sabato 16 luglio 2016

Lydie Salvayre, Premio Gocourt 2014, 400mila copie in Francia conNon piangere (pubblicato in Italia da l’Asino d’oro)
Il Fatto 16.7.16
Lydie Salvayre La scrittrice vincitrice del premio Goncourt: apriamo infine gli occhi “Dobbiamo abituarci allo stato di guerra”
intervista di Stefano Citati
qui
http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/salvayre?workerAddress=ec2-54-234-229-202.compute-1.amazonaws.com

Corriere 16.7.16
Non cediamo alla paura. Torniamo in strada, senza ambiguità
di Susanna Camusso

Caro direttore, la Cgil è una grande organizzazione sindacale aperta, fondata sulla libertà di adesione, che non conosce e rifiuta discriminazioni di carattere religioso o di provenienza geografica. Democrazia e libertà sono il nostro dna e sono il fondamento della nostra Costituzione. Sono questi i principi e valori che noi, il nostro Paese e l’Europa considerano inviolabili e che vogliamo strenuamente difendere.
Abbiamo combattuto la paura, l’odio razziale, la fame, le diseguaglianze. Abbiamo avviato la costruzione di un’Europa prospera e solidale. Per questo non vogliamo né possiamo rassegnarci all’Europa della paura.
Più volte nella nostra storia siamo stati chiamati a difendere la democrazia, senza tentennamenti, con il cuore e la forza di una grande organizzazione. Siamo stati in prima linea a combattere il terrorismo che dilagava nel nostro Paese. Non ci sono stati né dubbi, né incertezze perché mai il terrorismo può trovare giustificazioni, siano esse economiche o sociali, tantomeno ideologiche o religiose. Non eravamo soli, ovviamente, quel dire a viso aperto da che parte stavano la Cgil, le sue donne e i suoi uomini, ha contribuito a debellare il terrorismo, a porre un argine alle stragi e alle uccisioni, ad assicurare alla giustizia i criminali. Lo abbiamo fatto per non vivere nella paura, per difendere la libertà e la democrazia. Ogni giorno, abbiamo confermato e rinnovato quell’impegno.
La paura non è più nelle piazze delle nostre città, ma nelle piazze e per le vie della nostra Europa. Le stragi in Spagna, Inghilterra, Belgio, Francia mettono in discussione quanto abbiamo faticosamente costruito e genera una paura cieca quanto distruttiva. E la paura alimenta false e pericolose risposte xenofobe e razziste. Si alzano muri, si chiudono frontiere, si rompe la solidarietà tra gli uomini, i deboli e gli oppressi, non si riconosce più e si combatte il diverso. La paura rende fragili la libertà e la democrazia così faticosamente conquistate. È ora di scegliere. È ora che tutti noi e tutte noi prendiamo in mano il nostro destino e il nostro futuro. Non vogliamo che vinca la paura, l’orrore, la morte. Bisogna combattere l’indifferenza, attivarsi per garantire il necessario contrasto, non accettare ambiguità, impedire anche i silenzi. Rispettare ed esigere rispetto da parte di tutti, a cominciare da noi, dei nostri valori, della nostra democrazia, della nostra libertà. Non sono scelte negoziabili. Sono le ragioni della nostra convivenza libera e democratica. Non è più un problema che possiamo delegare ad altri. Dobbiamo tornare nelle strade, nelle piazze, in tutti i luoghi di lavoro. Dobbiamo tornare a difendere e promuovere con ancora più forza i nostri valori di libertà, democrazia, eguaglianza e solidarietà.
Segretario generale CGIL

Corriere 15.7.16
Ripartiamo dalla cultura per rifondare l’integrazione
di Massimo Bray

La situazione sociale e politica che abbiamo di fronte merita di essere valutata con attenzione.
Non ci si può, a mio avviso, rifugiare in interpretazioni riduttive e, parzialmente, tranquillizzanti, ascrivendo ciò che sta accadendo sotto l’etichetta di «populismo». Siamo di fronte a forme di protesta generalizzate che investono gran parte del mondo occidentale. Un filo rosso lega gli avvenimenti che si sono succeduti cronologicamente negli Stati Uniti, in Grecia, in Spagna, in Francia, in Austria e in Italia. E le risposte che i governi hanno sino ad ora saputo dare si sono dimostrate in tutti i casi insufficienti. L’impoverimento della classe media, ormai ridotta a sopravvivere è un’emergenza che, bisognosa di urgenti risposte, sta rischiando di diventare strutturale. Le persone hanno paura, reagiscono all’insicurezza che pervade la loro esistenza con forme di intolleranza e non vogliono rinunciare a ciò che rimane delle conquiste sociali raggiunte nel Novecento.
Non era mai accaduto che i cittadini del nostro Paese perdessero così diffusamente la fiducia nelle classi dirigenti, che queste fossero addirittura viste come il nemico da sconfiggere. Il voto delle ultime amministrative in Italia evidenzia che il governo è visto come il rappresentante dei poteri costituiti, incapace di ascoltare, interpretare e dare risposte alle richieste dei cittadini. Serve a poco, credo, dire se questa reazione, così diffusa e dilagante, sia giusta o sbagliata. È il momento di chiedersi perché si è giunti a questa situazione, e questa domanda devono porsela principalmente i riformisti. Abbiamo di fronte alcuni problemi congiunturali che non possono essere ignorati (penso a quelli delle banche e del debito pubblico), ma non possono essere gli unici nostri obiettivi. Occorre definire una politica che rilanci lo Stato sociale, creda negli investimenti pubblici, aumenti il potere di acquisto dei cittadini, ridando in questo modo fiducia e speranza. Occorre proporre con coraggio un nuovo modello di Europa. Quello che è accaduto con la Brexit è il rifiuto di una globalizzazione che ha impoverito le tradizioni, le storie e le lingue nazionali, creando un’ulteriore sovrastruttura burocratica e amministrativa.
Se si vuole creare un sentimento di appartenenza delle donne e degli uomini che vivono nei Paesi dell’Unione è necessario mettere in primo piano quell’insieme di valori culturali e politici che, per quanto diversi nelle singole tradizioni nazionali, hanno comunque elementi comuni e tali da rendere credibile un vero progetto di integrazione.
La cultura può essere uno straordinario strumento per ricostruire i rapporti di fiducia all’interno di una comunità. Alla cultura, alla scienza e all’arte si richiede uno sforzo ulteriore, come in altri momenti della storia, in cui il pensiero ha saputo trovare nella solidarietà e nell’unione la capacità di attenuare quelle forme di intolleranza che rischiano di uscire vincitrici.
La cultura può essere lo strumento giusto, perché è più rispettosa delle tradizioni, delle storie, delle identità, perché ha più immaginazione, più creatività. Perché le molte esperienze che si sono già affermate nel nostro Paese colgono il valore e la forza dei modelli partecipativi che partono dalla condivisione di un progetto (sociale e di impresa).
Siamo di fronte a una grande sfida per i democratici e per i riformisti.
Quale progetto politico stiamo elaborando per il nostro Paese? La mia convinzione è che una grande prospettiva di cambiamento debba muovere dalla capacità di avere visione, dalla forza di alcune idee fondamentali: le forme della democrazia, il bisogno di maggiore eguaglianza, un’etica per la politica.
Occorre una riforma intellettuale e morale, agire sulle coscienze, porre un problema di antropologia culturale. Se il Partito democratico non sarà in grado di dare al più presto risposte appropriate, credo che non sia difficile prevedere che nelle prossime elezioni politiche possa ripetersi ciò che è accaduto nelle amministrative. E non appartengo a quelli che ritengono tale risultato il castigo di Dio, ma il risultato della difficoltà di leggere ciò che nel Paese e nel mondo occidentale sta accadendo. Se non faremo presto, la protesta e la speranza cercheranno altre vie democratiche, diverse da quelle a cui siamo soliti pensare.

La Stampa 16.7.16
“L’Occidente chiude gli occhi e fa affari con i fondamentalisti”
Paolo Flores d’Arcais: la chiave è il ritorno alla laicità
intervista di Mattia Feltri

Paolo Flores d’Arcais, direttore di MicroMega e autore per le edizioni Raffaello Cortina di un saggio molto interessante (La guerra del sacro) sul fondamentalismo islamico, oggi ci dice che «purtroppo gran parte della sinistra e tutta la destra si rifiutano di vedere che c’è una guerra dichiarata non ai governi occidentali bensì ai valori rivoluzionari dell’eguaglianza, della laicità e delle libertà civili. È una guerra dichiarata con la strage di Charlie Hebdo ormai un anno e mezzo fa. Ma tutti hanno fatto finta di nulla».
Per quale motivo?
«Perché l’Occidente degli establishment è complice, visto che fa affari faraonici con l’Arabia Saudita e gli Emirati: non si può combattere l’Isis, cioè il fondamentalismo islamico che vuole farsi Stato, quando si è alleati di Stati islamici già fondamentalisti, in cui vige la sharia; non si può quando il nostro spiritoso ministro degli Esteri vuol fare entrare la Turchia di Erdogan nelle istituzioni europee; non si può quando si concedono spazi enormi a istituti islamici che sono brodo della cultura fondamentalista».
È la dottrina del multiculturalismo.
«Se c’è eguaglianza delle religioni, va da sé che con il diritto di istituire scuole private cattoliche o protestanti ci sarà anche quello di istituirne di islamiche. Non bisogna più permetterlo: la scuola repubblicana, come una volta era nelle intenzioni della Francia, non deve solo tramandare il sapere ma anche gli ideali di libertà, eguaglianza e fraternità. Va fatto perché, come abbiamo testimoniato con ampie inchieste su Micromega, in Inghilterra, ma anche in Francia e in Germania, interi quartieri di grandi città sono governati dalla sharia».
È la sua teoria dello scambio?
«Sì. Si lasciano gli immigrati anche di seconda e terza generazione in condizioni socialmente emarginate, invece di integrarli come cittadini. E in cambio si concede la sharia come riconoscimento della diversità. Gran parte della sinistra acconsente stupidamente perché così si tollera l’oppressione del padre e del marito sulla donna e dell’Imam sul credente».
Dunque? Che fare?
«Primo, per integrare servono soldi, moltissimi ma ci sono, anche nell’Europa della crisi, viste evasione fiscale e corruzione, se le si volesse combattere seriamente: è la crescente povertà degli autoctoni che ostacola l’integrazione, perché porta a vedere negli immigrati il nemico. Secondo, rigorosa laicità. Terzo, nessuna concessione di diversità a chi propone diseguaglianza dei diritti».
E nel frattempo, intanto che l’estremismo uccide?
«Anche per ciò che è successo a Nizza, i nostri apparati di sicurezza sono colabrodo, legati ai tempi della Guerra fredda e dell’oppressione interna. Siamo indietro di alcune decine di anni: i terroristi si formano nella cultura scolastica legata alle moschee, nelle carceri e su Internet. È lì che serve un lavoro a tappeto di intelligence».
E forse nella vita quotidiana non c’è consapevolezza della guerra.
«Sì e sarebbe bene che ci fosse, ma anche assurdo smettere di vivere normalmente. La guerra c’è ma, come dicevo prima, i governi si rifiutano di vederla. Se la situazione politica dei Paesi europei e occidentali - perché ci sono dentro anche gli Stati Uniti - rimane questa, non c’è alcuna possibilità di vincerla».
E come deve cambiare la situazione?
«Ci vorrebbe che andasse al potere una sinistra egualitaria e illuminista che però oggi non c’è, se non in piccola parte in Podemos in Spagna, nel Movimento cinque stelle in Italia e in Bernie Sanders negli Stati Uniti».

La Stampa 15.7.16
Zanetti divorzia da Scelta Civica. Così Verdini entra nel governo
Il viceministro messo in minoranza dal suo partito si rifugia dentro Ala. Polemica nel Pd, Speranza gli chiede di dimettersi
di Ilario Lombardo

E, dunque, Denis Verdini sarebbe entrato in maggioranza? Almeno stando alla proprietà transitiva, dovrebbe essere così: se un viceministro, Enrico Zanetti, si mette alla testa di una componente con fuoriusciti del suo stesso partito, Scelta Civica, e la truppa verdiniana di Ala, il risultato parrebbe proprio questo. Il sogno di Verdini sembra realizzarsi: dall’appoggio esterno al governo vero e proprio. Peccato però che dal Pd stiano già cercando un buona risposta per uscire dall’evidente imbarazzo. Perché la minoranza dem non si è fatta attendere e Roberto Speranza ha fatto due più due: «Se è vero che, come più volte ribadito da Matteo Renzi, Ala resta fuori dalla maggioranza allora l’unica conseguenza sono le dimissioni di Zanetti dal governo». Dimissioni, che in realtà, vengono evocate anche da alcuni renziani più vicini ai vertici, pur se con molta prudenza. Potrebbe essere così, anche perché a sorprendere il premier e i suoi uomini è stata più che altro la tempistica. Che l’operazione politica di un nuovo polo centrista, filiale italiana dei liberali europei dell’Alde, fosse in corso, si sapeva da mesi. Il duo Zanetti-Verdini ci stava lavorando da quasi un anno con un discorso che via via si stava allargando anche all’ex leghista Flavio Tosi, con Luca Lotti e Maria Elena Boschi informati. Contatti, prospettive comuni, convergenze di interessi. Il gioco incrociato mescola al solito aritmetica e logiche di sopravvivenza, puntando sui numeri ballerini in Senato per modificare l’Italicum e assicurarsi la presenza nella prossima legislatura.
Tutto si stava muovendo in tal senso. A settembre sarebbero state svelate le carte. Questo era il timing. Questo era quello che si aspettavano nel Pd, nella speranza che tutto si potesse compiere dopo il referendum costituzionale. E invece le cose sono precipitate ben prima. Sc è implosa mercoledì sera. Il segretario Zanetti convoca la direzione e incassando un mandato pieno affronta la linea politica del partito. Quando si tocca l’argomento Verdini, i suoi partono con l’ammutinamento. Non vogliono apparentarsi con l’ex berlusconiano. Zanetti finisce in minoranza. Sc esiste come tale solo alla Camera, 19 deputati. Il capogruppo Giovanni Monchiero, Gianfranco Librandi, Andrea Mazziotti e il sottosegretario ai Beni culturali Antimo Cesaro, voltano le spalle al leader. Zanetti va via. Poche ore dopo chiama il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini per annunciargli la decisione presa: porterà via il simbolo e creerà una componente con il nome “Sc verso Cittadini per l’Italia” a cui aderiscono i verdiniani e l’ex leghista Marco Marcolin. In tutto 15 persone, compresi Zanetti e i tre deputati che lo hanno seguito, Mariano Rabino, Angelo D’Agostino, Giulio Sottanelli. Altri dal Misto potrebbero unirsi. Intanto, confermano, chiederanno la deroga per il gruppo «come Fratelli d’Italia».
Sul fronte più interno, nell’ex creatura di Mario Monti finita in briciole è già partita la battaglia per la paternità del simbolo, con Zanetti che sostiene di essere «l’unico titolare legittimo»: «Il gruppo da braccio operativo del partito - dichiara - si era trasformato in un comodo materasso su cui stare sdraiati in attesa di capire cosa succede». Ma il succo più interessante della faccenda riguarda gli equilibri di governo. Guerini, interrogato, si sfila: «Problemi interni a Sc», ma i dem renziani restano consapevoli di cosa pioverà addosso al Pd. Soprattutto dalla minoranza e dai grillini: Verdini è entrato al governo tramite Zanetti? Una domanda che potrebbe trasformarsi in una grana in vista del referendum, mentre Renzi lavora a compattare per la vittoria del sì. Nell’immediato, potrebbe non succedere nulla, ipotizzano i renziani. Dipenderà dall’effetto mediatico: se la il caso-Zanetti si farà sentire, il viceministro potrebbe essere costretto alle dimissioni. A quel punto, quel che resta di Sc avrebbe già pronto il sostituto del governo: Alberto Bombassei.

