Repubblica 10.7.16
Edoardo Albinati
Il delitto del Circeo
“In quel delitto di quarant’anni fa la malattia incurabile di essere maschi”
Il
vincitore del premio Strega, compagno di scuola degli autori del
massacro, parla del suo romanzo dominato dal tema della sopraffazione
sessuale
intervista di Raffaella De Santis
La mascolinità è fatta di modelli da imitare che creano frustrazione, perché nessuno riesce a stare alla loro altezza
È importante non trincerarsi dietro lo sdegno preventivo perché siamo tutti contaminati dalla violenza
ROMA.
Edoardo Albinati ha appena vinto il Premio Strega con un libro non solo
importante per mole (quasi 1300 pagine), ma crudo nella tematica, un
romanzo che gira intorno al buco nero della violenza contro le donne.
La
scuola cattolica (Rizzoli) trae spunto da un episodio di cronaca nera,
il delitto del Circeo, e da lì s’irradia per cerchi concentrici per
cercare di capire quale possa essere la radice culturale
dell’aggressività. Albinati è stato compagno di scuola, all’istituto San
Leone Magno a Roma, dei tre protagonisti del massacro del 29 settembre
del 1975, Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira.
Come mai ha voluto affrontare un argomento tanto scomodo?
«Perché
la letteratura ha anche il compito del disvelamento. Non volevo
ammantare il delitto di alcun aspetto seduttivo, ma raccontarlo nella
sua crudezza. Il mio obiettivo non era informare, ma interrogarsi ».
Mostrare
la violenza, esporla, renderla pubblica, far vedere un volto ferito o
le fotografie di un’aggressione, può essere utile?
«Non lo so,
penso che la cosa importante sia non trincerarsi nello sdegno
preventivo. L’ho detto, lo ripeto: ho il 99% delle cose in comune con
chi compie azioni violente ».
Potrebbe spiegarsi meglio?
«È
importante accettare l’idea della contaminazione con la violenza. Forse
può non entusiasmarci, ma siamo tutti coinvolti, tutti contaminati.
Certo, è più facile allontanare da sé il male, pensare che non ci
riguardi, che noi siamo diversi. La ferita del delitto del Circeo fu in
qualche modo suturata additandone i responsabili come mostri. Così da
una parte mettevamo i “perversi” e dall’altra c’eravamo noi. È ciò che
in altri tempi si sarebbe definito “falsa coscienza”».
Nel suo
libro imputa a una certa idea di mascolinità la responsabilità
dell’aggressività. Addirittura scrive: “Nascere maschi è una malattia
incurabile”.
«Purtroppo – lo dicono tutti gli studi sulle teorie
di genere – la mascolinità è una costruzione fatta di modelli da imitare
che creano frustrazione, perché nessuno riesce a stare alla loro
altezza. Insomma, il maschio è colui che manca il bersaglio di essere
maschio».
È da qui che può nascere la voglia di rifarsi?
«Mi
viene in mente una frase di Kafka: “C’è un punto di non ritorno, quel
punto va toccato”. Il mio punto di non ritorno, ciò di cui volevo
parlare, è la malattia incurabile dei maschi».
Perché incurabile?
«Mi
sembra che il modello maschile sia oggi in crisi più che mai. Se è
infatti vero che abbiamo superato il prototipo di virilità del passato, è
anche vero che non è stato sostituito da nulla. Mentre il modello
femminile si è aggiornato».
Quali sono gli stereotipi culturali da cui dovremmo cercare di liberarci?
«Gli
uomini hanno un bisogno di tenerezza profondissimo, ma non possono
esprimerlo liberamente. Hanno paura che venga scambiato per
omosessualità. Ma proprio quel desiderio frustrato alla fine si rivolge
in modo brutale contro le donne ».
Nel suo libro la violenza abita
in un quartiere borghese, tra le cosiddette persone perbene. È anche
questo un modo per dire che riguarda tutti, non solo chi vive nel
degrado?
«Thomas Mann diceva che il borghese è l’individuo che ha
più punti di contatto con l’intera umanità. All’interno del suo mondo
osserviamo tutti gli atteggiamenti possibili. Nel caso del delitto del
Circeo si pensò subito che non potesse avere per protagonisti ragazzi di
buona famiglia. Ma pensare in questo modo è un’altra forma di difesa.
Chiunque può fare qualsiasi cosa a chiunque».
Lei insegna nel carcere di Rebibbia. La scuola può cambiare la società?
«A
patto che non diventi una routine. In galera la situazione è di
emergenza, posso sperimentare subito se le mie parole hanno effetto».
Quanti anni ha lavorato al libro?
«Più di nove anni. Nove anni per chiedermi: come faccio a venire a capo di un male che mi appartiene?».