mercoledì 13 luglio 2016

Repubblica 13.7.16
Perché la metro C di Roma è un pozzo di san Patrizio
Il rapporto di forza tra appaltatore e consorzio appaltante è stato capovolto
di Carlo Bonini

L’ANNUNCIO di un redde rationem giudiziario sugli appalti della linea C della Metropolitana di Roma a tre anni di distanza dall’apertura di un’inchiesta della procura della Repubblica non ha indubbiamente il pregio della sorpresa, ma sicuramente la forza “rivoluzionaria” di ricordare ad una città e al Paese intero, di cui è la Capitale, la dimensione macroscopica di una catastrofe amministrativa, contabile, politica. Che dice molto della spensierata assuefazione, inerzia e complicità con cui il governo del Paese e le amministrazioni comunali di centrodestra prima, centrosinistra poi, hanno consentito in questi anni (il progetto iniziale della linea risale al 2000) che il costo dell’investimento pubblico dell’opera — va da sé ancora incompiuta e per giunta ridimensionata nella parte qualificante del suo tracciato originario — sia già passato da un valore iniziale di 3 miliardi e 47 milioni di euro a 3 miliardi e 700 milioni. Un pozzo di san Patrizio dove il rapporto di forza tra appaltatore (ministero delle Infrastrutture e Comune di Roma) e appaltante (l’associazione temporanea di imprese composta dalle società Astaldi, Vianini Lavori, Consorzio Cooperative Costruzioni, Ansaldo Trasporti sistemi ferroviari) è stato regolarmente capovolto. Con il secondo a dettare, nei fatti, tempi di realizzazione e correzione dei costi. Forte di una capacità di ricatto che, in barba alla legge Obiettivo (di cui la Metro C sarebbe dovuta essere fiore all’occhiello), si è manifestata ora nella minaccia di ricorso ad arbitrati (in cui la parte pubblica è curiosamente e altrettanto regolarmente soccombente), ora in transazioni “capestro”. Come quella documentata nei decreti di perquisizione della procura per la quale a fronte di 1 miliardo e 800 milioni di costi aggiuntivi pretesi e non dovuti, l’amministrazione capitolina, in un abbraccio complice e mortale con il fu Grande Mandarino del ministero delle Infrastrutture, l’immarcescibile Ettore Incalza, ne riconobbe “soltanto” 320. Di fronte a questa vergogna che è repubblicana prima ancora che municipale, per anni — e gliene va dato pubblicamente atto — un singolo consigliere comunale, Riccardo Magi, segretario dei Radicali Italiani, ha combattuto una battaglia solitaria a colpi di esposti, comunicati, dichiarazioni, regolarmente digeriti dal silenzio limaccioso con cui, a Roma, chi dice la verità può agevolmente essere scambiato per matto semplicemente se gliela si lascia ripetere ossessivamente e soprattutto in solitudine. E non più tardi del luglio di un anno fa, l’Autorità Nazionale Anticorruzione di Raffaele Cantone, con una delibera di 44 pagine documentò a beneficio di chi soltanto avesse avuto voglia di leggere o intendere, le dimensioni, la natura, le responsabilità (non fosse altro erariali) e i dettagli della catastrofe.
Uno su tutti. Nella città “patrimonio archeologico dell’umanità”, appaltante e appaltatore licenziarono il progetto esecutivo “dimenticando” di condurre adeguate indagini del sottosuolo, salvo scoprire con “sconcerto” che tra la basilica di san Giovanni e piazza Venezia le talpe meccaniche incontravano regolarmente preziosi manufatti di epoca romana. Va da sé che non si persero d’animo. Una variante in corso d’opera e qualche centinaio di milioni di euro di costi aggiuntivi. Fino al “coccio” successivo.