Corriere 15.7.16
Zanetti va con Verdini. La sinistra: così lo porta in maggioranza
Il viceministro fonda un nuovo gruppo con tre dei suoi e Ala. E vuole tenere il simbolo di Scelta civica

ROMA Nasce un nuovo gruppo politico alla Camera. E non è un gruppo qualsiasi: «Scelta civica verso Cittadini per l’Italia» fa entrare — di fatto — i verdiniani dentro la maggioranza di governo.
Lo ha voluto il viceministro dell’Economia Enrico Zanetti, segretario di Scelta civica, che ieri ha lasciato il suo gruppo e ne ha fondato uno nuovo. «Era un gruppo sfilacciato, un comodo materasso su cui stare sdraiati in attesa di capire cosa succedeva e che ha portato ad alcune incoerenze difficili da giustificare sul piano politico», ha detto Zanetti, riferendosi ai quattro voti contrari arrivati da Scelta civica alla riforma costituzionale.
Era da tempo che Zanetti voleva portare i verdiniani dentro il partito, e per questo immediata è stata la reazione critica di alcuni deputati di Scelta civica: «Apprendiamo che oggi Verdini è entrato nel governo», hanno commentato Giovanni Monchiero, Bruno Molea e Giovanni Palladino, confermando però il sostegno al governo Renzi.
Zanetti, che vorrebbe portarsi dietro anche il simbolo del partito, è uscito con altri tre deputati, ai quali si aggiungono i dieci di Ala e uno del gruppo Fare, Marco Marcolin, per un totale di quindici deputati, almeno per ora, visto che il numero potrebbe crescere.
«Il gruppo nasce nell’ottica della costruzione di una forza liberaldemocratica» ha spiegato ancora il viceministro Zanetti, trascinandosi dietro una scia di dubbi e polemiche.
Come quelli sollevati da Bruno Molea, secondo il quale se Zanetti lascia Scelta civica non può più esserne il segretario e dunque verrebbe a cadere il presupposto che aveva determinato la sua nomina al dicastero dell’Economia.
Un’altra deputata di Scelta civica, Adriana Galgano, ha polemizzato sull’intento del viceministro di portare con sé il simbolo del partito: «Noi siamo i deputati eletti in Scelta civica, altri quattro sono andati a fare altro. A chi dovrebbe andare il simbolo? A noi, ovviamente: che vogliamo restare e lavorare nell’interesse dei nostri elettori».
Ma non è solo Scelta civica che contesta la scelta fatta dal segretario di partito. Che con questa operazione i verdiniani entrino di fatto dentro la maggioranza di governo, senza altri passaggi istituzionali, lascia l’amaro in bocca soprattutto nella minoranza del Partito democratico. Roberto Speranza — che di quell’area è il leader — è netto: «Fino ad ora ci è stato detto che Verdini e Ala non fanno parte della maggioranza parlamentare che sostiene il governo. Il viceministro Zanetti, messo in minoranza dentro il suo gruppo, costituisce un nuovo gruppo con Denis Verdini. Quindi se Ala resta fuori dalla maggioranza, come ribadito dal premier Matteo Renzi, allora l’unica naturale conseguenza sono le dimissioni di Zanetti dal governo».


La Stampa 16.7.16
Zanetti: “Resto nel governo: Renzi non vuole dimissioni”
Il viceministro: Verdini? Sa di essere ingombrante, deciderà il suo ruolo
intervista di Carlo Bertini

Trovo ipocrita mettere in piedi tutta questa sceneggiata».
Perché ipocrita, viceministro Zanetti? Se Verdini attraverso di lei entra nel governo, normale che qualcuno del Pd le chieda di dimettersi. O no?
«Ma il supporto di Ala al Senato per l’azione di governo in Parlamento mi pare evidente da mesi! Quindi ipocrita è la giusta definizione. Smettiamola col gioco delle parti, ogni volta a dire dentro o fuori...».
In che senso scusi?
«Ala ha scelto di attuare un sostegno utile, perché ogni volta che c’è una maggioranza più ampia, diminuisce il potere di veto di ogni singola componente. Non solo della minoranza Dem, che se potesse lo userebbe eccome questo potere di veto».
Ma Renzi le ha chiesto di dimettersi?
«Figuriamoci! Ma le sembra possibile? È una questione lunare. Capirei se domani si creasse al Senato un gruppo “Cittadini per l’Italia” dove confluissero quelli di Ala collegati ai nostri. Ma siamo in una fase diversa. E comunque a Renzi non credo gli sfiori il pensiero di farmi uscire dall’esecutivo: non mi chiederà di dimettermi, anche perché sarebbe complicato a quel punto gestire al Senato il gruppo di Ala, perché questa richiesta verrebbe letta in termini ostili. Dunque non arriverà».
Ma ci ha parlato col premier?
«Gli ho mandato un sms a cose fatte e lui ha preso atto della mia decisione».
Dunque non avete parlato. Ma questa decisione a cosa porterà, di preciso?
«Ora si apre un processo politico costituente di una forza liberal-democratica, un processo che stiamo portando avanti da un anno. E che alle comunali ci ha consentito di avere 134 consiglieri eletti ed una percentuale media del 2,77%».
Un nuovo partito con Verdini?
«Verdini sicuramente è il primo ad essere consapevole di essere suo malgrado un personaggio ingombrante. E dovrà fare i suoi ragionamenti su che ruolo può avere in una futura iniziativa politica. Ma non è possibile trasferire il carattere individuale su chiunque condivida un percorso politico».
E del suo ruolo al governo cosa ne dice Verdini?
«Con lui non abbiamo parlato del mio ruolo nel governo. L’ho ringraziato per l’atto di generosità dei suoi che hanno aderito al gruppo senza chiedere niente. E ci siamo ripromessi di ragionare su un percorso politico per vedere cosa c’è di comune».
Un percorso antitetico al centrodestra? Insomma alle urne con chi vi vorreste schierare?
«Trovo ridicolo chi si ostina in questa fase a vivere il bipolarismo come un confronto tra centrodestra e centrosinistra. Piuttosto credo a un confronto tra polo europeista e polo anti europeista. E credo che il Pd possa rappresentare la gamba progressista, a cui serve una gamba liberal-democratica che oggi manca. Noi vogliamo costruire un nuovo soggetto politico di area moderata, in grado di camminare autonomamente o di partecipare in coalizione con un polo riformista».
Dunque lei anche per questo resta nel governo?
«Sì, se poi preferiscono farmi ministro sono disponibile, parliamone». Sonora risata e poi Zanetti torna serio. «Ma Padoan è in gamba e non mi sposterei perché la mia competenza la esercito in questo ministero. Ma battute a parte, non vedo perché dimettermi. Se ci sono state tensioni in Scelta Civica è anche perché alcuni dei nostri non hanno votato le riforme costituzionali. E troverei surreale che uno scenario da me determinato anche per lealtà al governo si traducesse in una richiesta di dimissioni».
Quindi del pressing della minoranza Pd si fa un baffo?
«Non mi offendo certo e non me ne preoccupo. Stavolta tocca a Speranza chiedere dimissioni che non arriveranno, altre volte è toccato a me».

Repubblica 16.7.16
Il blitz Verdini-Zanetti fa arrabbiare il Pd
Non è solo la minoranza, anche tra i renziani c’è chi chiede le dimissioni del viceministro di Scelta Civica
di Giovanna Casadio Stefano Bartezzaghi

ROMA. «Un fulmine a ciel sereno». Al Nazareno, sede dem, il blitz del viceministro di Scelta civica Enrico Zanetti di creare un gruppo con Verdini e i suoi, è giudicato una brutta vicenda. Nel Pd c’è irritazione. E la rabbia tra i Democratici dilaga, non solo nella minoranza del partito - che di Zanetti chiede le dimissioni dal governo. Anche i renziani polemizzano: c’è chi spinge l’acceleratore e si aspetta le dimissioni e chi consegna al premier la patata bollente perché trovi una soluzione e calmi le acque. Tutti sono concordi nel ritenere che sarebbe stato meglio che la campagna acquisti di Verdini, che ha arruolato il vice ministro all’Economia, non ci fosse stata.
Lorenzo Guerini, il vice segretario, dice che nei prossimi giorni si valuterà. Per ora non ci sono conseguenze. La ricostruzione in casa Pd è questa: mercoledì sera i verdiniani a cena si sono visti per fare decollare con Zanetti e i tre che lo hanno seguito nella nuova avventura di “Scelta civica verso cittadini per l’Italia”, un comitato per il Sì al referendum costituzionale. E invece è finita con la scissione dei montiani, la lite sul simbolo e soprattutto quel gruppo a Montecitorio che mischia parlamentari montiani in maggioranza e i verdiniani finora fuori dalla porta della coalizione.
Stefano Esposito, senatore renziano, è indignato due volte: per la scelta di Zanetti e per il pressing della sinistra dem per le dimissioni: «Nel momento delle tragedie a Nizza e in Puglia, come si fa a occuparsi di cosa fanno Zanetti e Verdini. Discutere della scissione dell’atomo, è triste. Però penso che Zanetti potrebbe dimettersi per non dare adito a chissà quali ipotesi politiche, che non esistono ». Più cauti Angelo Rughetti, il presidente del partito Matteo Orfini, i capigruppo Ettore Rosato e Luigi Zanda. Anche Alfano non ha gradito.
In Senato, dove la maggioranza traballa, in realtà non ci sono novità: i 18 verdiniani continuano con il loro gruppo Ala e i montiani sono già entrati nel Pd. Però il caso nel governo non si può ignorare. In Scelta civica il conflitto finisce a carte bollate. Lite sul simbolo, il capogruppo alla Camera, Giovanni Monchiero non intende mollarlo. Zanetti è certo che la settimana prossima sarà raggiunta quota 20 deputati e sarà possibile creare un gruppo a Montecitorio. Per ora i verdiniani sono Ignazio Abrignani, Luca D’Alessandro, Massimo Parisi, Giovanni Mottola, Monica Faenzi, Giorgio Lainati, Pino Galati e Saverio Romano. Con Zanetti ci sono Mariano Rabino, Giulio Cesare Sottanelli e Angelo D’Agostino più Marco Marcolin dell’area di Tosi.

Repubblica 16.7.16
Zanetti
“Dimettermi? No, la mia è una scelta di continuità. Con Ala saremo la gamba liberaldemocratica della coalizione”
“Non cambia niente Denis sta già col governo”
I verdiniani sono una forza preziosa per Renzi, perché riducono il potere di veto della sinistra dem
intervista di Goffredo De Marchis

ROMA. Un partito nè di destra nè di sinistra perché «per una decina d’anni la competizione sarà tra il sistema e l’antisistema». Un partito che aiuti il Pd a isolare una parte di sè, che «riduca significativamente il potere di veto di singole componenti, come la minoranza dem». Un partito in cui Denis Verdini, «una presenza ingombrante suo malgrado», avrà certamente diritto di cittadinanza se risolverà i suoi problemi giudiziari. Non si può certo dire che il viceministro dell’Economia Enrico Zanetti, segretario di Scelta civica, giri intorno ai problemi. Ovviamente, non pensa affatto alle dimissioni: «La mia è una scelta di continuità».
Con lei viceministro e con il nuovo gruppo alla Camera formato assieme ad Ala, possiamo dire che Verdini entra ufficialmente al governo?
«Noi costituiamo un gruppo a Montecitorio che si chiamerà Scelta civica verso Cittadini per l’Italia. L’orizzonte è il congresso del prossimo autunno. Fino ad allora, esisterà il gruppo con deputati di varia provenienza tra cui gli 8 di Ala».
Sta facendo finta di niente?
«Assolutamente no. È un passo importante. Con Ala, nelle prossime settimane, può nascere davvero la gamba liberaldemocratica dell’esecutivo. Ma per tornare alla domanda iniziale, rispetto alla maggioranza e al governo cambia poco o nulla».
Vuole dire che Verdini è al governo da tempo?
«A livello parlamentare Ala è, non da ieri, una forza indiscutibilmente preziosa per Renzi per ridure il significativo potere di veto delle singole componenti, quali anche la minoranza del Pd. Poi, c’è un processo che è partito, l’orizzonte comune può diventare Cittadini per l’Italia, la sigla con cui ci siamo presentati alle amministrative. Se si realizzerà una convergenza politica con i verdiniani al congresso, il processo arriverà a compimento».
Voi siete di centrosinistra, dunque.
«Chi legge la politica attraverso il bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra commette un gravissimo errore. Per una decina d’anni il confronto sarà tra il fronte antieuropeista rappresentato oggi in Italia soprattutto dai 5 stelle e il fronte europeista e riformista che può sicuramente avere sfumature di destra e sinistra al suo interno ma in cui prevale il progetto condiviso».
Sistema contro antisistema.
«Esatto. Ed è molto più salubre e prudente riformare senza distruggere anziché spazzare via tutto prima di ricostruire. Manca, ora, una forma di legge elettorale che consenta il premio di maggioranza alle coalizioni con sbarramenti adeguati. Penso che ci arriveremo. Così staranno insieme un’importante gamba liberaldemocratica e un partito progressista come il Pd».
È la modifica dell’Italicum proposta da Dario Franceschini.
«Franceschini si è dimostrato sicuramente uno dei più lucidi in assoluto. Conosce con esattezza qual è la situazione e quale sarà in futuro».
Non sente di favorire il trasformismo traghettando gli ex Forza Italia verso la sinistra?
«Dal ‘94 al ‘98 ho avuto anch’io la tessera di Forza Italia.. Dopo di che, ho cominciato a lavorare e sono tornato alla politica nel 2013. Ma ripeto: tra qualche anno torneremo a giocare a destra e sinistra. Adesso no».
I guai giudiziari di Verdini la imbarazzano?
«In questo momento i deputati che aderiscono al nostro gruppo sono individualità che meritano rispetto. Chiunque, in Ala, viene definito verdiniano. Adesso diventeranno zanettiani e non ci saranno più verdiniani. È una battuta, s’intende. Il primo ad avere consapevolezza di essere ingombrante, suo malgrado, è Verdini. Per la troppa pubblicità e per i problemi giudiziari in corso che gli auguro di risolvere. Se così non fosse non potremo contare sul suo apporto. Ma non faccio conventio ad excludendum, sarebbe ridicolo».
Conosce le ironie sulla rottura dentro Scelta civica: è la scissione dell’atomo.
«Condivido. Alcuni pensano che l’atomo sia la dimensione ideale per la politica. Preferiscono autodeterminarsi in 10 in una stanza invece di andare a convincere elettori in giro per il Paese».

