domenica 17 luglio 2016

Repubblica 17.7.16
Nella mente del killer
Un soggetto ai margini per cui la fede è un pretesto
di Massimo Ammaniti

E’ un bisogno quasi insopprimibile chiedersi perché gli altri si comportino in un certo modo, quali siano le loro intenzioni e le loro motivazioni. Non si può vivere in un mondo incomprensibile, dobbiamo costruire delle interpretazioni che ci aiutino a dare un senso a quello che ci succede, soprattutto quando avvengono eventi drammatici come l’attentato terroristico di questi giorni a Nizza oppure quello recente a Parigi, che mettono in discussione le radici della nostra vita e della nostra identità.
A volte ci diamo delle risposte di comodo, i terroristi sono soltanto dei fanatici psicopatici che vengono sopraffatti dai meccanismi della violenza, quasi a togliere ai loro comportamenti ogni motivazione umana, un processo di alienazione che li rende simili a bestie feroci. E’ un’interpretazione povera e fuorviante anche perché gli animali aggrediscono solo per sopravvivere e non uccidono infierendo sugli altri esseri. E’ soprattutto fuorviante perché non ci aiuta a capire le radici del terrorismo, di cui dobbiamo svelare le varie forme se vogliamo cercare di ridurne l’impatto e possibilmente prevenirlo.
Risposte più complesse vengono dalla psicologia sociale: non si tratta di un comportamento individuale ma di gruppo, in cui si verificano una soggezione psicologica ed una identificazione con la figura carismatica del leader. Come mise in luce Sigmund Freud nel 1921 in un suo scritto Psicologia delle masse e analisi dell’Io il gruppo facilita la regressione a meccanismi di funzionamento primitivi, per cui viene meno la responsabilità individuale e la coscienza morale, come hanno mostrato la Germania Nazista o i regimi comunisti. Una conferma quasi sperimentale di queste dinamiche di gruppo verso il capo carismatico venne dagli studi di Philip Zimbardo negli anni ’70, nei quali venne simulata una situazione carceraria con lui stesso nel ruolo del Direttore della prigione ed un gruppo di volontari scelti fra persone particolarmente equilibrate, che personificavano in modo realistico le guardie carcerarie e i prigionieri. Nonostante fossero tutti consapevoli della simulazione la situazione divenne esplosiva: le guardie sempre più violente e intimidatorie verso i prigionieri, costretti a pulire le latrine e a subire sopraffazioni, mentre quest’ultimi cercarono di ribellarsi e di evadere. L’ingovernabilità della situazione obbligò Zimbardo ad interrompere l’esperimento, con grande sollievo dei detenuti e col rammarico di quelli che facevano le guardie. Questa ricerca ancora una volta confermò secondo Zimbardo l’effetto “Lucifero”, ossia la trasformazione diabolica che si può verificare in una persona quando interagiscano particolari disposizioni personali, ossia scarso senso critico e conformismo, con un contesto ambientale in cui prevalgano forti ideologie, gerarchie e rigide prescrizioni di comportamento.
Per tornare ai nostri giorni e ai comportamenti efferati dei terroristi che hanno seminato la morte, scavando nel loro passato si scopre che molti di loro erano stati condannati per rapine, spaccio di droga e atti antisociali sicuramente indice di una vulnerabilità personale. Solo successivamente era avvenuta la loro affiliazione nelle file del terrorismo organizzato, che ha fornito una pseudoideologia con una coloritura religiosa. Perché non è una vera fede religiosa quella che ne ha consentito la trasformazione da piccoli delinquenti a combattenti e martiri per un ideale superiore. Non va tuttavia sottovalutato quello che affermò l’antropologa Sara Reardon in un’intervista pubblicata nel 2015 sulla rivista scientifica Nature secondo cui negli Stati Uniti gli immigrati raggiungono un livello economico ed educativo accettabile in una generazione, mentre in Europa occorrono addirittura due o tre generazioni, costretti a vivere nel frattempo in condizioni di povertà da 5 a 19 volte maggiori del resto della popolazione. Ma aggiungerei che le famiglie degli immigrati negli Usa spingevano i figli ad integrarsi nella nuova comunità, rinunciando anche alla propria lingua, mentre i figli delle famiglie musulmane immigrate in Europa si trovano a cavallo fra il mondo occidentale e le rigide regole della famiglia, come mostrava in modo eloquente la storia di una famiglia pachistana in Inghilterra nel film di qualche anno fa East is East. Massimo Ammaniti è uno psicologo esperto di psicopatologia dell’età evolutiva.