La Stampa 10.7.16
“Dimenticate dallo Stato”
La lotta per non sparire dei centri antiviolenza
Tre chiusure in un mese e i soldi bloccati dalla burocrazia
Ma la rete D.i.Re. assiste oltre 15mila donne ogni anno
di Andrea Malaguti
L’avvocata
Titti Carrano, presidente dell’Associazione Nazionale dei Centri
Antiviolenza apre la mail del suo studio romano e non nasconde lo
stupore. «Mi ha scritto la Boschi». Cioè? «La ministra. L’abbiamo
cercata a maggio, quando ha assunto le deleghe per le pari opportunità.
Speravamo in un confronto».
«Lo abbiamo avuto con tutte le
colleghe che l’hanno preceduta. E lo prevede la convenzione di Istanbul.
Non ci ha mai risposto. Fino ad ora». Beh, che dice la mail?
«Che
a breve saremo resi partecipi costituendo l’Osservatorio previsto dal
piano nazionale contro la violenza. Dunque non dice niente».
Eppure
le cose su cui discutere, spiega l’avvocata, sarebbero molte. Partendo
da due domande facili: perché dopo avere firmato la convenzione di
Istanbul sulla violenza di genere, varato una legge con l’intento di
tutelare le donne che doveva essere una delle bandiere di questa
legislatura e previsto con un decreto del 2013 la ripartizione delle
risorse da destinare, lo Stato lascia morire i centri anti violenza? E
perché i 16,5 milioni di euro distribuiti alle Regioni per i centri sono
stati corrisposti solo in piccola percentuale, mentre i 18 milioni
stanziati dalla legge 119 del 2013 per il 2015-2016 non stati ancora
erogati?
Temi non secondari in un Paese in cui ogni due giorni una
donna viene ammazzata da un uomo. Spesso il suo compagno. E in cui ogni
anno i 75 centri della rete D.i.Re. aprono le porte a quindicimila
donne italiane e straniere in cerca di aiuto. «Nonostante la previsione
normative e la dimensione del problema, solo sei regioni hanno
organizzato confronti con noi. Il punto è che le leggi ci sono, ma è
come se non ci fossero. Perché nessuno le rispetta. E con i soldi va
anche peggio. I finanziamenti vengono stanziati. Ma la burocrazia li
blocca». Così, in attesa che qualcuno metta mano alla palude
burocratica, i centri chiudono. Gli ultimi due sono stati Le Onde di
Palermo che in vent’anni ha aiutato diecimila donne e che ora è ridotto
all’ascolto telefonico e Casa Fiorinda di Napoli, struttura sequestrata
alla camorra. Cicatrici che si moltiplicano, correndo dalla Sicilia alla
Lombardia, dalla Sardegna, al Veneto. «Nel frattempo, secondo i dati
Istat, in Italia una donna su tre continua a essere vittima di
violenza». Davvero i centri si possono trattare come se non fossero
componenti chiave dell’organizzazione sociale?
La voce di Aissa
Ieri
sera, alla Rocca di Imola, davano «Fuocammare», il film di Gianfranco
Rosi che racconta l’emergenza immigrazione vista da Lampedusa, e la
piazza era piena. È stato il centro antiviolenza Trama di Terre a
organizzare l’evento. E quando è scesa la notte, prima che lo schermo si
riempisse di immagini, Aissa, che viene dalla Nigeria e che a Trama di
Terra ha ritrovato una parte di sé, si è messa a cantare con tutta la
voce che ha nella pancia. Era il suo modo per dire che lei esiste. E
soprattutto resiste.