Corriere 15.7.16
Il referendum spacca l’Italia I favorevoli scendono al 51%
di Nando Pagnoncelli

Il 58% pensa di andare ai seggi. Tra i democratici il 16% voterebbe contro
Concluse le elezioni amministrative, al centro dell’attenzione si pone l’appuntamento del referendum costituzionale. Il premier ha cercato negli ultimi tempi di attenuarne il significato politico di cui peraltro era sovraccarico, mettendo al centro i contenuti, mentre dall’altro lato gli oppositori tendono a farne uno strumento per «dare una spallata» a Renzi e al suo governo. Comunque sia, è evidente che i risultati del referendum che si terrà nel prossimo autunno saranno cruciali per l’assetto del Paese.
Quali le opinioni degli italiani? Partiamo intanto dalla conoscenza dei contenuti, che tende a crescere rispetto all’analogo sondaggio presentato in questa rubrica a fine gennaio, ma che rimane ancora relativamente bassa. Meno del 10% infatti dichiara di padroneggiare nel dettaglio i contenuti della riforma che d’altronde sono piuttosto complessi e ardui, mentre il 42% dichiara di essere al corrente solo dei termini generali. Siamo comunque alla maggioranza assoluta (51%) che ne sa almeno qualcosa, con una crescita di sette punti rispetto a gennaio. Con alcune interessanti differenze: molto più al corrente, sia pure in termini generali, sono gli elettori dei partiti di governo ma anche del M5S. Meno al corrente gli elettori di Lega e FI, mentre nel gruppo composto in larga misura da chi non vota o dagli incerti, prevale nettamente l’ignoranza dei contenuti.
Se si votasse oggi, più della metà degli italiani (58%) è propensa a recarsi alle urne, in questo caso in modo sostanzialmente trasversale ai diversi partiti, mentre la partecipazione crolla nell’area grigia degli astensionisti. Nei nostri dati la gara è aperta: il Sì prevale di un solo punto percentuale, sui voti validi il risultato si attesterebbe al 51% per il Sì e al 49% per i No. La differenza rispetto al sondaggio di gennaio è rilevante: allora infatti i Sì prevalevano nettamente, con il 57%. La crescita della partecipazione ha largamente favorito il No: negli elettori dei partiti di opposizione in particolare, ma anche negli elettori dei partiti di centro il fenomeno è simile.
Sembra quindi che anche tra gli alleati del Pd sia cresciuta la contrarietà, forse motivata anche da una certa insoddisfazione nei confronti del governo. Il panorama comunque non è del tutto granitico: nel Pd emerge un orientamento al No decisamente minoritario ma non del tutto secondario (16%). Orientamento che cresce tra i centristi alleati di governo (qui raggiunge un terzo dei voti validi). Al contrario negli elettori delle formazioni di opposizione l’orientamento al Sì è apprezzabile: dal 25% circa tra leghisti ed elettori del Movimento 5 Stelle sino al quasi 40% degli elettori di FI, partito in cui è presente, anche ai vertici, una posizione se non favorevole almeno non distruttiva rispetto a questa riforma. C’è quindi una trasversalità che presumibilmente il prosieguo del dibattito, soprattutto se si concentrerà sui contenuti, potrà favorire.
Cambia anche, e profondamente, il clima nel quale la consultazione si inserisce. Se infatti a gennaio era nettamente prevalente la convinzione che il risultato del referendum avrebbe premiato il Sì, oggi è invece prevalente il dubbio. Infatti solo il 31% è convinto che i sì vinceranno, tuttavia questo calo non favorisce la convinzione che vinceranno i No, che aumenta solo di quattro punti, ma fa salire appunto il dubbio.
Sono cambiate innanzitutto le opinioni degli elettori dei partiti di opposizione che sei mesi fa prevedevano la vittoria del Sì, mentre oggi ne sono molto meno sicuri. Ciò rappresenta un problema per Renzi, poiché rischia di mobilitare ulteriormente l’elettorato di opposizione che ritiene possibile vincere e mettere in crisi il governo.
E infatti si sta consolidando l’idea che le motivazioni di voto degli italiani saranno sempre più concentrate sul significato politico del referendum. La maggioranza assoluta pensa che i propri connazionali si recheranno alle urne pensando di bocciare (o approvare) il lavoro di Renzi e del suo governo, dando poco peso al merito della riforma. La percezione di crescita della politicizzazione del referendum aumenta in maniera vistosa in particolare tra gli elettori Pd che appaiono sempre più preoccupati di quanto potrebbe accadere.
La strada si fa sempre più complessa per Renzi e per il Pd. L’aver trasformato il referendum in un giudizio sul presidente del Consiglio, legandolo strettamente alla sopravvivenza del governo e al percorso delle ulteriori riforme, sta provocando importanti difficoltà. Infatti, benché i contenuti specifici della riforma proposta siano sostanzialmente condivisi dalla maggioranza dei cittadini (in particolare la trasformazione del Senato), prevale l’idea di votare in base ai propri orientamenti politici. È evidente che diventa necessario per Renzi riorientare il dibattito sui contenuti. E in particolare affrontare il tema (che non riguarda il referendum ma è connesso) della legge elettorale che per molti elettori favorisce la scelta del No, poiché la si considera portatrice di un concentramento di poteri sul leader vincente senza che ci siano adeguati contrappesi. Strada complessa appunto, ma probabilmente inevitabile se vuole arrivare alla vittoria in autunno.

Repubblica 16.7.16
Firenze, indagato il cognato di Renzi
L’inchiesta su Conticini, l’imprenditore che ha sposato la sorella del premier. L’accusa: “Riciclaggio”
di Massimo Mugnaini

FIRENZE. Andrea Conticini, cognato del premier Matteo Renzi (ha sposato la sorella del capo del governo, Matilde), è indagato dalla Procura di Firenze per riciclaggio. Al centro della vicenda passaggi di denaro dall’Inghilterra all’Italia che hanno destato i sospetti prima di Bankitalia e poi - dopo la segnalazione di Via Nazionale provocato l’apertura di un fascicolo penale della magistratura fiorentina. L’imprenditore, 35 anni, è stato perquisito dal nucleo di polizia tributaria di Firenze insieme ai fratelli Alessandro, 40 anni, e Luca, 35, anch’essi iscritti nel registro dai pm Luca Turco e Giuseppina Mione, che conducono le indagini, con l’accusa di appropriazione indebita. I tre fratelli, tutti difesi dall’avvocato Federico Bagattini, hanno già fatto ricorso al tribunale del Riesame per chiedere il dissequestro del materiale cartaceo ed elettronico acquisito dai finanzieri nei giorni scorsi nei loro studi a Rignano sull’Arno e Bologna. «Contestiamo le accuse della procura» spiega l’avvocato Bagattini.
L’inchiesta ha dunque preso il via da una segnalazione inviata da Bankitalia alla procura fiorentina nel 2011. Secondo gli ispettori di Via Nazionale, cifre ingenti “sospette” sarebbero infatti transitate dal conto corrente di una società – la Play Therapy Africa Ltd, con sede in Inghilterra, amministrata da Alessandro Conticini – su un conto corrente privato di quest’ultimo. Da lì, «in assenza di idonea causale » e «per nome e per conto di Alessandro e Luca Conticini» la somma di denaro - la cui entità non è stata resa nota ma consisterebbe in svariate centinaia di migliaia di euro - sarebbe stata stornata da Andrea Conticini, marito di Matilde Renzi, e utilizzata per l’acquisto di quote di altre società. Da qui l’accusa di riciclaggio avanzata dalla Procura per quest’ultimo e di appropriazione indebita per gli altri due fratelli. E sebbene l’operazione sospetta risalga al 2011, secondo gli inquirenti fiorentini l’appropriazione sarebbe proseguita fino al 2015.
La società Play Therapy Africa Ltd secondo la procura diretta da Giuseppe Creazzo - ha rapporti professionali con numerose organizzazioni umanitarie e non governative tra cui Unicef e Operation Usa (quest’ultima in passata diretta proprio da Alessandro Conticini). Secondo l’avvocato Bagattini «non vi è stata alcuna appropriazione indebita e l’ipotesi della procura non regge perché i miei assistiti si sarebbero appropriati di somme di una società di cui sono soci esclusivi». Il legale ha precisato che la contestazione della Procura non contempla alcuna ipotesi di raggiro nei confronti di organizzazioni umanitarie. «I soldi ricevuti da queste organizzazioni - afferma Bagattini - sono pagamenti regolari alla Play Therapy Africa Ltd, avvenuti dopo la verifica dell’effettiva esecuzione dei mandati ricevuti. Quello che si contesta è che poi queste somme, appartenenti alla società, sarebbero state utilizzate a fini individuali, per interessi privati e individuali e non della stessa società».

Il cognato del premier e il riciclaggio dell’Unicef
Indagato per aver trasferito ai suoi fratelli fondi dell’organizzazione per l’infanzia: si tratterebbe di alcune centinaia di migliaia di euro
di Da. Ve.
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Il Fatto 16.7.16
Le società di famiglia sono il grosso guaio della dinastia Renzi
Cambi di nome e di sede ma la ditta è sempre rimasta nelle mani del padre Tiziano, tuttora indagato a Genova
di Davide Vecchi
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Il Fatto 16.7.16
Agnese su Vanity Fair con la nipotina affetta da sindrome di down

AGNESE RENZI tra le onde con la nipotina, una bambina di quattro an- ni affetta da sindrome di down adottata dal- la sorella del presidente del Consiglio, Ma- tilde Renzi, e dal marito Andrea Conticini, ora indagato dalla procura di Firenze per ri- ciclaggio. È una delle immagini pubblicate sull’ultimo numero di Vanity Fair con il rac- conto della “first lady” sul suo essere una
“zia speciale”. Sulla copertina del settima- nale diretto da Luca Dini compare il richia- mo al servizio nelle pagine interne: “Cosa ho imparato dalla bambina, che ha ‘5 anni meno uno’ e la sindrome di down”. Dentro un servizio fotografico scattato su una spiaggia della Toscana accompagnato da un articolo firmato proprio dalla moglie di Matteo Renzi. Nel testo Agnese Landini
racconta che la bambina “è stata un regalo del cielo” che i cognati hanno scelto “in se- guito a una richiesta speciale”. Dopo un ap- pello loro l’hanno accolta nella famiglia in- sieme alle loro due bambina. Agnese Lan- dini e la cognata Matilde Renzi sono le ma- drine dei Trisome Games, prima olimpiade per atleti affetti dalla sindrome di down co- minciata proprio ieri a Firenze.

La Stampa 16.7.16
“Italia, Pil sotto l’1%”
Sono a rischio 5 miliardi di entrate
Bankitalia: Brexit e mercati pesano sulla crescita
di Paolo Baroni

«Nel nostro Paese la ripresa continua con gradualità, sospinta dalla spesa delle famiglie (che beneficiano dell’incremento del reddito disponibile e del miglioramento delle condizioni occupazionali) e, in misura più contenuta, dagli investimenti», certifica Bankitalia nel suo ultimo Bollettino economico. In realtà tutti gli indicatori congiunturali suggeriscono che «nei mesi primaverili il Pil avrebbe lievemente rallentato». A questa frenata ora si aggiunge l’effetto Brexit che potrebbe incidere ancor più negativamente sulla crescita creando pure qualche problema di bilancio al governo che di qui al 2018 si troverebbe con 4-5 miliardi di minori entrate.
Attenzione allo spread
Pur con molta cautela («i possibili effetti dipendono dal verificarsi di conseguenze ancora ampiamente ipotetiche»), via Nazionale sostiene che il referendum inglese potrebbe avere «un effetto non trascurabile ma limitato sul Pil». Dovuto più alle conseguenze dell’attività economica che alle ricadute dei movimenti nei mercati finanziari e valutari. Esplorando infatti «i possibili effetti di una forte caduta dell’attività nel Regno Unito, anche in ipotesi estrema - segnala il rapporto - l’impatto negativo sul Pil sarebbe di entità relativamente contenuta, nell’ordine di un quarto di punto percentuale». I guai, semmai, potrebbero arrivare in seguito all’aumento dell’incertezza circa le attività delle imprese. Nel caso le nostre merci avessero infatti seri problemi di sbocco nel Regno Unito, «il prodotto potrebbe crescere poco al di sotto dell’1% quest’anno e attorno all’1 il prossimo». Poi, se per effetto del nuovo clima dovesse pure aumentare il differenziale di rendimento fra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi, così come è avvenuto durante l’ultima crisi greca (35 punti base in più), Bankitalia prevede altri 2 decimi di punto in meno di Pil di qui al 2018.
Strada in salita per il Def
Secondo l’ultimo Def presentato dal governo il prodotto interno sarebbe dovuto invece crescere dell’1,2% quest’anno e dell’1,4% nel 2017. Se le previsioni al ribasso venissero confermate nei prossimi mesi, inevitabilmente, occorrerebbe fare i conti anche con minori entrate: due decimi di punto di Pil in meno nel 2016 si tradurrebbero infatti in circa 1,6 miliardi di minor gettito, col deficit che passerebbe dal 2,3 previsto dal governo al 2,5-2,6, mentre 0,3-0,4 punti in meno sul 2017 produrrebbero un buco che oscilla tra 2,4 e 3,2 miliardi col deficit che dall’1,8 programmato arriverebbe al 2,2%. Quanto basta per rendere più stretto il cammino delle future leggi di stabilità e più complessa la messa a punto della manovra economica del governo. Per il momento il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan conferma tutti i programmi già annunciati a partire dalla sterilizzazione degli aumenti Iva e dal taglio delle tasse. In realtà i conti veri il Mef li farà solo dopo l’estate. «Il quadro è quanto mai incerto», commenta Andrea Goldstein, managing director di Nomisma, che suggerisce «di intervenire rapidamente e decisamente per tutelare la stabilità finanziaria e rafforzare la fiducia delle imprese e delle famiglie».
Il debito continua a correre
Sempre ieri Bankitalia ha diffuso i nuovi conti delle amministrazioni pubbliche che vedono le entrate tributarie salire da 31 a 33,8 miliardi (152,2 miliardi nei primi 5 mesi, +4,2%) e soprattutto segnalano una nuova impennata del debito (+10,9 miliardi a quota 2241,8). Secondo Adusbef e Federconsumatori, che contestano la politica economica messa in campo sino ad oggi, nei 27 mesi di governo Renzi il debito è cresciuto di ben 134,7 miliardi. Al ritmo di quasi 5 miliardi al mese, circa 165 milioni al giorno, 6,7 milioni all’ora, 115 mila euro al minuto, 1840 euro ogni secondo.

