domenica 10 luglio 2016

Repubblica 10.7.16
Sergio Chiamparino
“Effetto Brexit se perde il Sì ma una campagna populista porta voti a Grillo”
“Così il Pd sta diventando il partito dell’establishment non si parli solo di riforme”
intervista di Paolo Griseri

TORINO. Sulla riforma costituzionale «è importante evitare una campagna populista. Perché Grillo è più populista di noi e la gente finisce per scegliere l’originale». Sergio Chiamparino, renziano della prima ora e voce critica nella seconda, chiede al Pd «un rilancio programmatico» perché «con i provvedimenti spot non riusciamo a convincere gli elettori».
Chiamparino, che cosa non la convince nella campagna per il ‘sì’ al referendum?
«Nei giorni scorsi, a una festa del Pd vicino a Torino mi hanno dato un volantino che mi ha colpito. Proponeva di votare sì per superare il bicameralismo, e sono d’accordo, per aumentare la partecipazione dei cittadini, e chi non è d’accordo?, e per ”tagliare le poltrone”».
Non bisogna tagliare le poltrone?
«Bisogna certamente ridurre i costi della politica. Ma non può essere questo il motivo principale del sì. Perché Grillo di poltrone ne vuole tagliare di più e vuole anche abolire le Regioni sprecone».
Le Regioni non sprecano?
« Le conosco bene le Regioni e so che c’è molto lavoro da fare nel taglio delle spese. Ma anche qui non possiamo inseguire i populismi. Prima abbiamo inseguito la Lega sul decentramento, oggi inseguiamo Grillo sul populismo. E magari abbracciamo il neo centralismo con la riduzione delle Regioni. Siamo ondivaghi ».
Lei come la farebbe la campagna per il ‘sì’ al referendum?
«Ricordando che se oggi l’Europa impone meno vincoli all’Italia è perché l’Italia si è impegnata a fare le riforme. E che senza riforme perdiamo 14 miliardi di flessibilità finanziaria. Insomma anche noi rischieremmo la Brexit e questo è uno dei motivi che mi spinge a sostenere il sì».
La paura del tracollo finanziario non ha spaventato gli operai inglesi. La Bmw ha scritto minacciando che se avesse vinto la Brexit il posto era a rischio. E gli operai hanno votato per la Brexit… «Come si diceva nel Novecento, si vede che non hanno ritenuto credibile la minaccia del padrone. Ma che l’Italia avrà meno flessibilità senza riforme non è una minaccia, è una certezza».
È d’accordo a spacchettare i quesiti referendari o a modificare la legge elettorale?
«Nel giro di un anno e mezzo il Pd è passato da essere considerato il partito del rinnovamento al simbolo dell’establishment. Avvitarci su spacchettamenti e leggi elettorali, dà solo l’impressione che noi vogliamo discutere principalmente delle leggi che riguardano il destino personale dei politici. Non mi appassiona».
A Torino il Pd, con Fassino, ha preso una storica batosta. Solo colpa di Renzi o il gruppo dirigente locale ha commesso gravi errori?
«Certo che errori ci sono stati. Abbiamo dato l’idea di essere un gruppo di potere e non una risorsa per la città».
Per esempio?
«Parlo di me. Non mi piace parlare di altri. Quando ho smesso di fare il sindaco sono stato nominato alla presidenza della Compagnia di San Paolo, la fondazione che è il principale azionista di Intesa. Ho sempre rispettato l’autonomia della Compagnia e penso di aver operato bene. Ma tornassi indietro non lo rifarei. Perché si è data un’impressione di intercambiabilità, sempre gli stessi che ricoprono ruoli diversi. Non va bene».
Lei ha proposto un vicesegretario nazionale che guidi operativamente il Pd. Perché?
«È necessaria una figura della maggioranza in grado di coordinare l’attività del partito».
Delrio o Orlando?
«Non faccio nomi. Penso a una persona giovane su cui scommettere per il futuro. Che siano quei nomi o altri, come Martina, per me non è dirimente».