Corriere 13.7.16
La Cina, le isole contese e la spinta del nazionalismo
di Sergio Romano
La
sentenza con cui il Tribunale arbitrale dell’Aia non riconosce alla
Cina la sovranità sul banco di Scarborough nelle isole Spratly, al largo
delle Filippine, non cambierà la linea politica di Pechino. La
Repubblica Popolare non smetterà di rivendicare, contro i Paesi della
regione, quasi tutti gli arcipelaghi del Mare Cinese meridionale.
Continuerà a perlustrare le isole con le sue navi, ad allargare quelle
più piccole con colate di cemento e, se possibile, a costruirvi
aeroporti.
Si dice che queste zone marittime siano ricche di
petrolio e che la Cina non voglia rinunciare a una importante risorsa
naturale; ma vi sono stati momenti in cui le sue rivendicazioni, nelle
dispute con le Filippine, il Giappone, la Malaysia e il Vietnam, sono
state meno insistenti e bellicose. Esiste quindi una ragione politica
per cui questi arcipelaghi siano oggi più importanti del passato?
Esiste
ed è, probabilmente, la morte del comunismo. La Repubblica si chiama
ancora Popolare, è sempre governata da un partito comunista e stampa
moneta su cui è riprodotto il volto di Mao Zedong, il Grande Timoniere.
Ma da molti anni ormai ha smesso di giustificare la dittatura del
partito unico con i classici argomenti degli eredi di Marx e di Engels.
Non
è iscritto sul suo stemma nazionale, ma il motto della Cina d’oggi è
quello dell’invito rivolto da François Guizot ai francesi di Luigi
Filippo e ripreso da Deng Xiaoping nel corso di una famosa ispezione a
Shenzhen, nei pressi di Hong Kong, il 18 gennaio, 1992: arricchitevi.
Peccato che arricchirsi sia diventato oggi meno facile di quanto fosse
negli anni in cui il Prodotto interno lordo della Repubblica Popolare
cresceva ogni anno di una percentuale superiore al 10%. Il Paese ha
attraversato in questi ultimi anni una lunga fase in cui la crescita del
Pil è stata molto più modesta, le rivendicazioni salariali sono
diventate più frequenti, molti villaggi sono insorti contro l’esproprio
delle terre coltivabili e gli scandali hanno rivelato l’esistenza di una
classe politica sfacciatamente corrotta. Xi Jinping, segretario
generale del partito e presidente della Repubblica Popolare, lo sa e ha
colpito duramente alcuni esponenti della gerarchia del regime. Ma non
sappiamo quanto le sue purghe abbiano inciso sulla diffusione del
fenomeno.
In questa situazione il nazionalismo, mai veramente
scomparso, è diventato il surrogato del comunismo, il solo collante che
possa tenere insieme questo sterminato Paese. Come ogni nazionalismo
anche quello cinese vive di antiche glorie, ricordi dolorosi,
ingiustizie subite e umiliazioni sofferte.
Le carte geografiche,
nelle aule delle scuole cinesi, rappresentano l’Impero cinese al punto
massimo del suo sviluppo. I testi scolastici ricordano le ingiuste
guerre dell’oppio scatenate dalla perfida Inghilterra contro il debole
Stato cinese, le concessioni con cui le potenze europee si appropriarono
dei porti più importanti, i massacri giapponesi di Nanchino nel
dicembre 1937. E le isole, benché lungamente trascurate da tutti,
ricordano gli anni in cui i mari della Cina erano percorsi soltanto da
flotte straniere.
Non è probabile che la Cina, in questo momento,
ricerchi deliberatamente l’occasione di un conflitto. Nei suoi rapporti
con gli Stati Uniti, con il Giappone e con Taiwan ha sempre fatto, al
momento opportuno, un passo indietro. Ma converrà ricordare che esiste
un rapporto fra la politica estera della Cina e le sue condizioni
economiche e sociali. Speriamo che i cinesi continuino ad arricchirsi.