Repubblica 15.7.16
4.6 milioni di italiani in povertà assoluta
Perché cresce il paese dei poveri
di Chiara Saraceno

IN controtendenza con i dati positivi sull’occupazione, la povertà assoluta nel 2015 non solo non è diminuita, ma è aumentata, coinvolgendo quasi 400 mila persone in più rispetto al 2014 e raggiungendo 4 milioni e 598 mila persone, pari al 7,6 per cento della popolazione. Si tratta, secondo i dati Istat pubblicati ieri, del dato più alto dal 2005. L’incidenza della povertà continua ad essere maggiore nel Mezzogiorno. Ma l’aumento è avvenuto pressoché tutto nelle regioni del Nord, dove riguarda in prevalenza famiglie di persone straniere e regolarmente residenti nel nostro paese. Tra queste, infatti, si trova in povertà assoluta quasi un terzo, il 32,1, una percentuale di 8 punti maggiore rispetto all’anno prima e più alta di quella, pur considerevole (28,3 per cento), rilevabile per queste famiglie a livello nazionale. Se si riducono un po’ i divari Nord-Sud, ciò sembra avvenire in larga misura a causa dell’aumento del divario, soprattutto al Nord, tra famiglie di italiani e famiglie di stranieri. Se a livello nazionale le famiglie di tutti stranieri si trovano in povertà oltre sei volte di più di quelle di tutti italiani, nel Nord la differenza è di oltre tredici volte. Gli effetti lunghi della crisi sembrano aver colpito molto di più gli stranieri, che faticano a trovare o ritrovare un lavoro che sia anche decente. Potremmo pensare che questi dati non rispecchiano il miglioramento avvenuto sul piano dell’occupazione a seguito del dispiegarsi degli effetti del jobs act, stante che questo è avvenuto soprattutto nell’ultimo trimestre del 2015. Può essere, ma solo in parte. Siamo, infatti, ancora ben lontani dall’aver recuperato tutti i posti di lavoro perduti. Inoltre va considerato con grande preoccupazione che l’aumento della povertà assoluta (dal 5,2 al 6,1 per cento) ha riguardato anche famiglie con persona di riferimento occupata, soprattutto se operaio o assimilato. Tra le famiglie di questi ultimi l’incidenza della povertà assoluta è passata in un anno dal 9,7 all’11 per cento. Molti di questi lavoratori hanno avuto un reddito troppo basso per poter fruire degli 80 euro, perché incapienti, o li hanno dovuti restituire perché “indebitamente” percepiti, in base alla logica paradossale degli 80 euro che esclude i più poveri.
Il fenomeno dei lavoratori e delle famiglie di lavoratori povere ha conosciuto un fortissimo aumento negli anni della crisi, a motivo sia della riduzione del numero di occupati in famiglia, soprattutto a causa della disoccupazione giovanile, sia della crescita del part-time involontario. Quest’ultimo è sempre meno una caratteristica solo dei contratti di lavoro a tempo determinato e in generale dei contratti atipici quando non irregolari. Come documenta il Rapporto Inps presentato la scorsa settimana, quattro contratti a tutele crescenti su dieci sono a tempo parziale. Avere un lavoro non sempre è sufficiente a proteggere dalla povertà, se è a tempo ridotto, o troppo poco pagato, o se il reddito che fornisce deve bastare per diverse persone. Da questo punto di vista, un altro dato preoccupante riguarda l’aumento della povertà assoluta tra le famiglie con due figli, specie se minori. Finora era il terzo figlio a far scattare un rischio di povertà sopra la media. Ora basta il secondo. Non stupisce, allora, che i minori siano sovrarappresentati tra chi si trova in povertà assoluta, con un peggioramento sensibile nell’arco di dieci anni. Era in povertà assoluta il 3,9 per cento di tutti i minori nel 2005, il 10,9 per cento nel 2015. In termini numerici sono più del doppio degli anziani: 1 milione e 131 mila rispetto a 538 mila. Ma anche i loro fratelli più grandi non stanno meglio, con quasi il 10 per cento, pari a un milione e 13 mila individui, in povertà assoluta. A ben vedere, poco meno della metà dei poveri assoluti appartiene alle giovani e giovanissime generazioni, che non hanno ancora l’età per entrare nel mercato del lavoro o che ne vengono escluse, come mostrano i dati del citato Rapporto Inps sull’invecchiamento della forza lavoro occupata negli anni della crisi, a seguito del combinarsi di riduzione della domanda di lavoro e innalzamento dell’età alla pensione. Investire sull’aumento dell’occupazione, come ha dichiarato il ministro Padoan, è certo necessario per combattere la povertà. Ma il fenomeno dei lavoratori poveri e delle loro famiglie, della sovrarappresentazione dei minori e dei giovani tra i poveri, insieme alla drammaticità dell’incidenza della povertà tra gli immigrati, segnalano che non è sufficiente se non si tiene conto di quale lavoro si tratta e di chi può accedervi. Impongono anche di rivedere criticamente alcune scelte redistributive, dagli 80 euro al bonus bebè.

Repubblica 15.7.16
Ddl prescrizione Un altro rinvio
di Liana Milella

SONO tanti due anni per esaudire una promessa. Renzi e Orlando, il premier e il ministro della Giustizia, garantirono la riforma della prescrizione il 30 giugno del 2014. Sono passati 745 giorni e la notizia che arriva non è la certezza di un prossimo e definitivo passaggio parlamentare, ma quella dell’ennesimo rinvio. A settembre pare, solo per il voto del Senato, poi toccherà ancora alla Camera.
Hanno speso la loro autorevolezza due presidenti, quello della Repubblica Mattarella e quello del Senato Grasso. Hanno strappato una data nel calendario di palazzo Madama, il 26 luglio. Già troppo in là, visto che il disegno di legge sul processo penale, che contiene al suo interno la prescrizione, “pesa” oltre 40 articoli e già in commissione Giustizia ha prodotto 800 emendamenti. Tra quegli articoli c’è anche la riforma delle intercettazioni — una delega molto contestata per la sua singolare sinteticità — che certo non può essere discussa e licenziata in pochi minuti. Come racconta un’informata “radio Senato” la data del 26 sarà rispettata, il ddl “incardinato”, ma poi l’onda dei decreti legge in scadenza — Ilva, processo telematico, misure di finanza territoriale — prenderà di necessità il sopravvento, visto che il Senato chiude i battenti il 5 agosto e i decreti scadono prima che riapra.
Non c’è magistrato autorevole in Italia che non abbia chiesto decine di volte la riforma della prescrizione, ridotta da Berlusconi nel dicembre 2005 con la legge ex Cirielli a una norma “ammazza processi”, soprattutto quelli di corruzione. Ogni volta, a inizio d’anno, è il leit motiv delle cerimonie che aprono l’anno giudiziario. Il Pd ne ha fatto per anni un cavallo di battaglia. E adesso che succede? Presto detto. Il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano, che per la cronaca conta numerosi inquisiti, ne fa una questione di principio. Il ministro della Famiglia Enrico Costa è “l’avvocato difensore” della prescrizione breve di berlusconiana memoria. Il braccio di ferro va avanti da un anno. Il Guardasigilli Orlando media, ma lo subisce. La riforma, nella versione votata alla Camera tra le urla dei centristi, come ha detto e scritto l’Anm prima di Sabelli e poi di Davigo, è proprio un pannicello caldo. Prescrizione solo sospesa, e non definitivamente bloccata, dopo il primo grado. Due anni di bonus per l’appello e uno per la Cassazione in cui l’orologio resta fermo. Un ulteriore bonus per i reati di corruzione, prescrizione misurata sul massimo della pena più la metà (anziché solo un quarto). Ma Ncd fa fuoco e fiamme e blocca il provvedimento in commissione. Parte una trattativa estenuante, piena di trucchetti. Gli anni di bonus s’invertono, solo un anno in Appello (troppo poco) e due in Cassazione (inutili). Orlando spunta 18 mesi per parte. Netto stop al trattamento speciale per la corruzione, su cui Costa è durissimo («non passerà mai»). Poi l’ultima invenzione, il bonus in Appello e in Cassazione “muore” se il processo sfora i tempi.
Qui pure il dialogante Orlando s’infuria. Lo sentono dire: «Ncd sarà pure determinante al Senato, ma io non perdo la faccia. Questa norma non passerà mai». Ncd sembra quasi cedere, ma il rischio del voto segreto al Senato intimorisce il governo. La fiducia, pur vagheggiata, pare impraticabile. Un accordo al ribasso su una materia come la prescrizione mette in allarme la sinistra del Pd. Il relatore Felice Casson è già pronto a dire: «Se passa il testo di Ncd io non ci sto più... preferisco lasciare ».
Se ne parlerà a settembre. Nonostante l’impegno di Mattarella che pure aveva chiesto espressamente un voto al Senato prima dell’estate. I processi di corruzione continueranno inutilmente a morire. Sulla riformicchia continueranno a litigare Pd ed Ncd. Alfano e Costa, memori di quando stavano con Berlusconi, continueranno a chiedere il processo lungo e la prescrizione breve.

La Stampa 15.7.16
A Roma vince l’asse Grillo-Raggi
Lombardi fuori dal direttorio M5S
Dietro l’addio, gli scontri con la sindaca. Decisivo il ruolo del leader
di Jacopo Iacoboni

«Ce ne faremo una ragione». La reazione di Virginia Raggi alla notizia delle dimissioni di Roberta Lombardi dal direttorio romano del M5S, è stata sostanzialmente questa: la sindaca era sollevata. Ha reagito molto bene ed è chiaro il perché: il siluramento della Faraona le rende almeno percorribile la strada per provare a governare Roma (prima era quasi impraticabile). Lombardi ha scritto su Facebook un post in cui dice «mi spiace deludere chi sta parlando di liti e gelo o siluramenti», secondo lei la sua uscita si spiega con il lavoro intenso che avrà davanti per organizzare la manifestazione di Italia a 5 stelle a Palermo il 24 e 25 settembre, «purtroppo per questo il mio supporto nello staff romano sarà differente». Ma è una spiegazione di facciata. Ecco invece com’è andata.
La lotta continua
Tutti ora si stanno concentrando sullo scontro tra la sindaca e la Lombardi in questi mesi, ma questa è la cosa ovvia, ormai stranota; una lotta continua, un corpo a corpo che ha avuto naturalmente vari momenti e un’escalation: Raggi e Lombardi si scontrarono mesi fa perché la prima e Daniele Frongia eccepivano, con ragione, sulla possibilità che Marcello De Vito si candidasse sindaco, per via di vari problemi che lo lambiscono. Poi, dopo il voto, Lombardi ha seminato molti ostacoli contro Frongia per farlo fuori da capo di gabinetto, attaccandolo su una presunta incompatibilità tra ruolo di consigliere e capo di gabinetto (argomento non molto forte), e (argomento forte) sulle amicizie del vicecapo di gabinetto nominato, Raffaele Marra (uomo già vicino a Panzironi e Alemanno; la cui revoca da vicecapo di gabinetto ancora non ci risulta, peraltro). Raggi dovette cedere e spostare Frongia, senza deleghe alle partecipate (che andarono a Marcello Minenna, uomo stimatissimo da Di Maio), ma comunque ottenne che facesse il vicesindaco (pareggio). Lombardi ha piazzato allora molti uomini nel manuale Cencelli per le potenti commissioni capitoline. Qui Raggi ha perso, ma si è rifatta bloccando la nomina di Daniela Morgante a capo di gabinetto, una volta convintasi che fosse amica della Lombardi: ora l’interim è a Virginia Proverbio. Che agisce in stretto contatto con Frongia, vicesindaco ma molto operativo. Tuttavia il «siluramento» della Lombardi avviene non solo per la resistenza della Raggi, ma perché lei ha fatto asse con Beppe Grillo, tornato prepotentemente al centro dei giochi. Incredibile. Forse mai lo si era visto così dentro i giochi. L’uscita della Lombardi sancisce il ritorno del fondatore e un’operazione di scavalcamento, su Roma, del primo direttorio (cioè di Di Maio), che osserva questa dinamica bypassato. Non c’è bisogno di spiegare quanto questo scenario sia interessante: Raggi che lotta per l’autonomia.
Il rapporto con il leader
Qui si può aggiungere una notizia sul faccia a faccia di mercoledì tra Raggi e Grillo. Grillo era sceso a Roma convinto che, come altre volte, gli sarebbero bastate due pacche sulle spalle e qualche gag per rimettere insieme i cocci. Ma stavolta non è stato affatto così: la sindaca ha tenuto forte il punto, e il confronto non è stato affatto una passeggiata, anche sul piano personale, perché Beppe è tornato sì in pista, ma come soggetto attivo, altro che mero «padre nobile». Il che da un lato aiuta la Raggi a liberarsi di molti tutoraggi, appiccicosi e lottizzatori, ma dall’altro la mette faccia a faccia con l’interlocutore più imprevedibile da maneggiare. Tra i due, Virginia e Beppe, s’è aperto un canale diretto; Raggi deve aver toccato con lui qualche corda giusta: anziché blandirlo, l’ha fronteggiato. Lombardi ha fatto troppi errori. La descrivono adesso stanca, provata, a pezzi. Il mini-direttorio romano stesso (formalmente sono stati loro, la Taverna, a chiedere a Lombardi «fai un passo indietro, per il bene del Movimento») potrebbe scomparire, perché Taverna si sta smarcando anche lei, e l’unico a fare fronda potrebbe restare Gianluca Perilli.

Il Fatto 16.7.16
Ora la Festa dell’Unità “imbavaglia” D’Alema
Il Lìder Massimo ha ricevuto un (raro) invito a una kermesse del partito. Ma a una condizione: parla solo di Esteri
di Wanda Marra
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La Stampa 16.7.16
Assemblea con lo strappo dei trecento di Zedda

Si terrà oggi a Roma l’assemblea nazionale di Sinistra Italiana, «un appuntamento di approfondimento programmatico che aiuti a definire il profilo del soggetto politico che si vuole costruire nei prossimi mesi, e per definire la mobilitazione per il referendum costituzionale del prossimo autunno, perché da quel voto dipenderà la qualità della democrazia del nostro Paese», si legge in un comunicato. I lavori avranno inizio con la relazione di Alfredo D’Attorre. Non parteciperanno Massimo Zedda, sindaco di Cagliari, e Luciano Uras. E, con loro, saranno assenti, «tutti quelli che figurano tra i trecento che hanno firmato il documento» del sindaco di Cagliari. A riferirlo è lo stesso Luciano Uras, tra i primi a sottoscrivere il «documento politico» con cui si rivendica il successo di Sel in Sardegna e si chiede un ripensamento rispetto al percorso iniziato con Sinistra Italiana. Alla domanda se la questione riguardi anche il rapporto col Pd, Uras risponde: «Certamente sì, anche se manteniamo la nostra diversità di ruolo, rispetto al Pd e al governo. Vorremmo essere utili per il Paese e non soltanto orgogliosa minoranza

il manifesto 16.7.16
Il ’quesito’ della sinistra italiana
Roma. Oggi l’assemblea ai Frentani, è scontro a bassa intensità, ma pesano già gli abbandoni
di Daniela Preziosi

