Repubblica 13.7.16
Se Pechino perde la battaglia delle isole
di Roberto Toscano
LA
CORTE di arbitrato internazionale dell’Aja si è pronunciata ieri, su
richiesta delle Filippine, in merito a una controversia che vede Manila e
Pechino contrapposte sulla questione della delimitazione di acque
territoriali e zone economiche esclusive nel Mar della Cina meridionale.
Quando si parla di diritto internazionale, capita spesso di sentire lo
scettico di turno sostenere che il diritto internazionale non esiste, e
che esistono soltanto la politica e soprattutto la forza. Ma forse non è
proprio così.
La decisione della Corte di arbitrato costituisce
invece un fatto che peserà concretamente sulle future vicende della
regione, e in particolare sulla politica di una Cina sempre più
assertiva — termine che spesso costituisce un eufemismo per: prepotente.
Nel
dare ragione alle tesi delle Filippine, la Corte dell’Aja ha ribadito
(sulla base della Convenzione sul diritto del mare del 1982) alcune
importanti regole. In particolare, si tratta del fatto che, mentre il
possesso anche di uno scoglio permette di definire una fascia di acque
territoriali di 12 miglia, lo stesso non si può dire per la zona
economica esclusiva (200 miglia). La Cina, invece, pretende di fatto di
appropriarsi, basandosi sui “diritti storici” rivendicati su isolotti e
scogli, collegati unilateralmente con linee che delimitano un preteso
diritto cinese, di gran parte del Mare della Cina meridionale,
escludendo in questo modo i diritti rivendicati da altri paesi della
regione. Non solo le Filippine, ma anche Vietnam e Malaysia.
L’interesse
economico di questa pretesa di controllo su una vastissima regione
marittima si riferisce soprattutto alla presenza di giacimenti
sottomarini di idrocarburi. Ma non si tratta solo di economia. Basta
vedere cosa succede nella zona molto più a nord di quella che è stata
oggetto della decisione della Corte, e che negli ultimi mesi ha visto
riprodursi inquietanti incidenti fra Cina e Giappone. Entrambi i paesi
rivendicano la sovranità su un piccolo arcipelago che il Giappone chiama
Senkaku e la Cina Diaoyu. In questo caso si tratta evidentemente di una
combinazione di interessi economici e di pretese di controllo
geopolitico, con importanti ripercussioni sul campo della sicurezza.
La
decisione della Corte di arbitrato internazionale — che pure non si è
pronunciata sul possesso di isole e scogli, ma solo sulle ripercussioni
sul diritto marittimo — viene comunque a costituire l’occasione, al di
là del quesito sottoposto al suo giudizio, di un importante test della
futura direzione della politica estera cinese. Si tratta a questo punto
di vedere se la Cina, che aveva contestato la competenza della Corte,
rispetterà o meno la sua pronuncia. In altri termini, e al di là della
questione specifica, Pechino dovrà ora dimostrare se intende esercitare
il suo indubbio, e crescente, peso internazionale attraverso le regole o
contro le regole. Niente di nuovo, di certo. L’unilateralismo
dell’America di Bush e il revanscismo della Russia di Putin hanno
confermato la frequenza con cui le superpotenze (ma anche quelle che,
non essendolo, credono di esserlo o aspirano a diventarlo) tendono a
considerare il diritto internazionale un fastidioso limite, e pretendono
di ignorarlo.
Proprio perché il fenomeno non è nuovo, ma si può
dire costituisca uno degli snodi più importanti delle relazioni
internazionali, si spera che la Cina sia capace di trarre lezioni dalla
storia, e comprendere che la forza senza le regole può certamente
consentire di conseguire risultati in modo rapido ed efficace, ma che
discostarsi dalle regole comporta inevitabilmente dei costi. Non solo
una perdita di credibilità e soprattutto di “soft power”, ma anche e
soprattutto il fatto che senza le regole la potenza finisce sempre per
essere precaria, esposta com’è alle controspinte messe in moto dalla
reazione dei perdenti.
Se Washington — autentica superpotenza sia
economica che militare — non ha potuto ignorare impunemente il diritto
internazionale, non si vede come Pechino potrebbe riuscirci. Il pericolo
è però che queste pur inconfutabili lezioni della storia vengano
ignorate da un regime che, di fronte ai problemi e alle incognite di una
situazione economica che non permette più di dare per scontato
un’inarrestabile avanzata della crescita cinese, è sempre più tentato
dal giocare la carta nazionalista come infallibile ed imbattibile fonte
di consenso.