Repubblica 11.7.16
Nel ghetto della città in fiamme dove tutto ha avuto inizio “Ci addestriamo alla guerra”
Tra le gang in marcia e i fedeli raccolti in preghiera. Con un pensiero costante: “Le prime vittime qui siamo noi afroamericani”
di Alberto Flores d’Arcais
DALLAS.
«Meglio che ve ne andiate, chiudete bene le portiere e non fermatevi.
Da queste parti è pericoloso». Queste parti sono le strade intorno a
Dixon Circle, ghetto nero della South Dallas dove la classica ferrovia
divide l’area «per bene» da quella dei «senza legge», dove la polizia
non mette (quasi) mai piede. La donna che parla non abita qui («sono
venuta per vedere come sta mio zio, qui l’unica speranza è andarsene») e
ha una gran fretta. Lui, lo zio, pelle nera e forte accento ispanico di
parlare invece ne ha voglia e da qui non se ne andrà mai. «Le gang
stanno lì oltre quel fossato, marciano avanti e indietro nella strada
principale, qui non vengono, noi ci facciamo gli affari nostri, siamo
tranquilli».
Non sembra molto convinto di quanto sta dicendo,
fermo davanti alla sua casa su Barber Street, ridotta piuttosto male ma
con una tripla inferriata a scoraggiare i poco di buono. «Sono disabile,
vivo nel quartiere da 41 anni e il governo se ne è sempre fregato di
noi. Che devo pensare? Non è bello quello che è successo, certo che non
si devono ammazzare i poliziotti, ma a noi chi ci difende? Per loro non
siamo neanche esseri umani». Sopravvive con pochi spiccioli, ha due
figli: «Li avevo, in realtà non ho idea di dove siano finiti. Da qui se
ne sono andati e hanno fatto bene, chi cresce nel quartiere non ha
alcuna speranza. Io ci sono cresciuto e ci resto».
Quelle che lui
chiama gang sono giovani uomini e qualche donna, la fedele “milizia” di
Charles Goodson, 31 anni, treccine rasta, sguardo truce e rabbia da
vendere, che una volta alla settimana li guida, tute mimetiche e armati
come piccoli Rambo, per «addestrarsi alla guerra», nel vicino Martin
Luther King Jr. Park, raro pezzo di verde pubblico. Oggi non si fanno
vedere, davanti a quello che è una sorta di loro quartier generale — la
Marketa Grocery su Dixon Avenue — ci sono solo un paio di afroamericani
che sembrano intenti a uno scambio soldi per droga e non hanno alcuna
voglia di essere osservati.
Accanto c’è quel che rimane di un
altro piccolo market abbandonato, solo un isolato di distanza da dove
nel 2012 il ragazzo nero James Harper venne ucciso con tre colpi di
pistola da un poliziotto bianco. A South Dallas ha avuto tutto inizio
allora. Dopo la morte di Harper ci furono proteste, qualche incidente,
poi una sorta di armistizio per cui la polizia doveva girare alla larga.
Il salto di qualità arriva nell’estate del 2014, i giorni delle
tensioni razziali seguite all’uccisione di Michael Brown a Ferguson e di
Eric Garner a Staten Island. Fu allora che Charles Goodson e il suo
compare Darren X (che si auto-definisce pomposamente «maresciallo del
New Black Panther») hanno organizzato il Huey P. Newton Gun Club e le
marce provocatorie, imbracciando fucili d’assalto e AR-15, per le strade
della metropoli texana. Dove comprare queste armi è facile quasi quanto
fare la spesa alimentare.
Dixon Circle come Arlington, altra area
ad alta tensione. Qui tra Dallas e Fort Worth, vicino alla stadio dei
Dallas Cowboys, le cose sono ancora più complicate. Ci sono intere zone
dove le gang spadroneggiano e dettano legge, ma non solo quelle che si
richiamano al Black Power. Qui sono molto organizzati anche i gruppi
“ariani”, suprematisti bianchi che esultano a ogni nero ucciso dalla
polizia, sognano un ritorno ai “bei tempi” dei linciaggi e di quando i
neri non avevano diritti civili. È da Arlington che circa un anno fa
sono calati su South Dallas manipoli di “patrioti” che volevano
attaccare una moschea di neri (gestita dal Black Islam), quando due
gruppi armati — bianchi da una parte, neri dall’altra — hanno dato una
dimostrazione palese di come una guerra civile (e razziale) “virtuale”
possa diventare reale in un futuro non troppo lontano.
La domenica
è giorno di riposo e di preghiera e nelle chiese di Dallas, a
maggioranza protestante, la strage dei poliziotti di giovedì scorso
tiene inevitabilmente banco. Con distinguo e differenze. La First
Baptist si trova al 1707 di San Jacinto, parte nobile di downtown, in
mezzo a ristoranti, banche e case di buona borghesia. «La nostra
missione è trasformare il mondo con la parola di Dio, la nostra eredità
arriva dalla Bibbia», ripetono quasi a slogan i fedeli. Alle 9 e 15 di
mattina sono pochi i banchi liberi, il pubblico è composto quasi solo di
bianchi, molti hanno appuntata sul petto la scritta “Back the Blue”,
appoggiamo la polizia. Più che una celebrazione religiosa sembra un
grande happening, danze e concerti, con un gruppo di sedici
ballerini-cantanti (tutti rigorosamente bianchi, maschi e femmine) che
vengono applauditi a lungo. La parte “politica” è affidata a Robert
Jeffress, giacca scura, cravatta e fazzoletto blu, reduce da
un’intervista con Fox News. Il suo non è soltanto un invito a pregare
per i poliziotti morti, ci sono anche le accuse ai «sedicenti ministri»,
i religiosi delle altre chiese di Dallas che usano l’altare per
fomentare una «inaccettabile violenza».
Non fa nomi, «ma se vuole
sentirli vada pure alla Friendship West Baptist», suggerisce un vicino
di banco sorridente. La Friendship si trova sulla West Wheatland Road,
una quindicina di miglia a sud del centro di Dallas, un grande edificio
bianco-crema con tre tetti spioventi color mattone e il motto «cambiare
la gente per cambiare il mondo». Qui di facce bianche non se ne vedono, i
canti sono più classici, invocazioni e preghiere sono rivolte a tutti.
«Preghiamo anche per i poliziotti, ma ricordatevi sempre che le prime
vittime siamo noi neri. Vendette? No, cerchiamo solo pace ed
uguaglianza». Parole che nella Dallas di oggi sembrano prive di
significato.