ROMA Il clima, l’umore, i sentimenti sono quelli del lutto e del cordoglio dopo una settimana di avvenimenti tragici che tolgono senso alle beghe e ai conflitti di piccolo cabotaggio della politica, se mai hanno senso. In condizioni ’normali’, dopo la strage del treno di Andria – erano solo tre giorni fa – e l’ecatombe di Nizza della notte fra giovedì e venerdì, l’assemblea nazionale «aperta» di Sinistra italiana (oggi a Roma dalle 10 al Centro Congressi Frentani, anche in diretta streaming) sarebbe stata rimandata a dopo le giornate del lutto.
Ma ’condizioni normali’ non sono per la sinistra italiana, minuscola e maiuscola, dopo la batosta (quasi ovunque) delle comunali, le polemiche. E gli abbandoni. Oggi a Roma infatti si conteranno le presenze, perché la partecipazione è sempre un termometro per la salute di un corpo vivo. Ma si noteranno le assenze. Alla vigilia dell’appuntamento romano si è ritirata la colonna sarda del sindaco di Cagliari Massimo Zedda e del senatore Luciano Uras, renitenti alla leva in Si. Al loro posto hanno inviato un documento che chiede le dimissioni di tutto il gruppo dirigente («hanno fallito) e il ritorno all’originaria Sel. Ipotesi impraticabile, però: è un partito mezzo vivo e mezzo morto, tecnicamente parlando, o comunque in via di decomposizione almeno a livello nazionale – il tesseramento è chiuso e dirottato verso la nuova creatura -. Non a livello locale, invece, dove gli organismi di Sel continuano a vegetare, se non a vivere.
Non ci sarà neanche l’ex segretario Cgil e padre fondatore di Si Sergio Cofferati: se n’è andato senza clamore ma in dissenso profondo con la piega che prende il gruppo dirigente, a suo parere troppo chiuso: «Non si discute su niente, le poche decisioni si prendono in pochi, senza un minimo di confronto», ha spiegato ai compagni ai quali ha comunicato la sua dolorosa decisione. Argomenti riecheggiati alla riunione dei parlamentari due giorni fa. Con toni ruvidi. E in un post al vetriolo di Massimiliano Smeriglio, vicepresidente del Lazio e capofila del ’documento dei 100’ e cioè quelli preoccupati per l’avvitamento a sinistra: «Chi ha l’ambizione di fare il leader dovrebbe avere l’autorevolezza, la forza e persino l’astuzia di includere. Se ogni volta che si critica una fase costituente che i sondaggi quotano al 2,7%, si allude all’intelligenza con il nemico siamo alla frutta», «volevamo la partecipazione, assistiamo a pratiche da buttafuori».
Le distanze sono forti, se ci si parlasse chiaro. Ma alla vigilia dell’appuntamento, e cioè ieri, la discussione è stata tutta ricalibrata alla luce dell’orrore della cronaca «per evitare un dibattito surreale», c’è chi spiega sennatamente all’uscita del comitato esecutivo.
La relazione di apertura sarà dell’ex Pd Alfredo D’Attorre, un deputato pacato che però ha firmato un appello per la ’Lexit’, l’uscita da sinistra dall’euro, insieme a Stefano Fassina. Il documento che verrà approvato a fine giornata è stato condiviso all’unanimità dall’esecutivo (dopo qualche scontro) e sfuma con prudenza la questione cruciale del dopo-referendum. «Solo con la vittoria del No si può riaprire la costruzione di una proposta progressista per il governo del Paese», dice. Ma naturalmente «non si tratta di tornare al vecchio centro-sinistra dei vincoli e delle compatibilità europee», «non si costruisce il “nuovo futuro” senza riconoscere i gravi limiti di quella stagione». Una formulazione che evita un inutile frontale sulla questione delle alleanze. Perché se vince il No Renzi andrà a casa e tutta la geografia politica sarà diversa, cosa che naturalmente non significa automaticamente il ritorno al centrosinistra o l’appoggio a un eventuale governo di scopo. Se vince il Sì il Renzi del ’partito della nazione’ ne uscirà di molto rafforzato, tanto da rendere impraticabile qualsiasi idea di alleanza a sinistra. Inutile rompersi la testa, meglio procedere a pancia a terra con i comitati per il No e puntare alla cancellazione della riforma costituzionale (e la caduta del governo).
I conflitti interni di queste settimane dunque rimarranno sullo sfondo. Ma ci sono. A Roma, dopo il voto, il partito perde pezzi prestigiosi. È il caso di Cecilia D’Elia, l’ex assessora che è entrata nella giunta del municipio II, chiamata dalla presidente Pd Francesca Del Bello: di fatto ha lasciato Si. Sempre nella capitale per due week end consecutivi due assemblee delle diverse anime della sinistra (partiti, associazioni) hanno chiesto a Si di fermare le macchine o comunque di aprirsi. Poi c’è la questione del congresso di dicembre. Sventata l’ipotesi di anticiparlo a prima del referendum, è un meccanismo che va comunque avviato. A settembre una riunione del comitato promotore affiderà a due commissioni (politica e statuto) il compito di costruire l’impalcatura del nuovo partito. Le regole verranno scritte dall’esecutivo. Passaggio delicato: dovrà decidere se si ci si confronterà per mozioni contrapposte o per tesi. Non è un cretinismo burocratico: c’è da capire se le anime della fragile creatura si differenziano su molto o poco l’una dall’altra. O da una terza. Perché da ultima ma non proprio ultima c’è la questione dei futuri candidati leader. O candidate. Oltre ai nomi di Nicola Fratoianni e Stefano Fassina, insieme o in ticket, spuntano ipotesi di leve più giovani, meno segnate dai precedenti, ma già note e carismatiche come Marco Furfaro e Paola Natalicchio.

Il Fatto 16.7.16
Pisapia prenda per mano Sinistra italiana
L’ex sindaco di Milano ha due strade: un’iniziativa politica autonoma oppure iscriversi al Pd e sfidare Renzi per la leadership
di Franco Monaco
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Il Fatto 16.7.16
Sergio Cofferati
“Sinistra senza identità, non riesce neanche a raccogliere le firme”
intervista di di Luca De Carolis
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l’intervista si conclude qui
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La Stampa 16.7.16
Cairo supera Bonomi e conquista Rcs
“Sono riuscito a battere i pesi massimi”
Il neo-editore del Corriere: ha prevalso la voglia di cambiamento, ora un lavoro pazzesco
di Francesco Spini

Rivoluzione in via Rizzoli. Urbano Cairo vince la sua scommessa su Rcs e sconfigge la cordata di Andrea Bonomi e dei soci «storici» Diego Della Valle, Mediobanca, Pirelli e UnipolSai, riuniti nell’International Media Holding. Al termine dell’ultima giornata della sua offerta di acquisto e scambio (Opas), il patron de La7 si ritrova con il 48,8% del capitale della società che pubblica il Corriere della Sera. Bonomi e soci, invece, che già erano al 24,7%, con l’Opa a 1 euro si fermano al 37,7% e alzano bandiera bianca.
Cairo può esultare per la «bella differenza» che gli consegna le chiavi di via Rizzoli: «Mi aspetta un lavoro pazzesco - è il suo primo commento fuori dallo studio Bonelli Erede, suo consulente legale -. Cominciamo a entrare in Rcs in tempi velocissimi, l’importante ora è la velocità», dice. Quasi non ci crede, Cairo, di aver vinto «con dei pesi massimi del genere». La cosa positiva della vicenda, ragiona a caldo, «è che la gente, gli investitori, hanno creduto in questo progetto e hanno voglia di cambiamento». Si tratta, spiega, di «un segnale forte: la gente ha voglia di mettere persone che sanno fare un mestiere, vuole persone competenti a fare cose che sanno fare. E non una gestione fatta un po’ come si faceva una volta».
Dalla cordata sconfitta telefonano all’ormai ex avversario. «Facciamo le nostre congratulazioni a Cairo e auguriamo un prospero futuro a Rcs - dichiarano in una nota i soci di International Media Holding -. Si è trattato di un’operazione di mercato che, grazie al nostro interesse, ha consentito di far realizzare valori più adeguati a favore di tutti gli azionisti della società». Come si vede, nessuna dichiarazione di guerra. La Imh, nata per l’Opa, è destinata a sciogliersi: i suoi soci si riuniranno settimana prossima anche per decidere questioni tecniche, ad esempio come suddividersi il 2,17% comprato fuori Opa. Non potranno aderire all’offerta di Cairo con le proprie azioni, ma potranno permettere di farlo agli azionisti Rcs che avevano scelto la loro Opa fallita. Bonomi, intanto, si sfila e fuma il calumet della pace: «È tempo ora di pensare al bene dell’azienda - dice il finanziere - che, sono certo, con il supporto di tutti i suoi azionisti saprà raggiungere buoni risultati».
Cairo diventerà ad di Rcs. E il presidente? Qualcuno guarda a Giovanni Bazoli, storico nume tutelare del Corriere per conto di Intesa Sanpaolo, altri sussurrano pure il nome di Gaetano Micciché che, da Banca Imi, ha curato in prima persona la regia dell’operazione, insieme a Equita. Di «risultato straordinario» ottenuto «con il nostro sostegno decisivo» parla l’ad di Intesa, Carlo Messina, che si gode la vittoria del duello con Mediobanca. «È la dimostrazione di come progetti industriali ben concepiti, e presentati in maniera convincente, siano in grado di affermarsi», commenta. Ora si dice certo che per Rcs si aprirà «una fase nuova» in cui «sarà in grado di esprimere le grandi potenzialità di un gruppo ricco di professionalità e competenze».

Il Fatto 16.7.16
Cambio di proprietà
“il Manifesto”: la testata ritorna ai giornalisti
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Il Fatto 16.7.16
E adesso, che cosa ci resta dei giornali?
risponde Furio Colombo
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Corriere 15.7.16
La via del merito per i professori
di Dario Di Vico

I primi dati sul concorsone nato per stabilizzare i precari della scuola sono molto severi. Quei dati parlano di una selezione drastica, se non di una vera e propria decimazione dei candidati.
I primi dati che cominciano ad emergere dal concorsone, nato per stabilizzare i precari della scuola, sono molto severi. Parlano di una selezione drastica, se non di una vera e propria decimazione dei candidati. Analizzando questi risultati va ovviamente adottato un caveat che riguarda l’ampiezza del campione e la sua omogeneità territoriale ma non si può tacere la novità.    In passato i concorsi sono stati concepiti e gestiti in chiave di sanatoria, una sorta di benedizione amministrativa all’ingresso massiccio di nuovo personale nei ranghi (stabili) della pubblica amministrazione. Stavolta invece i commissari sembrano avanzare molti dubbi e in base ai poteri di cui sono dotati procedono bocciando. Se questa tendenza dovesse essere confermata nei prossimi giorni e settimane costituirebbe uno smacco per il governo che invece ha immaginato e comunicato l’intera operazione sotto la chiave della sostanziale continuità tra concorsone e stabilizzazione del personale.
Chi conosce i meccanismi di valutazione degli insegnanti invita comunque a coltivare un secondo caveat . È chiaro che se dovessimo alla fine constatare che le commissioni hanno portato a termine una vera selezione non potremmo che esserne soddisfatti. Avrebbero fatto bene il loro lavoro e avrebbero aperto le porte dell’impiego stabile solo a quei docenti in grado di dimostrare la loro preparazione. Assumere insegnanti non idonei significa condizionare negativamente il rilancio della scuola non per un anno ma per cinque o sei lustri. Ma le cose stanno veramente così? Onestamente non lo sappiamo. La gestione del concorsone è stata infatti piuttosto pasticciata.
Si è giustamente cambiato il focus della selezione passato dall’accertamento della conoscenza della disciplina — metodo adottato in passato — alla valutazione della capacità didattica del docente. Purtroppo però una novità di questo peso non è stata comunicata con sufficiente tempismo e anche la designazione dei commissari è avvenuta con procedure dell’ultimo minuto. Da qui un legittimo dubbio: la scrematura, di cui abbiamo sottolineato l’intrinseca positività, sta seguendo un criterio meritocratico o è figlia di un disallineamento tra le commissioni, gli obiettivi della selezione e le aspettative degli insegnanti? Via via che le prove d’esame andranno avanti dovremmo saper rispondere a questa domanda che alla fin fine è decisiva per emettere un giudizio ponderato sull’intera operazione.
È chiaro che ragioni di equità sociale spingono per ridurre al minimo l’area del precariato ma dobbiamo stare attenti a che queste motivazioni non entrino in conflitto con l’esigenza di costruire una scuola in grado di produrre standard qualitativi di valore europeo. Centrare quest’obiettivo è tanto più necessario in una fase storica in cui «il sapere si è messo a correre» e diventa decisiva la capacità di trasmettere ai giovani sia il tradizionale patrimonio di conoscenze sia la direzione del cambiamento. Aggiungo che le trasformazioni dell’economia nel capo della produzione e dei servizi vanno tutte nel senso di valorizzare le persone, oggi considerate ancora più importanti delle organizzazioni.     Queste persone però le dobbiamo formare nelle modalità e nel tempo giusto, un Paese sarà più o meno prospero in virtù del capitale umano di cui sarà stato capace di dotarsi. Per questo motivo la querelle sul concorsone, una corretta e meditata valutazione sulla bontà della selezione meritocratica, sono questioni che interessano non solo gli addetti ai lavori o i sindacati del settore ma l’intera opinione pubblica.

Corriere 15.7.16
I prof bocciati al concorsone
di Valentina Santarpia

Anche se non ci sono ancora risultati ufficiali sul territorio nazionale, i primi resoconti degli uffici scolastici regionali somigliano a bollettini di guerra. In Emilia-Romagna su 37 candidati per i laboratori di Scienze e tecnologie meccaniche, ammessi agli orali in 16. In Lombardia 7 su 68 iscritti hanno superato la prima prova per il Laboratorio di scienze e tecnologie chimiche. I posti banditi sono 51. Sul sostegno è una débâcle: in Sardegna per 18 posti alle superiori ammesso un solo candidato alla prova orale, in Piemonte alla primaria ce l’hanno fatta in 130 su 333. «Le prime stime parlano del 55% degli ammessi», dice Rosa Sigillò, coordinatrice di Mida precari. Le cattedre scoperte dovranno essere assegnate a supplenti, in barba alle promesse del governo. Sui social corre la rabbia, ed è pronto un esposto per contestare malfunzionamenti e incongruenze delle prove. «Siamo tutti preparati e abilitati — spiega Valeria Bruccola, dell’associazione Adida —. Qualcosa non ha funzionato».

il manifesto 16.7.16
Scuola, la disugaglianza che spacca il paese fra periferia e centro
di Andrea Ranieri

