Repubblica 11.7.16
Dalle sacre icone a Andy Warhol così l’arte divenne astratta
Perché la raffigurazione dell’invisibile nata a Oriente come ponte tra cielo e terra ispira ancora il nostro secolo
di Silvia Ronchey
Nel
1904 a Mosca venne restaurata ed esposta al pubblico la Trinità di
Andrej Rublev, “l’icona delle icone”, come l’aveva definita già il
Concilio dei cento capitoli convocato tre secoli e mezzo prima da Ivan
il Terribile. Era uno strano dipinto. Nominalmente raffigurava i tre
angeli che nell’episodio biblico visitarono Abramo e furono ospitati
alla sua tavola. Ma nell’icona nessuno mangiava, e non c’erano né il
padrone di casa né Sara, sua moglie. C’erano tre figure celesti di
inumana bellezza, quasi identiche. I contorni delle loro posture
formavano un cerchio che catturava lo sguardo dello spettatore in modo
così potente da impedirgli di soffermarsi sui personaggi, o su alcun
altro elemento del dipinto, magnetizzato all’interno della perfetta
figura geometrica che era il vero soggetto dell’icona. Quel cerchio
invisibile, ma soverchiante, rappresentava
l’irrappresentabile: la
consustanzialità delle tre persone della Trinità, definita già dalla
teologia dei primi concili bizantini un’unica sostanza ( ousia) in tre
ipòstasi ( hypostaseis). Una pura astrazione, forse la più difficile fra
le astrazioni teologiche. Per questo Rublev l’aveva dipinta. Il suo era
un quadro astratto.
Che cos’è l’icona, l’immagine sacra del mondo
cristiano ortodosso? Come scriveva Evgenij Trubeckoj, «l’icona non è un
ritratto ma un prototipo della futura umanità trasfigurata». Nel grande
libro curato da Tania Velmans, magnificamente illustrato, ora uscito in
Italia ( Le icone. Il grande viaggio, Jaca Book, 399 pagine, 120 euro),
più studiosi si sforzano di mostrarlo, raccontando la storia di questi
enigmatici oggetti pittorici, dalle tavole preiconoclaste conservate a
Santa Caterina del Sinai fino a quelle del mondo russo e balcanico,
delle periferie orientali del mondo bizantino e postbizantino,
dell’oriente cristiano, enunciandone gli stili e le regole, le funzioni e
le tipologie. Conoscere il loro passato remoto ci permette di capire
meglio la loro funzione nel nostro passato prossimo, nel presente e
forse nel futuro.
«Esiste la Trinità di Rublev, dunque Dio
esiste», era, negli anni Venti del Novecento, il sillogismo di Pavel
Florenskij. Perché, spiegava Florenskij, «l’icona o è sempre più grande
di se stessa, se è una visione celeste, o è meno di se stessa, se non
apre il mondo soprannaturale alla coscienza» di chi la guarda. Il suo
scopo è sollevarla verso il mondo spirituale: se questo non si attua
nella valutazione o nella sensibilità di chi guarda, l’icona resterà
solo «una remota sensazione dell’oltremondo, come le alghe ancora
odorose di iodio testimoniano del mare».
Secondo Florenskij «il
visibile e l’invisibile sono in contatto, ma la differenza fra loro è
così grande che non può non nascere il problema del confine». La linea
di confine è la nostra psiche, in cui «la vita nel visibile si alterna
alla vita nell’invisibile» in una serie di stati. Il più comune è il
sogno, il più raro l’estasi mistica, quando «l’anima si inebria del
visibile e, perdendolo di vista, si estasia ». Già quattordici secoli
prima, per lo Pseudo-Dionigi Areopagita, le icone erano
«rappresentazioni visibili di spettacoli misteriosi e soprannaturali»,
recanti una peculiare implicazione: agire su chi le contempla come la
Metamorphosis di Cristo sugli apostoli; portare a una trasfigurazione
dello spettatore, a un Tabor dello sguardo; dare la capacità di vedere —
al di là delle parvenze materiali e atroci — la struttura spirituale e
cristallina delle cose.
L’icona non è, dunque, arte figurativa.
Nel grande, sottile e per lo più incompreso dibattito filosofico
sull’immagine dell’VIII e IX secolo bizantino — il cosiddetto
iconoclasmo — si erano alleati l’aniconismo protocristiano, già giudaico
e poi islamico, e la condanna platonica dell’immagine, «copia di una
copia», dispiegata in un mondo sensibile che è mera replica di quello
delle idee, per mettere definitivamente in discussione l’arte
figurativa. La raffigurazione artistica era lecita e non “idolatrica”
solo se non intendeva rappresentare naturalisticamente la figura.
La
controversia iconomaca non si era dunque conclusa con una
riabilitazione teologica della vecchia idea di immagine, ma con
l’invenzione e minuziosa codificazione di un’immagine completamente
diversa. Tuttavia questo nuovo, rivoluzionario statuto non figurativo
dell’icona, interfaccia tra il visibile e l’invisibile, dimostrazione
stessa che i due mondi possono venire a contatto, sancito dalla
teologia, affermato nella cultura bizantina, non era stato compreso
dall’occidente. Fino al XX secolo.
