domenica 10 luglio 2016

Repubblica 10.7.16
Chagall «Io sono nato morto»
Moshe Shegal viene al mondo in un villaggio in fiamme senza un grido, senza un lamento: non respira. Dovranno immergerlo nell’acqua gelida, pungerlo con gli spilli per fargli emettere il primo vagito. “Non ho voluto vivere”, dirà.
Tutta la vita in un quadro solo
di Gregorio Botta

BARD «Io sono nato morto». Moshe Shegal viene al mondo in un villaggio in fiamme senza un grido, senza un lamento: non respira. Dovranno immergerlo nell’acqua gelida, pungerlo con gli spilli per fargli emettere il primo vagito. “Non ho voluto vivere”, dirà. Non voleva, ma doveva: quel neonato che ha avuto un incontro così precoce con il destino sarebbe diventato Marc Chagall. Lo racconta lui stesso nelle prime righe dell’autobiografia, “Ma Vie”, la mia vita, che scrive a Parigi quando ormai è un celebre pittore. Qualche anno dopo, nel ‘64, ne partorirà un’altra: ma questa volta la dipingerà. E’ un quadro imponente, (tre metri per quattro), un’autobiografia per immagini custodito gelosamente nella Fondazione Maeght di Saint-Paul-de-Vence e dichiarato tesoro nazionale francese. Ora “La Vie” approda per la prima volta in Italia, al Forte di Bard, (fino al 13 novembre, a cura di Markus Müller e Gabriele Accornero). E’ una mostra con 265 opere, ma in fondo è la mostra di un quadro solo.
La tela maestosa domina infatti la sala finale del Forte, accompagnata dai quattro schizzi preparatori. Ma anche tutti gli altri lavori che completano l’esposizione (moltissime le stampe, la litografia per Chagall non era certo un’arte minore) possono essere letti alla stessa stregua: figure, temi, immagini che precipiteranno nella summa visiva del maestro del ‘900.
Tutti sanno quanto Chagall abbia amato la sua Bella. “Per anni ha influenzato la mia pittura…..Poi a un tratto un rombo di tuono, le nuvole si aprirono alle sei di sera del 2 settembre 1944, quando Bella lasciò questo mondo. Tutto è divenuto tenebre”. Così scrisse, e ci vollero anni perché riprendesse a dipingere. E’ Bella che vola nei suoi cieli, con lei la vita perde gravità, lei è l’amante, l’angelo e la musa: senza di lei è un uomo perso. Almeno fino a quando non sposa, otto anni dopo, Valentina Brodskij, detta Vava. Se c’è stato un cantore della coppia, dell’incontro con il Femminile, questo è stato Chagall: e infatti “La Vie” è dominato dalla figura centrale, longilinea degli sposi che portano in braccio un bianco bambino, sorta di sacra famiglia in versione laica e popolare. Ma ci sono ben quattro altre coppie sulla tela: e una raffigura lo stesso pittore, abbracciato da una donna immensa che lo protegge e lo sovrasta, e alla quale spuntano due angeliche ali.
È sempre così: Chagall non si dipinge mai, o quasi, da solo. Negli autoritratti (ad essi è dedicata una sezione della mostra) lo accompagna sempre un secondo profilo femmineo o una donna volante o una coppia che fluttua nel cielo. In una litografia (“Quanti anni...”), l’artista entra addirittura nella tela dove ha appena raffigurato una ragazza. Ma l’incisione più rivelatrice è forse “Il pittore e la modella”: lei è distesa nuda sul letto, lui non la guarda e nemmeno la ritrae; sta dipingendo un vaso di fiori!
Che differenza da Picasso: i suoi rapporti con le modelle sono sempre carichi di un eros rapace e voluttuoso, il sesso femminile è ben esposto, la legge del desiderio domina l’incisione. Ma per Chagall no: qui tutto è sublimato, la donna è una musa, un’anima che ispira l’arte, è un doppio che completa e integra. Nell’incontro con l’altra aleggia un’atmosfera alchemica da Nozze mistiche, da congiunzione degli opposti.
Chagall non ha mai avuto paura di mescolare l’amor sacro e l’amor profano. I Profeti coabitano con clown e giocolieri, Mosè impugna le tavole della legge mentre violinisti e suonatori di flauti cantano la poesia della vita. La figura che sale sulla scala biblica sognata da Giacobbe, infine, ha una testa di gallo: d’altronde spesso nel pittore l’uomo assume sembianze animali, di mucca, di agnello, di uccello. Come scrive nel bel saggio in catalogo Markus Müller: “Quando si tratta della fede, Chagall dipinge se stesso metà uomo e metà animale. Beheyme nella sua lingua madre non significa solo mucca ma ha anche un significato simile a stupido, idiota. Chagall si è definito più volte ironicamente come un beheyme”.
Come a dire che solo uno sguardo semplice e puro, solo un cuore elementare, può accogliere il mistero che abita l’immaginario umano.
Popolare e profondo: il suo mondo è figlio della cultura chassidim, di cui si è nutrito a Vitebsk, il villaggio (allora russo, ora bielorusso) dove nacque nel 1887. C’è chi si è appassionato a vedere quanti modi di dire yiddish abbiano preso forma nella sua pittura. Ce ne sono, certo: “volare nei cieli”, in yiddish, vuol dire essere travolti dalla fantasia, un sognatore è descritto come uno cui “la mucca vola sopra la testa”. “Portare qualcuno sulle mani”, come si ritrae Chagall con la sua Bella, vuol dire venerarlo.
Ma non bisogna essere specialisti o padroni della lingua per capirlo: sono metafore semplici e universali. D’altronde è questo che fa Chagall: vive tra la storia e la Storia. La sua biografia è la biografia del nostro ‘900, i suoi luoghi del cuore appartengono a tutti. Vitebsk rappresenta ogni shtetl del mondo, il suo uomo in fuga sui tetti incarna e incarnerà per sempre l’immagine dell’ebreo errante. Se aprissimo il sacco che ha sulle spalle ci troveremmo tutte le figure che animano il cuore profondo della nostra cultura. Non a caso l’artista amava tanto la Bibbia: la mostra di Bard ha una formidabile appendice con la serie completa delle 105 litografie che illustrano il Libro. Vi aleggia lo spirito del venerato Rembrandt. Sentimento corrisposto, secondo Chagall, che così conclude l’autobiografia: “Sono convinto che Rembrandt mi ama”.