Il processo di costruzione di Sinistra italiana, che avrà un suo momento importante nell’Assemblea nazionale del 16 luglio, non può non avere al proprio al proprio interno, come uno degli assi centrali su cui costruire la propria proposta politica, il grande tema del sapere negato. Perché esso è alla base sia delle difficoltà del paese di imboccare la strada di uno sviluppo socialmente ed ambientalmente sostenibile, sia di disuguaglianze intollerabili. Il sapere e la cultura sono ancora oggi negati ai più poveri. Occorre leggere anche da questo punto di vista la questione delle periferie. I differenziali fra le speranze di vita, documentate da una bella ricerca della Università di Torino, che dividono chi vive in centro da chi vive in periferia, corrispondono pressoché esattamente ai differenziali nelle speranze di vita fra chi ha la laurea e chi si è fermato alla scuola dell’obbligo. Il basso livello di istruzione della popolazione italiana, rispetto alla popolazione europea e non solo, è il più grosso freno alla costruzione di città intelligenti, che sono quelle capaci di organizzare la mobilità, i servizi, la gestione dei rifiuti evitando sprechi di risorse, di suolo, di ambiente, e l’origine di disuguaglianza intollerabili nelle possibilità e capacità di accesso alle prestazioni dello Stato sociale, a partire dalle prestazioni sanitarie.
Contrastare la dispersione scolastica, costruendo davvero la scuola di tutti e di ciascuno, sostenere le scuole di periferia che si impegnano con passione e intelligenza nel compito di contrastare le disuguaglianze di censo, come quelle derivanti dalle diversità linguistiche e culturali dei bambini e dei ragazzi che le frequentano; costruire e sostenere le forme di accesso al sapere degli adulti , con un sistema di formazione permanente che faccia capo alle scuole, alla rete delle biblioteche comunali, che decentri nella periferie attività culturali significative, è uno degli obiettivi fondamentali che abbiamo davanti, per accompagnare il contrasto alla buona scuola di Renzi con il sostegno effettivo alla buona scuola che c’è.
Ma è negato anche il sapere di quanti con impegno e fatica si sono laureati e dottorati e non trovano un modo per mettere all’opera il proprio sapere, che sono disoccupati o che lavorano poco e male. Perché la produzione di merci e servizi di questo paese non sembra in grado di utilizzare sapere, schiacciata su un’idea di competitività di cui l’asse fondamentale sembra ancora essere quello di ridurre il costo del lavoro e dei diritti; perché lavori ne offre sempre meno anche la pubblica amministrazione, pur essendo nel nostro paese il numero di dipendenti pubblici parametrato alla popolazione fra i più bassi dell’Occidente, e anche la strada della ricerca sembra preclusa dai tagli di cui non si vede la fine al sistema Universitario e a quello della ricerca pubblica. Per non parlare dei giovani che hanno affidato il loro futuro alla loro passione per l’arte, per la musica, per la salvaguardia del nostro patrimonio culturale e ambientale, a cui l’accesso al lavoro e’ precluso dal disinteresse di chi ci governa per la manutenzione e la crescita dei più belli fra i beni comuni.
Ma forse sta per risolversi il paradosso italiano che è quello di avere il minor numero di laureati rispetto alla maggioranza degli altri Paesi e insieme la più alta percentuale di laureati disoccupati. Risolto nel modo peggiore, la diminuzione dei laureati, che è quello che schiaccerebbe l’Italia nella fascia più bassa fra i Paesi che si confrontano a livello globale. Il governo ha accompagnato, anzi ha favorito, il declino dell’Università di massa. L’assenza di una vera legge per il diritto allo studio, il rialzo costante delle tasse universitarie, la mancanza di sbocchi lavorativi dignitosi, ha provocato una diminuzione dei giovani che all’università si iscrivono, specialmente fra i figli delle famiglie povere. Credo sia un’obiettivo prioritario per una sinistra che voglia ridisegnare un’idea di sviluppo per il nostro Paese, capace di far crescere la quantita, la qualità e la dignità del lavoro, impegnarsi a tutti i livelli, da quello Parlamentare alla mobilitazione che è possibile costruire nel Paese, per sostenere la legge di iniziativa popolare per il diritto allo studio promossa dai giovani studenti e ricercatori della Rete della conoscenza, avendo come orizzonte strategico la gratutità dell’istruzione a tutti i livelli, dalla scuola dell’infanzia all’università.
E insieme occorre contrastare la logica perversa di un sistema di valutazione dell’università e della ricerca che ha avuto come esito quello di spostare risorse dalle università del Sud a quelle del Nord, dalla ricerca disinteressata a quella destinata ad attrarre finanziamenti privati. Il clima di competitività che si è creato dentro le università e fra le università per accaparrarsi i soldi necessari a sopravvivere, data la costante diminuzione delle risorse, finanziarie ed umane, che ne assicurano il funzionamento ordinario, sta distruggendo il senso fondamentale dell’istituzione, che è quello di produrre e trasmettere sapere. Con una straordinaria inversione fra i mezzi fini. Non si cercano più soldi per realizzare idee, ma hanno audience solo le idee che attirano soldi. La politica sembra aver affidato il compito di gestire la redistribuzione diseguale delle risorse all’Anvur, l’agenzia per la valutazione, che ormai ha assunto lo stesso ruolo che hanno i dettami dell’economia liberista nello scenario economico più generale, quello cioè di ammantare di ragioni oggettive la crescita delle disuguaglianze. Non stupisce che fra i più fieri sostenitori di questo sistema di valutazione ci siano quegli stessi che dalle pagine dei giornali e come consiglieri del Principe continuano a tessere le lodi del liberismo, anche dentro la sua crisi conclamata. Allora l’altro grande obiettivo di fase che potremmo darci è proprio l’abolizione dell’Anvur e di questo sistema di valutazione. La comunità scientifica, gli studenti, i cittadini, il parlamento decideranno se e cosa mettere al suo posto. Ma è preliminare liberare il campo da un’istituzione che ha un ruolo così rilevante nel negare il sapere come attività libera e disinteressata, e nel produrre intollerabili disuguaglianze.

Corriere 15.7.16
Sì al cambio di sesso a 16 anni «Per me sarà come rinascere»
di Elena Tebano

Roma Per andare in Tribunale a Roma Irene ha scelto con cura come vestirsi. Un abito a pois blu, le scarpe basse, i capelli lunghi sciolti sulle spalle, un filo di eyeliner e l’orlo della gonna a coprire il grande tatuaggio di cui di solito va molto orgogliosa, nonostante i genitori (pacatamente) lo disapprovino: «Non voglio fare una cattiva impressione».
Era il 25 maggio e quello che il giudice avrebbe pensato di lei era decisivo: l’aspettava una delle prove più importanti dei suoi giovani 16 anni. Irene (il nome è di fantasia) all’anagrafe infatti era un maschio, anche se a vederla nessuno lo avrebbe detto. A febbraio si è rivolta al tribunale per chiedere la modifica dei documenti e il via libera all’operazione che permetterà al suo corpo di corrispondere alla sua identità. Pochi giorni fa la sentenza che la autorizza «a sottoporsi a trattamento medico-chirurgico per l’adeguamento dei caratteri sessuali da maschili a femminili» e «ordina» al contempo «la rettifica degli atti di stato civile in riferimento al sesso (da maschile a femminile) e al nome». È la prima volta che succede contestualmente per una 16enne in Italia. Prima c’era stato un solo sì all’intervento per un under 18.
Irene aspetta l’operazione come una nuova nascita e insieme la conclusione di un percorso iniziato quando a 13 anni in una lettera ha rivelato ai genitori Massimo e Rita (che l’anno scorso avevano raccontato la loro storia sul Corriere ) di sentirsi da sempre una femmina. Fa parte di una nuova generazione di giovani transgender e transessuali che non ha avuto bisogno di aspettare l’età adulta per capire la propria condizione e, grazie al sostegno della famiglia, ha potuto avere una qualità di vita e un benessere psicologico un tempo impensabili.
Da tre anni è in psicoterapia in un centro specializzato, da due prende i bloccanti che impediscono al testosterone di farle sviluppare tratti maschili, da uno gli estrogeni che le hanno dato un aspetto femminile. «Ma la consapevolezza di essere così ce l’ho avuta da sempre: almeno da quando avevo cinque anni — racconta —. Ogni volta che qualcuno mi diceva di esprimere un desiderio, chiedevo di essere femmina. Ma non credevo che fosse possibile». Non è che da bambina non si riconoscesse nel suo corpo di maschietto: «Era vedere come mi trattavano le persone — spiega —: mi davano del maschile e io non capivo perché. All’asilo non capivo perché mi consideravano un bambino. In prima elementare non capivo perché le compagne non mi lasciavano andare al bagno delle femmine con loro. Ogni volta mi sembrava un’offesa».
È una fatica immane, soprattutto a quell’età: «È come se avessi avuto la mente continuamente assorbita da quello — aggiunge Irene —. Dovevo sempre concentrarmi per rispondere se la gente mi chiamava al maschile. Ogni volta che parlavo dovevo ricordarmi di usare il pronome “giusto”, che non era mai quello che avrei voluto». Come per molti e molte è stato Internet a permetterle di dare per la prima volta un nome a quello che stava vivendo: transessualità. «Avevo 9 anni e non cercavo certo informazioni sull’argomento. Ma non so come, per sbaglio — dice proprio così, “per sbaglio” —, ho letto un articolo sul cambiamento di sesso. E ho pensato: è questo, ma io non posso farlo, sono piccola. E ancora: devo aspettare di avere 18 anni, per allora potrei già essere morta». Così Irene ha iniziato a leggere tutto quello che trovava sul tema. Senza poterne o saperne parlare con nessuno, in una solitudine infinita: «Ero convinta che la mia famiglia fosse molto chiusa, non ne avevamo mai parlato. Pensavo non mi avrebbero accettata».
La più grande fortuna di Irene è stata che i suoi genitori, Massimo e Rita, l’hanno smentita: «Quando gli ho scritto la lettera erano molto spaesati. Ora lo capisco: chi non ha mai sentito parlare di transessualità neppure sa che esista. Per loro era sinonimo di prostituzione. Lo era anche per me — dice con lo sguardo di un’adulta negli occhi neri e vivissimi —. Invece dopo la paura iniziale hanno subito cercato aiuto e informazioni in un centro per l’identità di genere. Senza di loro, finché non ci sono stati loro ero persa».
Il cammino di Irene per diventare se stessa è iniziato così. Non è stato facile: «Di fatto non ho potuto vivere a pieno l’adolescenza, perché uscivo con due amiche, non eravamo un gruppo di amiche. Eravamo un gruppo di amici». Poi a 13 anni ha iniziato a vestirsi da ragazza: «All’inizio avevo un atteggiamento molto marcato, esageravo coi trucchi e i vestiti: succede a tutte le persone trans. Ora ha capito che se ti metti i pantaloni non sei meno donna». La svolta è arrivata con la terapia ormonale, che le ha modificato il fisico: «Nel momento in cui la gente ha iniziato a chiamarmi al femminile è sparita anche l’ansia che avevo sempre». Ora è più serena: «Se potessi sceglierlo non nascerei così, perché è un impedimento mentale e psicologico. Ma so che una volta che viene risolto sei molto felice. Forse anche più di chi non l’ha mai vissuto, perché finalmente sei realizzata». Adesso aspetta solo l’intervento: «Mi sono già messa in lista d’attesa ovunque. Spero di operarmi entro un anno. Poi voglio solo pensare a fare l’università».

Repubblica 15.7.16
La Ue condanna l’italia per la disciplina delle spiagge
E alla fine il bagnino dovrà andare all’asta
di Fabio Bogo

CON un tempismo a scoppio ritardato buona parte della politica si è scagliata contro la sentenza della Corte di Giustizia Ue che ha condannato l’Italia per la proroga automatica e generalizzata delle concessioni balneari. Il verdetto in realtà era scontato, dal momento che già a febbraio scorso l’avvocato generale della Corte aveva duramente criticato — nel procedimento in corso in Lussemburgo — una prassi italiana le cui conseguenze aveva chiaramente inquadrato: «Sottrae al mercato per un tempo irragionevolmente lungo beni molto importanti sul piano economico ».
Le lobby che dal 2006 ostacolano il libero mercato delle cabine e degli ombrelloni piantati sul suolo demaniale non gli avevano dato troppo peso, ora scoprono di essere state distratte e attaccano a tutto campo. «L’Europa non sia un freno alla peculiarità dei paesi», sostiene dalla Liguria Giovanni Toti. «Il settore finirà in ginocchio per colpa della Ue», rincara la dose la Lega a difesa del coste venete. «Dai burocrati di Bruxelles una mannaia sul settore», sentenzia Giorgia Meloni, forse paladina dei litorali laziali. Siamo in estate, il bagnino merita più attenzione che in inverno, e i toni quindi risentono di tutta la drammaticità che l’escursione termica impone. Peccato che tutta questa solerzia e questa voglia di intervento non si sia tradotta in qualcosa di concreto negli ultimi 12 anni. Anzi, la direttiva dell’allora commissario Ue alla concorrenza Bolkestein, che nel 2006 imponeva di mettere a gara le concessioni del demanio marittimo, è stata ratificata senza colpo ferire dal Parlamento, nel quale già sedevano molti dei critici attuali. L’Italia ha scelto in sostanza la via della furbizia, accettando le regole di Bruxelles per poi semplicemente ignorarle, e finendo così nel 2008 in procedura di infrazione, continuando poi pervicacemente negli anni successivi a non attuare alcun tipo di riforma del sistema di gare. Parole e illusioni. Come nel 2012, quando arriva l’impegno ad accettare il sistema di aste e la promessa di una legge di riforma. La quale, però, tanto per cambiare, non è mai stata varata, sostituita invece da un continuo ricorso al regime delle proroghe; giustificate, quest’ultime, dalla necessità di tutelare anche coloro che su quei territori demaniali ottenuti senza alcuna gara avevano effettuato investimenti e costruito strutture tipo ristoranti o bar. L’ultimo traguardo che l’Italia si è auto-attribuita con il regime transitorio, quello del 2020, è stato rapidamente accerchiato dalle lobby che in Parlamento avevano già stretto d’assedio la legge di stabilità provando ad ottenere un allungamento delle concessioni di altri 30 anni. In pratica un diritto a vita di gestire il suolo pubblico che adesso la sentenza della Corte fa finalmente decadere.
Ora la palla passa al governo, che si trova a gestire in emergenza una situazione complicata. Da un lato infatti è necessario rispettare le regole. E la questione della credibilità è tanto più cogente se si considera che su un altro fronte Roma sta chiedendo una flessibilità importante, quella necessaria per mettere in sicurezza il sistema bancario appesantito dalle sofferenze. Una trattativa fatta di aiuti, impegni e promesse che non debbono essere inficiate dalla clemenza richiesta anche per il bagnino.
Dall’altro va garantito il futuro del settore e l’occupazione che comunque negli anni ha generato. Come molti ieri hanno ricordato, il comparto è fatto di piccole imprese e molti lavoratori, prevalentemente stagionali, che forniscono comunque un servizio importante. Ma anche qui è necessario non perdere di credibilità. Perché se è vero che il turismo nel suo complesso è una struttura portante dell’economia italiana e che cabine e ombrelloni danno lavoro a 30mila persone, non è possibile dimenticare che il settore balneare ha troppi casi di privilegio ingiustificato e che è necessario riportare trasparenza e imparzialità nelle assegnazioni di pezzi di litorale che appartengono a tutti i cittadini. I quali pagano le tasse e magari — dopo aver saldato il conto spesso salato per i servizi ottenuti — restano quantomeno perplessi nel sapere che un settore definito strategico e vitale per l’economia italiana nel 2014 ha contribuito alle casse dello stato con le concessioni versate per poco più di 100 milioni di euro.

Corriere 15.7.16
La guerra del Kosovo I dilemmi di D’Alema
risponde Sergio Romano

Dalla fine del Secondo conflitto mondiale l’Italia non ha partecipato direttamente a nessuna guerra, eccettuata quella del Kosovo, l’ultima combattuta nei territori della ex Jugoslavia, al tempo del governo D’Alema. C’era la copertura formale dell’Onu, ma in realtà l’intervento era sotto l’egida della Nato. Anche allora, come in tutte le altre situazioni di emergenza, non sarebbe stata migliore scelta per noi la linea della «non belligeranza»? Siamo nell’ambito della storia controfattuale, tuttavia solo con essa chiariamo e comprendiamo meglio il passato. Per lei l’intervento diretto del nostro Paese era proprio necessario e giustificato?
Mattia Testa

Caro Testa,
Per la verità l’Italia aveva già rinunciato al suo dogma pacifista nel 1991 quando aveva partecipato con una squadra navale e alcuni Tornado alle operazioni contro l’Iraq durante la prima guerra del Golfo. Ma il suo impegno nel conflitto contro la Serbia nel 1999 fu indubbiamente maggiore. Aggiungo che non vi fu in quella occasione la copertura dell’Onu, dove la Russia avrebbe certamente frapposto il suo veto. L’operazione fu interamente gestita dalla Nato sotto la guida degli Stati Uniti e la guerra, per Massimo D’Alema, fu indubbiamente una sorta di prova del fuoco. Nel libro-intervista scritto con Federico Rampini ( Kosovo , Mondadori 1999), ammise esplicitamente che «doveva passare degli esami. Mi infastidiva, ma era così. Partivo con un vantaggio, almeno all’interno dell’Unione Europa: per la mia lunga frequentazione dei socialisti europei conoscevo bene molti capi di governo e di alcuni ero anche amico. Il mio grande problema era il rapporto con gli Stati Uniti, il loro giudizio». Doveva dimostrare a Washington (il presidente era Bill Clinton) che un ex comunista poteva essere non meno «alleato» dei presidenti del Consiglio che lo avevano preceduto a Palazzo Chigi.
Sulle singole responsabilità del conflitto, invece, occorre fare qualche distinzione. Quando la Nato approvò l’«activation order», con cui veniva autorizzata una campagna di bombardamenti aerei sulla Serbia simile a quella realizzata nel 1995 sulla Bosnia, gli europei erano convinti che Slobodan Milosevic, dopo qualche bomba, avrebbe accettato un accordo per l’autonomia del Kosovo. Ma i kosovari dell’Uck (il loro esercito di liberazione) volevano l’indipendenza, godevano delle simpatie del segretario di Stato americano Madeleine Albright, ed erano decisi a soffiare sul fuoco per impedire qualsiasi compromesso. Come sempre accade in queste circostanze, nel campo serbo esisteva un partito non meno inflessibile e i due nemici divennero alleati all’insegna del tanto peggio tanto meglio. La strage di Racak (il villaggio in cui furono uccisi 45 kosovari) e l’espulsione dei kosovari albanesi dalla loro regione finirono per giustificare un conflitto in cui il peso politico degli europei divenne col passare del tempo sempre più irrilevante. Non credo che D’Alema in quel momento avrebbe potuto adottare una linea diversa da quella che gli fu imposta dalle circostanze.