La data del 1904, che vede il
restauro della Trinità di Rublev, è una data simbolo, una sorta di
mitico anno zero. Da un lato segna la riscoperta dell’icona da parte
dell’estetica moderna, d’altro lato, e parallelamente, la nascita della
moderna arte astratta. Risale all’anno successivo, il 1905, la nomina a
conservatore della galleria Tretjakov di Mosca di Ilja Ostruchov, che
del nuovo culto intellettuale dell’icona era stato, insieme a Pavel
Muratov, l’attivista e l’apostolo. All’inizio degli anni Dieci del
Novecento le icone diventano l’ossessione dell’intellighenzia russa. Nel
1911, quando Henri Matisse va a Mosca, è letteralmente sconvolto dalla
loro antichissima e già futuribile forza. Le definisce il «miglior
patrimonio » dell’arte medievale, invita solennemente gli artisti
europei a «cercare i propri modelli nei pittori di icone piuttosto che
nei maestri italiani». Quando torna in Francia ne parla agli amici, tra
cui Picasso. Se Matisse è il primo occidentale a incontrare l’icona, che
subito influenza la sua pittura, nel frattempo le avanguardie russe
imperniano le loro ricerche e sperimentazioni non solo sulla sua
estetica ma sulla teoria stessa dell’immagine che vi ha lasciato
racchiusa Bisanzio.
Il debito verso l’icona è evidente nei
costruttivisti e nei suprematisti, o in artisti come Vladimir Tatlin e
Natalia Goncarova, che cominciarono la loro carriera dipingendo appunto
icone. Già nella collezione privata di Ostruchov, intrapresa nel 1902,
le opere della tradizione bizantina erano affiancate a opere
contemporanee. Ancora oggi nella galleria Tretjakov i quadri dei pittori
russi degli anni Dieci e Venti, come Kliment Redko, si ammirano insieme
agli antecedenti medievali ortodossi che ne sono la diretta fonte di
ispirazione. Nello stesso periodo si colloca il lavoro rivoluzionario di
Vassili Kandinskij, che crea programmaticamente l’astrattismo a partire
dall’esperienza delle icone. Se i termini dell’ispirazione bizantina di
Kandinskij si leggono ne Lo spirituale nell’arte e anche nei suoi
Sguardi sul passato, il più immediato documento di questo viaggio senza
ritorno sono le varie, selvagge tappe del suo lavoro su San Giorgio.
Come
ha scritto Gilbert Dagron, l’arte di Kandinskij, «che chiamiamo
“astratta” perché ricusa le nozioni di natura e di oggetto a favore di
un’altra visibilità, ha una parentela sicura con il tipo di
rappresentazione iconica che l’ortodossia ha consacrato nella sfera
religiosa, ma che l’artista moderno utilizza a fini differenti ». In
altre parole «è per mezzo dei suoi rifiuti, ossia del suo iconoclasmo
latente, ben più che della sua diffusa religiosità, che l’icona ha
permesso di precisare i grandi obiettivi dell’arte moderna ».
Il
ragionamento cominciato a Bisanzio nell’VIII secolo si compie dunque,
dopo una lunga invisibile parabola (ma è così che procede la storia),
solo nel XX, attraverso la riflessione filosofica russa che dà
fondamento all’astrattismo. L’arte contemporanea acquista le sue ragioni
e trae il suo fine dall’”iconoclasmo latente” dell’icona, affrancandosi
dalla dimensione religiosa e riportando al terreno secolare la sua
dichiarazione di guerra alla moltiplicazione degli “idoli”, segnata, fra
l’altro, dopo l’affermarsi della fotografia, dalla crescente diffusione
di “false immagini” (mediatiche, pubblicitarie, comunque mercificate e
“pornografiche”) nella società di massa emersa dal Secolo Breve e dalle
sue rivoluzioni. In Andy Warhol, figlio di emigrati ruteni (il padre,
Ondrej Warhola, aveva anglizzato il suo nome in Andrew Warhola poco dopo
l’approdo negli Usa negli anni Venti), è ispirato per esplicita
ammissione all’icona russa il metodo della ripetizione, l’adozione del
multiplo, a perseguire lo svuotamento dell’immagine- idolo
(consumistica, per esempio le bottiglie di Coca Cola, o anche
semplicemente giornalistica: incidenti stradali, sedie elettriche). Yves
Klein opera la cancellazione totale della figura in tavole che a pieno
titolo possiamo chiamare icone, dove i fondi oro diventano soggetto
autonomo e l’astratta semantica bizantina del colore, già indispensabile
per leggere la Trinità di Rublev (l’oro della sovrasostanzialità, il
blu della vita eterna), trionfa evidente: il famoso “Blu Klein” è
eminentemente, inconfondibilmente bizantino.