A 20 anni ha accumulato negli occhi e nel
corpo mille volte di più dell’ orrore che un essere umano dovrebbe
conoscere in una vita. Nel suo tragitto da Lagos all’Italia, passando
per la Libia, l’hanno ripetutamente violentata, picchiata, costretta ad
assistere alla decapitazione e alla tortura dei suoi compagni di viaggio
e di prigionia. A ogni umiliazione ha risposto rifugiandosi nella
melodia che continua a vibrarle dentro. Anche quando la barca che la
portava verso la Sicilia si è ribaltata e il carburante che usciva dai
serbatoi le ustionava la carne confondendosi con l’acqua salata, Aissa
ha cantato. Non aveva più la pelle delle cosce quando una nave italiana
l’ha caricata. Però si affidava alla voce, proprio come ieri sera, di
fronte a un piccolo popolo ipnotizzato dal suo dolore. A questo serve
Trama di Terre. A consentire alle donne come Aissa di non finire nella
pattumiera dell’indifferenza.
Stamattina il centro è aperto come
sempre e Tiziana Dal Pra, che l’ha fondato nel 1999, è al lavoro con le
sue dieci collaboratrici. Se stanno in piedi da diciassette anni è
perché sanno come trovare i fondi - Bruxelles, i privati, la Regione, il
Comune, uno sforzo estenuante che si sovrappone al lavoro quotidiano - e
perché per Imola, 68mila abitanti, il 10% stranieri, sono diventati un
punto di riferimento imprescindibile, uno spazio protetto, cresciuto nel
cuore del paese, che offre accoglienza, ascolto, opportunità e
ospitalità. Vi aiuta questo governo? «Il governo Renzi, dici?». Lui. «Ma
per carità, lasciamo stare. Però in Regione c’è grande sensibilità».
Trama di Terre
Di
fianco alla biblioteca interculturale, piena di libri in inglese e
francese, Giulia D’Odorico organizza la giornata assieme a una
mediatrice culturale. Il problema del momento è come recuperare delle
posate per una delle case e poi fissare l’appuntamento con un dentista
per una madre e per il suo bambino. Ci si occupa di tutto, «dall’ago
all’elefante» dicono in Romagna, e intanto ci si preoccupa di chiarire
che lo si fa per una scelta di campo. «Una scelta politica», precisa
Tiziana. «O si parte dal presupposto che la violenza di genere è un
fatto e non si può risolvere con interventi emergenziali o non si va da
nessuna parte». I centri rimangono il bastione più solido del
femminismo. «Esatto, femministe. Guarda il nostro cartello. Dice: leali,
orgogliose, grassottelle, pacifiste, intellettuali, operaie, belle,
orgogliose, giovani, etero, lesbiche. E non sai per questa parola
“lesbiche” le battaglie che abbiamo dovuto fare». Si siede in una stanza
di lavoro assieme ad Alessandra Davide, responsabile del centro
antiviolenze, versa nei bicchieri una bevanda allo zafferano e racconta
di una signora settantenne, italiana, che dopo trent’anni di violenze ha
bussato alla loro porta. «Il marito l’ha sempre menata. Ma quando le
forze gli sono venute meno si è concentrato sulla violenza psicologica.
Fai schifo, non sai cucinare, sei una madre di m.... Bene, questa
signora è venuta e ci ha detto: per anni mi ha picchiata. E adesso vuole
farmi passare da pazza. E io non ci sto più». Viene voglia di
festeggiare.
C’è un caldo che squaglia in questo martedì di
luglio, Nel cortile donne con bambini. Italiane e africane. Schiamazzi
che arrivano dalla strada. «Serve un salto culturale. E una maggiore
integrazione con le istituzioni che si occupano di donne. I servizi
sociali, per esempio, che hanno un approccio neutro, e anche con gli
ospedali, con i pronto soccorso», dice Alessandra. Cioè? «Spesso si
confonde il conflitto con la violenza. Il conflitto è fisiologico, la
violenza - fisica o psichica - è patologica e inaccettabile. A quel
punto è assurdo sentire parlare dell’importanza della bi-genitorialità,
come tendono a fare i servizi, o addirittura vedere il tentativo di
arrivare all’affido condiviso dei bambini. La donna va difesa. E con lei
i bambini, che pagano costi altissimi. Quanto agli ospedali mi limito a
osservare un dato: lo scorso anno, a Imola, 142 donne sono state
ricoverato a seguito di maltrattamenti accertati. Sai quante sono
arrivate al centro? Una». Tiziana la pensa come lei. «Siamo in un Paese
condizionato dalla Chiesa cattolica e spesso nei pronto soccorso, quando
arriva una donna violentata, le danno il farmaco contro l’Aids, ma la
pillola del giorno dopo no. Fanno obiezione di coscienza. In ginecologia
otto medici su dieci. C’è una legge dello Stato. Ma loro non la
applicano. Chiedi al San Camillo di Roma per capire».