Corriere 16.7.16
Lo stato laico e le mani dell’esercito
di Antonio Ferrari

Come è già accaduto più volte nel passato, i custodi laici della Turchia, gli amati militari ai quali il fondatore della Repubblica Mustafà Kemal Ataturk aveva affidato i destini del Paese, probabilmente sono usciti dal silenzio per rivendicare il loro ruolo. È presto per dire cosa succederà, ma certo i segnali che giungono da Ankara, da Istanbul e dall’Anatolia più profonda sono inquietanti. La Turchia è in bilico e i generali non tollerano che il Paese vacilli pericolosamente.
Il problema non sono i gravi incidenti delle ultime ore, ma la profonda e gelida rabbia di gran parte delle Forze Armate, prima allontanate, poi ricoinvolte nel tentativo di correggere i madornali errori dell’esecutivo politico, guidato dal presidente Recep Tayyip Erdogan. Il governo cerca di sminuire, attribuendo le colpe a un gruppo di militari ribelli, ma è impossibile non cogliere il risentimento di una delle istituzioni storiche della Turchia.
Le Forze armate sono da sempre la garanzia della laicità dello Stato. Con indubbie forzature, travalicando le regole di una moderna democrazia. Comunque pronte ai passi più estremi per difendere il potere secolare della Repubblica. Nel passato è accaduto più volte che i generali imponessero la fine delle divisioni politiche, obbligando con la forza il ripristino delle regole. Fui testimone diretto dell’ultimo colpo di stato militare, condotto dal generale Kenan Evren, poi nominato presidente della Repubblica. E per la prima volta assistetti a sviluppi davvero incredibili. Quando Evren propose radicali modifiche della Costituzione, che di fatto limitavano la libertà dei connazionali, il risultato fu quasi plebiscitario: non per costrizione, ma per convinzione. Persino nei circoli più a sinistra, a cominciare dal giornale Cumhuriyet , erano in tanti a difendere le modifiche imposte dalla giunta.
Il colpo di stato si realizzò nel 1980, perché il Paese era sfibrato dal terrorismo, con centinaia di morti ogni settimana. Dopo tre anni e mezzo furono gli stessi militari a favorire il ripristino della democrazia, come più volte era accaduto nel passato, affidando il potere a un nuovo partito moderato, la Madrepatria, e al suo leader Turgut Ozal.
Vi fu un successivo colpo di Stato, ma visto che non vi erano carri armati per le strade fu definito «golpe post moderno». Lo condusse la società civile, senza che i militari dovessero intervenire. Tutto cominciò con un incidente stradale, forse provocato ad arte, il 3 novembre del 1996 a Susurluk, quando si scoprì il legame fra un deputato del primo ministro Ciller, un esponente dei lupi grigi, una ballerina, e il capo della polizia di Istanbul. La gente, infuriata, protestò civilmente, accendendo e spegnendo le luci di ogni casa alla sera, per dimostrare la propria rabbia. Il governo cadde, senza intervento militare, e cominciò quella fase di ingovernabilità che avrebbe portato, dopo l’inizio del terzo millennio, all’ascesa inarrestabile di Recep Tayyip Erdogan.
Quello che sarebbe diventato il nuovo sultano, e che allora sembrava un giovane leader coraggioso e realistico, fu capace di offrire l’immagine di un Paese diverso, e di sedurre l’Unione europea, che si preparava a offrirgli di diventarne un membro effettivo. Pur di mantenere gli impegni Erdogan fu pronto a ridurre il potere dei militari, riducendo ad appuntamento formale l’incontro periodico della conferenza che di fatto rappresentava la presenza, e quindi il placet, delle stellette sulle decisioni dell’esecutivo.
Sappiamo poi che cosa è accaduto. Le derive antidemocratiche del leader, diventato presidente della Repubblica, la ferocia della repressione contro oppositori, giornalisti e istituzioni disobbedienti hanno fatto il resto.
Nelle ultime settimane pareva fosse accaduto un quasi miracolo. Il nuovo primo ministro pareva orientato a correggere errori clamorosi, imponendo pace con la Russia, atteggiamento morbido con gli Stati Uniti e con tutti gli alleati della Nato, mano tesa al nemico giurato, il siriano Bashar Assad, quasi un clima di equilibrio ritrovato. Ma forse non era così, anche se le ultime notizie ci dicono che i movimenti golpisti potrebbero essere perfino una manovra del regime. Chissà. A noi Erdogan dà l’impressione d’essere un Ceausescu anticomunista. Sappiamo che fine fece il dittatore romeno.

Corriere 15.7.16
Il tunisino era in Francia dal 2011. Precedenti penali, ma nessuna segnalazione all’antiterrorismo. Interrogata la moglie
Il killer
Violento, depresso e pieno di debiti così Mohamed ha trasformato i suoi demoni nell’orrore omicida
di Carlo Bonini

NIZZA. Chi era davvero Mohamed Lahouaiej Bouhlel? Quale demone ha trascinato questo giovane uomo nato il 31 gennaio del 1985 a Msaken, periferia della tunisina Sousse, al volante di un Tir bianco per farne il nuovo osceno detentore del trofeo di vite umane cancellate da un solo uomo, in un solo luogo, in un solo momento? Dove, insomma, in questo orrore, finiscono la sociopatia e la deriva psicotica e cominciano la religione, il culto mortifero e macabro della parola del Profeta? Oggi, del passato di un uomo che sembra non averne, neppure negli archivi dell’Intelligence per i quali era «un assoluto sconosciuto » , resta un’unica traccia. Nei cinque chilometri e mezzo di strade a gomito che, come una mezza luna, collegano una stamberga al primo piano di Route de Turin, nel quadrante orientale della città, ai dodici piani del falansterio all’8 di Boulevard Henri Sappia, quartiere popolare aggrappato alla collina che guarda la vecchia Nizza e che è tagliato dall’autostrada A8.
In Route de Turin, un anno e mezzo fa, era finito spiaggiato da debiti e pendenze giudiziarie l’uomo che si sarebbe fatto mostro. In Boulevard Henri Sappia, era naufragato in un abisso di collera e violenza il ragazzo padre di tre figli piccoli incapace di tenere insieme il matrimonio con una giovane moglie franco-tunisina, ieri interrogata, che diceva di amare e per la quale, con la contrarietà del padre, un islamista radicale, era arrivato a Nizza dalla Tunisia nel 2011.
Rashid, un maschietto di 14 anni con la maglia del Paris Saint-Germain, indica la porta di legno leggero che affaccia su un lercio pianerottolo al dodicesimo piano del blocco “Bretagne C” in Boulevard Henri Sappia. Esattamente in cima a un’ultima rampa di scale dal corrimano laccato rosso. Rashid spiega di ricordarle ancora le grida di Mohamed. Quasi quanto i suoi muscoli, coltivati ossessivamente in palestra. «Picchiava la moglie. La picchiava spesso. Urlava. Soprattutto nell’ultimo periodo, prima di separarsi». Già, quel giorno, quello in cui si richiuse la porta alle spalle, imbrattò della sua merda l’appartamento, defecando dove poteva e fin quando non ne ebbe più. Quindi, squartò con un coltello gli orsacchiotti di pelouche della figlia più piccola, per poi fare a pezzi i materassi del suo letto matrimoniale e quelli dei suoi bambini. Poi sparì. Salvo cominciare a ripresentarsi saltuariamente con i modi e il fare gentile del padre separato che viene a trovare i suoi figli in attesa della sentenza di divorzio. Maxim, un condomino sulla quarantina, ne parla accarezzando la testa dei suoi due bambini maschi. «Mohamed? Certo che lo conoscevo. Parlavamo spesso della scuola dei suoi e dei miei ragazzi. E posso dirti che quello che ha fatto alla Promenade con la religione e l’Islam non c’entra nulla. Se proprio dovessi dire, aveva un solo problema. Finanziario. Negli ultimi tempi se la passava male. Insomma, Mohamed beveva, non rispettava il Ramadan. Gli piaceva andare a ballare la salsa. Era sempre profumato» . Né si vedeva mai in moschea, a sentire la locale “Association culturelle Nice nord” per l’integrazione religiosa e razziale. Un luogo non lontanto da boulevard Henri Sappia, dove Mohamed era conosciuto. Ma proprio per l’assenza di qualsiasi passione che ricordasse la sua fede, piuttosto che la sua terra di origine.
Un musulmano secolarizzato, insomma. Che aveva trovato un lavoro saltuario da autista e, qualche mese fa, aveva ottenuto l’abilitazione alla guida di mezzi pesanti. Un depresso che alternava picchi di gentile e sincera euforia a scostanti silenzi, a scoppi di collera incontenibile e violenta. Come quello che, il 24 marzo scorso, gli era valso una condanna sospesa a sei mesi di reclusione per lesioni, dopo aver gonfiato con una mazza da baseball due fratelli per un banale tamponamento. Come quelli per cui si era fatto notare dai suoi nuovi vicini di casa, al primo piano di Route de Turin, il suo ultimo domicilio, quello sfondato dai piedi di porco della polizia giudiziaria ieri mattina. E dove, a un certo punto, si era informato se fosse possibile “affittare” una seconda buca delle lettere. Dio solo sa perché. Anche se un perché, evidentemente, doveva esserci.
Fonti di polizia e intelligence sostengono che dalla casa di Route de Turin, insieme a un computer portatile e uno scatolone di carte, siano usciti indizi che fanno dire al primo ministro Manuel Valls che la storia di Mohamed non sia solo affare psichiatrico. Che c’entri l’islamismo radicale in questo orrore. Che i legami tra Mohamed e lo jihadismo esistano. Eccome. E non solo per il “format”. Ma per la rete, il contesto di frequentazioni, che quest’uomo alla deriva si era messo a bazzicare, a cui lo stesso Procuratore di Parigi Francois Molins ha fatto ieri riferimento indiretto e che, in qualche modo, lo avrebbe accompagnato ed eccitato nell’incubare la sua spaventosa uscita di scena. Uno scenario che lascia singolarmente tiepido il ministro dell’Interno francese Bernard de Cazeneuve («Mohamed era legato allo jihadismo? No», ha detto rispondendo ieri alle domande di un’intervista televisiva), ma che calzerebbe come un guanto con la più spaventosa e per certi aspetti realistica delle previsioni che l’Antiterrorismo francese va facendo da tempo. Che esista un secondo stadio, una sorta di evoluzione “finale” e “definitivamente asimmetrica” del Terrore seminato dai cosiddetti “lupi solitari”. Quello che li vorrebbe “neutri”, impermeabili nei modi e nelle parole (quantomeno quelle pubbliche) al “radicalismo islamista”, che è poi primo e unico degli indizi che, in qualche modo, li rendono riconoscibili alla comunità in cui vivono prima ancora che ai poliziotti che dovessero avere la fortuna o l’intuito di individuarli. Che li vorrebbe dunque “fantasmi”, estranei a qualsiasi forma di censimento preventivo (come sono in Francia le cosiddette fiches “S”, le segnalazioni che accompagnano i profili ritenuti a rischio) di fronte anche alla più occhiuta e penetrante delle polizie di prevenzione. Consegnandoli tutt’al più, come era del resto accaduto a Mohamed, a piccoli precedenti penali. Violenza, armi. Quelli che, ancora oggi, fanno dire all’avvocato Corentin Delobel, suo legale nel processo per rissa dell’inverno scorso, che «nulla avrebbe mai fatto immaginare che quell’uomo potesse commettere atti di tale disumanità». E a suo padre, Mohamed Mondher Lahouaiej Bouhlel, che suo figlio, di cui aveva perso i contatti da cinque anni, «aveva un solo problema. La depressione. Ne soffriva dal 2002. Prendeva dei farmaci».

Repubblica 16.7.16
Perché è così difficile fermare “i folli di Dio”
di Renzo Guolo

L’autore della strage di Nizza, Mohamed Lahouaiej Bouhlel, non era sotto lo sguardo dei servizi francesi. Per lui nessuna “ fiche S”, la schedatura che conduce alla lunga lista , oltre10mila in Francia, dei radicalizzati da sorvegliare a diversi livelli. Bouhlel era invece conosciuto dalla polizia per reati comuni. Come molti altri protagonisti dello jihadismo francese non era particolarmente religioso: non aveva osservato nemmeno l’ultimo Ramadan. Cosa l’ha trasformato in
chaffeur del terrore? Il fallimento del matrimonio, i recenti guai giudiziari, che pure non avevano prodotto carcerazione?
Oppure l’incontro con elementi radicalizzati della città, provenienti dagli stesso quartieri nord a edilizia popolare che hanno fornito negli ultimi anni un centinaio di foreign fighters all’Is o Al Qaeda ?
Scavare nella sua biografia consentirà di capire meglio. Resta il fatto che l’ideologia islamista radicale è ormai strumento a disposizione dei molti, spesso disperati per motivi diversi, che se ne servono per riscattare il fallimento di una vita.
Abbandonato dalla famiglia, in difficoltà sul lavoro, privo di prospettive, caduto in depressione, un individuo può trasformarsi in “lupo solitario” trovando giustificazione alla propria autodistruzione, e alla drammatica morte data agli altri, in nome della “causa di Dio”.
Certo, simili spiegazioni non valgono per quanti abbracciano lucidamente la jihad, in nome di una concezione del mondo e di una tassonomia del Nemico ben definite ideologicamente. Ma questo non rende certo meno pericoloso lo scenario. Anzi , la trasformazione di soggetti psicologicamente fragili in nuovi “ folli di Dio”, aggrava il quadro. Poiché mette nell’angolo le tradizionali tecniche di contrasto tipiche degli organismi di intelligence e di polizia, fondate sul principio dell’analisi dell’agire razionale rispetto allo scopo, solitamente adottate nei confronti dei gruppi politicizzati e coesi.
Qui, invece, l’ uomo senza passato diventa pericoloso perché, improvvisamente, maneggia un’ ideologia capace di legittimare le sue scelte omicide.
Un’ideologia che, considerando nemico chiunque ricada in determinate categorie l’occidentale, il “ musulmano” tiepido, il credente di altre fedi- consente di colpire ovunque e in ogni momento: non solo nelle giornate a alto valore simbolico come la festa della Repubblica. Rendendo tragica realtà quella jihad della vita quotidiana che dilata all’estremo lo scontro tra l’Islam radicale e tutto ciò che non lo è.
Così Nizza può essere, al contempo, la città di Omar Diaby, meglio noto come Omar Omsen, ex-delinquente comune che una volta uscito dal carcere dove si radicalizza, comincia a predicare nella periferia di Bon Voyage, diventa l’autore di una serie di video, noti con la sigla 19HH che ne faranno una star del webIslam radicale, riunisce attorno a sé un nucleo di simpatizzanti che qualche anno dopo lo seguiranno in Siria , dove prima nelle fila dell’Is, poi in quelle di Al Qaeda, comanderà la brigata francofona e combatterà la sua iperpolitica e consapevole jihad trovando, apparentemente, la morte in battaglia. E la città dello sconosciuto uomo qualunque Bouhlel che pure, d’ora in avanti, avrà un posto d’onore nel pantheon dei “martiri jihadisti” e che, forse, prima di essere crivellato dai colpi sparati sul parabrezza avrà pensato alla Promenade come la strada che conduceva finalmente all’agognato Paradiso. O, se non altro, alle fine di quell’inferno umano che, lanciando il tir tra la folla, ha inflitto anche alle sue vittime.

