Corriere 13.7.16
Storia italiana
La Libia e i suoi coloni
risponde Sergio Romano
Nel
1941 (ho più di 90 anni) ero già in Libia. In guerra, come autiere del
3° Autogruppo Pesante, percorrevo senza soste, giorno dopo giorno,
quella che allora chiamavamo «Balbia», la litoranea tra Tripoli e
Bengasi. Dei numerosi villaggi lungo la strada ricordo qualche nome,
Beda Littoria, D’Annunzio, Regina Elena, e conservo una piccola
fotografia di una casa di Beda Littoria con i suoi abitanti. Mi ricordo
bene l’abitabilità: quattro locali, uno ad ogni angolo con un patio
d’ingresso. Ora mi domando: c’è l’Onu, ci sono i due governi libici, una
Europa ricca come non mai, grandi costruttori come Vinci, Impregilo,
altri Paesi, tanti con fame di posti di lavoro. Che cosa aspettiamo a
prendere una iniziativa analoga?
Francesco G. Longoni
Caro Longoni,
Lei
ha conosciuto la Libia quando il Paese era già passato attraverso tre
fasi di colonizzazione. La prima, soprattutto in Tripolitania, era
iniziata prima della Grande guerra con la lottizzazione di alcuni
terreni agricoli, ma era stata interrotta dal conflitto e dal ritiro di
buona parte delle truppe italiane dalla regione. Ricominciò quando il
governatore (un uomo d’industria e di finanza, Giuseppe Volpi) riprese
in mano il controllo del territorio e offrì al mercato circa 60.000
ettari. Ho scritto «mercato» perché prevalse allora il convincimento che
la colonizzazione avesse bisogno di capitale privato, anche se
fortemente aiutato da leggi e interventi pubblici. Il risultato, anche
dopo la partenza di Volpi, fu il notevole aumento delle famiglie
immigrate: da 455 nel 1929 a 1500 nel 1933. In Cirenaica, nel frattempo,
venivano costruiti i villaggi di Beda Littoria e Luigi di Savoia,
seguiti nel 1934 da quelli intitolati a Luigi Razza e Giovanni Berta.
Qualcosa cominciava a muoversi, ma i numeri, secondo il censimento del
1937, erano ancora, tutto sommato, modesti: 840 aziende agricole, 2711
famiglie, 12.488 persone.
La svolta fu quella impressa da Italo
Balbo, governatore dal 1934. «Esiliato» in Libia da un Duce alquanto
geloso, il quadrumviro (come erano chiamati i quattro esponenti del
fascismo che organizzarono la marcia su Roma nel 1922), ottenne
anzitutto una legge del 1938 con cui lo Stato assumeva a proprio carico
non solo le opere di interesse pubblico, ma anche il finanziamento di
tutti i lavori di trasformazione fondiaria e agraria. I coloni avrebbero
rimborsato le spese sostenute per l’avviamento del podere e riscattato
la terra con particolari modalità contrattuali. Nei piani di Balbo i
coloni sarebbero stati 20.000 all’anno per cinque anni.
I primi
partirono da Genova e da Napoli il 28 0ttobre 1938 e arrivarono
trionfalmente a Tripoli con un convoglio di quindici navi, scortate da
otto cacciatorpediniere. Un secondo gruppo, composto da 10.000 persone,
salpò dall’Italia il 28 ottobre 1939. Fu l’ultimo anno di pace. Nel 1940
la Libia sarebbe divenuta un campo di battaglia. Ma i poderi, in
Tripolitania, erano ormai 3.675 e le famiglie 3.960; mentre in Cirenaica
le famiglie erano 2.206.
Lei si chiede, caro Longoni, se un
programma agricolo di queste dimensioni potrebbe giovare alla Libia
d’oggi. Probabilmente sì, anche se l’economia della regione è
completamente cambiata. Ma non prima del ritorno alla pace. Finché non
si smetterà di combattere, le spade saranno sempre preferite agli
aratri.