vittima senza aver ancor individuato i mezzi e i modi di reagire. Il terrorismo ci colpisce, come, quando e dove vuole e anche come, quando e dove capita, ma noi non abbiamo ancora trovato il modo di reagire.
Ho letto ieri sul nostro giornale un’intervista del massimo interesse rilasciata da David Grossman, grande scrittore ebreo che vive a Gerusalemme, perse un figlio in Libano ed ha scritto alcuni romanzi assai significativi tra i quali “Qualcuno con cui correre”.
Fabio Scuto, che lo ha intervistato, gli ha chiesto appunto come possiamo combattere il terrorismo e lui ha ampiamente risposto. Ricorderò qui alcune di quelle risposte per commentarle e capire fino a che punto colgano il segno e siano praticabili.
Anzitutto Grossman vede gli effetti politici del terrorismo sui Paesi che più ne sono colpiti: «Il terrorismo ha una forza immensa, in grado di sconvolgere una società civile e rafforzare gli stereotipi razzisti. È probabile che le forze nazionalistiche e razziste diventino più potenti. Vedremo nel prossimo futuro sempre più governi di destra».
È un quadro molto nero, commenta l’intervistatore ed ha pienamente ragione: è un quadro molto nero ma purtroppo assai verosimile. Toccherebbe il culmine se prevalesse nelle imminenti elezioni americane la vittoria d’un personaggio come Donald Trump: riuscirebbe a cambiare l’America con conseguenze purtroppo mondiali. Una vittoria per il terrorismo e una sconfitta micidiale per la democrazia.
Un’altra risposta di Grossman è, almeno in teoria, molto azzeccata. «Ci sono mezzi per indebolire il terrorismo. Prima di tutto bisogna combatterlo militarmente nei luoghi di origine».
Questa è una tesi che personalmente sostengo da tempo e l’ho scritto più volte. Se la capitale del Califfato, la città di Raqqa, fosse espugnata, l’esercito dell’Is distrutto, lo stato maggiore e il Califfo probabilmente catturati o comunque costretti a disperdersi e a trovar rifugio senza più comparire, questa sì, sarebbe una vera vittoria. Naturalmente non verrebbe meno il terrorismo delle periferie, dei singoli combattenti, degli individui che vogliono uccidere per il piacere psicologico di uccidere gli altri e anche se stessi. Questi fenomeni durerebbero ancora anni, ma la loro intensità diminuirebbe e alla fine scomparirebbero, perlomeno come fenomeni del terrore voluto dal Califfato. Il male sulla terra c’è da sempre e sempre rimarrà, ma questo è un altro problema.
Ma la difficoltà non risolta e difficilmente risolvibile è un’altra: come si fa a sconfiggere militarmente il Califfato? Truppe americane, truppe europee delle singole nazioni, portaerei con aerei che decollano e bombardano, raid aerei continui? È possibile tutto questo?
Teoricamente sì, è possibile. Politicamente direi di no. L’America (sempre che non vada Trump alla Casa Bianca, bombarda dall’alto e può mandare un centinaio di forze speciali, ma di più non farà. L’Europa sì e no. Francia sì, bombarda, ma truppe francesi direi di no. Italia? Escluso. Non vuole partecipare a una guerra per evitare di subire terrorismo in casa propria. Qualche reparto di osservazione, qualche drone che fotografi il terreno conteso, ma niente di più. E non parliamo di Germania, tantomeno di Gran Bretagna ormai fuori da tutto.
Insomma nessuno. La raccomandazione di Grossman è affidata a eserciti “arruolati”: curdi, iracheni, forse iraniani. Turchi? Da escludere, semmai faranno affari col Califfo. Sauditi? Da escludere anche loro. Russi? Lì si dovrebbe aprire un discorso tra Putin e la Clinton (se sarà lei alla Casa Bianca) ma è un discorso molto difficile e reso ancor più difficile dal nuovo Erdogan, che domanderà molte cose all’Europa e ben poche ne offrirà.
Purtroppo a me non pare il tema sia risolvibile. Naturalmente il tempo passa e le situazioni cambiano. A volte cambiano dopo qualche anno, a volte dopo secoli, come la storia racconta.
Di casa nostra oggi non ho parlato. Voglio dire dei nostri problemi di economia e di politica. Il mondo (e noi con esso) è talmente sconvolto che le nostre questioni interne sono “bambolette” come Crozza farebbe dire a De Luca.
Una cosa tuttavia merita attenzione: il “no” al referendum costituzionale avrà ancora una adeguata condizione da poter competere con il “sì” oppure rischia di perderla?
Proprio a causa di quanto sta accadendo nel mondo gli italiani che voteranno il referendum possono rischiare di provocare una crisi di governo facendo prevalere il “no”?
L’argomento sta cominciando ad essere usato dal partito renzista. Volete provocare una crisi di governo in una situazione come quella attuale? Siete impazziti? O la faziosità vi ha tolto ogni logica ed ogni saggezza? A Renzi parlerete dopo, quando ci sarà il voto per la fine della legislatura, ma non adesso. Al peggio non votate, tanto il referendum costituzionale non ha il quorum.
Questo sarà il tema. Non privo di forza persuasiva. E vale per il referendum. Ma la legge elettorale? Il problema è quello, non il referendum. Renzi lo sa e fa capire che qualche cosa forse farà. Ma che cosa? Mistero. Liste apparentate? Mistero. Abolizione del ballottaggio tra i partiti, ma eventuale ballottaggio tra collegi? Mistero.
Ma allora, se il mistero è perenne, se lui dice di rimettersi alla Camera dove già dispone dei voti di Verdini, Scelta civica, Nuova democrazia, allora è lui che sfida il “no” al referendum e lo fa diventare un obbligo da chi sarebbe appagato da una seria riforma elettorale. Fatta adesso e non rinviata alle calende greche. Una risposta sarebbe gradita ma purtroppo non verrà.