Obiezione di coscienza
Il
San Camillo, allora, dove il reparto che accoglie le donne decise a
interrompere la gravidanza è in un seminterrato al quale si accede da
una scaletta esterna. «Come se ci fosse un problema di cattiva
coscienza», dice la psicologa Augusta Angelucci. Eppure qui arrivano
donne da tutta Italia. «Stamattina abbiamo incontrato dodici ragazze.
Solo due di Roma. Le altre sono arrivate da Viterbo o da Latina. Ma
spesso incontriamo ragazze siciliane o della Basilicata». Il perché è
semplice: a casa loro l’interruzione di gravidanza, prevista dalla legge
194, non viene praticata. I medici non vogliono. E se anche vogliono
trovano primari che glielo impediscono. «Le sembra folle? E’ il caso di
un mio collega con cui ero al telefono poco fa», dice Giovanna
Scassellati, primaria del reparto. «Dunque noi facciamo quindici aborti
al giorno. Tremila in un anno. E lavoriamo come dei pazzi perché tra il
diritto della donna e quello del medico obiettore secondo lo Stato vale
più quello del medico obiettore. Ma sono convinta che si ci fosse un
piccolo incentivo economico i medici obiettori si ridurrebbero di colpo.
Pensi che quando per un mio problema personale sembrava che il mio
posto fosse disponibile, quattro colleghi obiettori hanno firmato un
foglio per dire che non lo erano più. Buffo no?». Un problema culturale?
«Un problema culturale grande come un palazzo», dice Angelucci.
Casa Fiorinda
Nord,
centro, sud. La violenza non fa distinzione geografiche o di censo. I
ricchi menano e offendono quanto i poveri. Tania Castellaccio,
operatrice della cooperativa sociale Dedalus e di Casa Fiorinda a
Napoli, racconta la storia di una proprietaria terriera, madre di
quattro figli sposata con un ricco imprenditore. Lui la picchiava. Lei
non voleva esporre la famiglia alla vergogna. Il marito la offendeva,
spalleggiato dai due figli più grandi e lei ha trovato la forza di
rivolgersi a Casa Fiorinda solo quando la figlia e il figlio dodicenne
le hanno detto: mamma, andiamo via. «E’ venuta da noi. Si è rivolta a un
giudice e ora è rifiorita». Ad appassire è stata Casa Fiorinda. «Finito
l’ultimo progetto non c’erano più i soldi. O meglio c’erano - ci sono -
ma incastrati in qualche pastoia burocratica che vede contrapporsi lo
Stato, la Regione e il Comune. Ma a pagare siamo noi. E le donne di
Fiorinda, che ora sono state ricollocate in un centro di Pozzuoli
gestito da un attivista pro life. I fondi non possono finire a chi non
mette il bene delle donne in cima alle priorità», dice Lella Palladino,
una delle più note femministe campane. «Con Eva, la mia cooperativa,
abbiamo assistito più di mille donne. Soldi pubblici zero. Ce li
facciamo dare dalle multinazionali, che così si lavano un po’ la
coscienza».
Sorride. Ma l’assenza dello Stato le fa male. «Gli
interventi pubblici sono sempre a progetto. Così quando ne finisci uno
non sai mai se potrai cominciarne un altro. Ma la violenza non si ferma.
Anche se lo Stato non se ne accorge e. Però non ci fermiamo neanche
noi». Si alza. E abbraccia Tania che dice. «Casa Fiorinda è stata
dedicata a una donna ammazzata a colpi d’ascia. Le pare che possiamo
tirarci indietro?».