Repubblica 16
La guerra civile della Francia
di Bernardo Valli

DIETRO la brutalità dell’azione terroristica, manifestatasi ancora una volta poche ore fa a Nizza, si nasconde una manovra che sta portando la Francia sull’orlo di una guerra civile. Sarebbe azzardato usare di propria iniziativa quest’ultima, catastrofica espressione — guerra civile — se a servirsene non fosse stato un qualificato esperto nella materia.
PATRICK Calvar, capo dei servizi segreti interni (Dgsi), ha dichiarato di recente davanti alla commissione di inchiesta parlamentare sul 13 novembre a Parigi (la strage del Bataclan) che per lui ulteriori attentati avrebbero condotto a un confronto tra comunità. A sua conoscenza, alcuni gruppi (di estrema destra) erano pronti a rispondere al terrorismo islamista con un’identica violenza rivolta contro la comunità musulmana. La quale conta in Francia tra i sette e gli otto milioni di uomini e donne. La cifra non è ufficiale perché i censimenti per religione o per origine etnica sono proibiti.
Patrick Calvar aveva già detto con chiarezza, in una precedente occasione davanti alla commissione difesa dell’Assemblea Nazionale, che se ci fossero stati ancora uno o due attentati l’urto sarebbe stato inevitabile. La Francia avrebbe conosciuto in tal caso una situazione simile a quella degli anni di piombo italiani. «Noi siamo sull’orlo di una guerra civile», ha ribadito, sicuro di sé, il capo dei servizi segreti francesi.
La strage di Nizza potrebbe realizzare il non rassicurante pronostico di Patrick Calvar. Ma abbiamo imparato che gli 007 non sono infallibili e benché dotati di strumenti efficaci e di colleghi super specializzati, a volte, per nostra fortuna, si sbagliano. Anche se sono sinceri quando formulano le loro diagnosi. La nostra è una strana e rischiosa epoca, affidata alla finanza e all’intelligence. Per le quali spesso il virtuale e il reale si confondono. Anche a questo è dovuto il nostro quasi perpetuo stato di ipertensione o di isterismo. A volte capita di sognare il sesterzo e le legioni romane con i calzari e le catapulte. L’intelligence, come la finanza, ci raffigura delle ombre.
La strage di Nizza ha aggiunto un nuovo orrore: e, se non sfocerà in una guerra civile, sta già sconvolgendo il panorama politico francese. E di riflesso gran parte di quello europeo. Il terrorismo instilla nella società fratture che rischiano di essere irreversibili.
Non di rado compiute da giovani psicopatici o piccoli pregiudicati convinti di trovare nella morte, nella propria e in quella degli altri, quel che hanno cercato invano nella vita, le azioni dei kamikaze provocano le estreme destre islamofobe affinché reagiscano: sconvolgano le società democratiche e accendano guerre civili mortali per i crociati, gli ebrei e gli infedeli in generale. Ma non è detto che la loro manovra, compiuta o tentata spesso inconsciamente, riesca e che si arrivi a un conflitto tra comunità, come dice il capo dei servizi segreti. Quel che adesso si profila è invece il già annunciato successo del Front National di Marine Le Pen. La quale rappresenta la crescente massa di estrema destra, non quella violenta ma quella populista destinata a fare da ammortizzatore.
I terroristi danno così obiettivamente il loro voto al Front National. E la comunità musulmana rischia di essere governata domani da un partito islamofobo. Quella convivenza assomiglierebbe a una guerra civile. Prima di Nizza si intravedeva, per le presidenziali francesi di primavera, un successo di Marine Le Pen al primo turno e una sua sconfitta al ballottaggio di fronte al moderato Alain Juppé, preferito anche dalla folta schiera dei delusi dal socialista François Hollande. La figura fino a poche ore fa rassicurante di Alain Juppé, sindaco di Bordeaux dai modi garbati e dalle dichiarazioni sensate, è all’improvviso impallidita. Col montare della collera, della paura, dell’incertezza, Juppé è entrato nell’ombra ed è rispuntato Sarkozy che in fatto di populismo non sfigura troppo davanti a Marine Le Pen. Il duello presidenziale di primavera potrebbe essere riservato a loro, grazie anche al massacro della Promenade des Anglais. L’autore della strage non è ancora classificabile se ci si affida alla forte polemica che oppone due studiosi dell’Islam, Gilles Kepel e Olivier Roy. Il primo, Kepel, professore a Scienze Politiche, punta sul carattere religioso del movimento islamista. Roy, professore all’Università internazionale di Firenze, sostiene che la religione sia un pretesto. Uno parla di islamizzazione del radicalismo. L’altro di radicalizzazione dell’islamismo. E si affrontano, a volte insultandosi, creando due scuole di pensiero, anche se le loro posizioni appaiono spesso complementari.
Secondo gli amici, il terrorista tunisino di Nizza non recitava le preghiere quotidiane, non andava alla moschea e beveva alcol. Ma ha ucciso ed è morto seguendo gli insegnamenti promulgati il 9 giugno 2014 dal portavoce del “califfato”, Abu Mohammed Al-Adnani.
I quali dicono: «Colpite la sua testa con una pietra, sgozzatelo col suo coltello, schiacciatelo con la sua automobile, gettatelo da un burrone, strangolatelo o avvelenatelo ». Il tunisino di Nizza ha ottemperato a uno di quei precetti: ha schiacciato gli infedeli, uomini, donne, bambini in festa, con il suo camion. E ha ubbidito ai consigli che dicono « strappa il tuo biglietto per la Turchia, il firdaws (ultima tappa prima del paradiso) è davanti a te, convinci qualche mascalzone e trova un’arma in qualche sobborgo». È un invito ad agire nel paese in cui ti trovi, senza raggiungere lo “stato islamico”. E lui, il tunisino di Nizza ha seguito anche questa direttiva, impartita dall’Islam jihadista. Alcune sue caratteristiche corrispondevano al modello indicato da Kepel, altre a quello di Roy. Il quale vede il jihadismo come una rivolta generazionale e nichilista, che si è ammantata di islamismo.



Avvenire.it 16.07.16
La strage di Nizza
L'incubo e la risposta, non solo a Nizza
di Marco Tarquinio


Il franco-tunisino Mohamed Lahouaiej Bouhlel non portava giovedì notte la tunica dei fanatici del califfo nero del Daesh, eppure non tarderanno a calargliela addosso. Lo faranno a suon di proclami e di omaggi propagandistici i jihadisti che infestano il web in questi anni di ferocia e di sanguinose bestemmie contro il Dio della vita e della pace. Hanno già cominciato a farlo in troppi, a forza di parole scagliate attraverso social network e articoli di giornale. La tunica oscura del Daesh, dello Stato islamico, sopra la tormentata e infine rabbiosa esistenza di un morto ammazzato che in una notte di festa ha usato un camion come un enorme coltello. Uno che, in fondo, quella tunica se la merita. E del servo letale e idiota del Daesh ha il perfetto profilo. Ha fatto strage di umanità, Boulhel. A Nizza, di nuovo in terra francese e stavolta anche profondamente euromediterranea. E sono tanti, tantissimi, i bambini che ha furiosamente travolto mentre mieteva decine e decine di vite di molte nazionalità e di diverse fedi, compresa la sua – musulmana – che non pare abbia mai professato con particolare intensità o addirittura con fanatismo. Ma tanto basta. Perché basta, e basterà sempre, il sangue per fare il terrorista. E tanto più se il sangue è sparso nella maniera che gli strateghi del jihad wahhabita predicano, e che noi continuiamo ostinatamente a non aspettarci, a non voler neppure concepire, in luoghi che pensiamo giustamente sorvegliati e, come in questo caso, attraverso le "non-armi" della quotidianità: gli strumenti del lavoro e del servizio reciproco, un camion, appunto, o un'auto o anche solo una moto, per la strada, in una piazza, dentro a un giardino... Situazioni e modi che incidono nella memoria collettiva il sospetto che può riempire di angoscia e paralizzare, che può rinchiuderci nelle case, nelle incertezze, nella voglia di vendetta. Che rende soli, spaventati, furenti. Dovremo perciò essere lesti – e per primi noi cronisti – a strappare via quella tunica dalle spalle di Bouhlel. Dovremo essere decisi nel resistere alle tentazioni del vedere nemici dappertutto, per scoprire la verità della propaganda dei boia miscredenti che si dicono fedeli al Misericordioso e, insieme, la verità della vita di un assassino che ha tramutato in incubo la notte di celebrazioni del 227° anniversario della presa della Bastiglia. Non dobbiamo regalare nessuno, proprio nessuno, nemmeno questo indemoniato omicida, a un nemico che pretende di armare contro di noi le nostre debolezze, le nostre ingiustizie, le nostre fobie, le nostre paure. Continueremo a scriverlo e a cercare di viverlo con tutta la semplicità e la forza necessarie: la sfida lanciata dal terrore si affronta e si vince con la stessa unità, la stessa consapevolezza e la stessa altezza morale e spirituale messe in campo, qui in Italia, negli anni che abbiamo chiamato "di piombo", da uomini e donne di diverse idee e di stessa civile umana convinzione. È bene averlo chiaro: i signori dell'odio e del terrore vogliono sradicare quelli come noi (tutti «nazareni», «crociati» o «perduti» a causa dell'«educazione occidentale», nel lessico del jihad) dalle terre dove domina la loro versione dell'islam e sognano che noi facciamo altrettanto, rifiutando e cacciando i "diversi" che non sono e non saranno mai tutti come loro. Vorrebbero vederci smontare brutalmente i lenti (e imperfetti, ma indispensabili) processi di costruzione di una società interculturale e chiudere nel rancore quello straordinario laboratorio di integrazione delle differenze che è l'Europa (che deve invece ritrovare la sua via comunitaria). Ma loro si sbagliano e noi non possiamo sbagliare. Non possiamo, cioè, rinunciare a vivere insieme, a trovare salde parole comuni, a costruire una convivenza pacifica che nessuno esclude. Perché l'arma decisiva contro l'odio letale non è la separazione dei mondi, ma la parte migliore di ciò che noi europei – cristiani, ebrei, laici e di ogni altra fede e visione, musulmani compresi – siamo e non possiamo smettere di essere se non consegnandoci alla sconfitta più totale. Per questo, nella notte di Nizza e nel giorno che è seguito, «forte come la morte» – la morte ingiusta che un uomo furioso chiamato Bouhlel ha portato ai suoi concittadini francesi ed europei – è stata la scelta di vita dei tanti che hanno aperto le porte dei loro locali e delle loro case e che hanno spalancato i portoni delle Cattedrale e di altre chiese ai tantissimi che cercavano riparo, conforto e ragioni per sperare. Porte aperte nell'urgenza, nella solidarietà, nella risposta a un atroce insensatezza, nella fiducia che unisce. Nonostante il male, in faccia al male. Senza badare al color della pelle e ai segni indossati, badando solo a ciò che faticosamente e generosamente siamo e vogliamo continuare a essere. Fedeli, oso pensare, a un respiro comune e a uno sguardo profondamente cristiani, eppure non solo nostri. Strappando via la tunica dell'incubo.

Repubblica 16.7.16
Roma alla ricerca di un ruolo
di Stefano Folli

C’È MOLTO di ripetitivo nel modo in cui le istituzioni e la politica reagiscono agli attentati. In un certo senso è inevitabile: sono uguali gli schemi dei terroristi, anche quando varia lo strumento tecnico usato per spargere la morte e si dissolvono i responsabili, cioè i veri organizzatori, nella stagione del terrore “molecolare”, privo in apparenza di una rete davvero organizzata. Di conseguenza si assomigliano le prime risposte, fra l’attonito e il manierato, e le prime polemiche, anch’esse prevedibili.
Ma si deve pur riconoscere che dopo Nizza è scemato il tasso di retorica un po’ ovunque in Europa e in particolare in Italia. L’immediato incontro a Palazzo Chigi sulla sicurezza ha dato un segno concreto; l’aver evitato, almeno finora, il diluvio delle frasi fatte, utili solo a delineare il quadro dell’impotenza, rappresenta un passo avanti. Renzi e il ministro dell’Interno Alfano, i due nomi in prima linea, sembrano rendersi conto che in un anno e mezzo, da Charlie Hebdo alla Promenade, il cordoglio, i lumini, i mazzi di fiori, tutte le manifestazioni del dolore popolare non bastano più. O meglio, non possono essere l’alibi dietro il quale si cela l’inerzia delle classi dirigenti.
Questa volta si parla di meno e si lavora con i servizi di sicurezza: si cerca di legare insieme la ragnatela delle informazioni che per troppo tempo sono rimaste non condivise. Ma la strada da percorrere è lunga e il tempo è poco. Fra un attentato e l’altro l’intervallo tende a ridursi: prima era di anni, ora è di mesi quando non di settimane. Il terrorismo sopravvive e anzi sembra moltiplicarsi anche nell’ultima versione polverizzata e quasi cellulare; la controffensiva degli Stati democratici richiede invece un alto livello di organizzazione per essere efficace e nessuno, del resto, può garantire che i cittadini saranno pienamente al sicuro.
Resta da capire quale sia la strategia di lungo periodo. La debolezza delle leadership europee nel loro complesso è evidente e non può essere curata a breve. Il governo di Roma non ha ovviamente la forza per colmare il vuoto politico, ma può contribuire ad accelerare il coordinamento dei mezzi tecnici di difesa. Se poi il suo consenso parlamentare sarà abbastanza solido, potrà parlare con maggiore energia nelle sedi dell’Unione.
Sotto questo aspetto, la stabilità dell’esecutivo non appare in discussione. S’intende, peraltro, che non è all’orizzonte un’altra maggioranza, ossia un governo di unità nazionale. Per quanto Brunetta, Forza Italia, abbia dichiarato che “siamo in guerra”, il che sottintende una richiesta, appunto, di unità, non ci sarà niente di simile almeno nei prossimi mesi. Ma ciò non significa che il Parlamento non saprà essere convergente sulla politica anti-terrorismo, almeno nelle grandi linee. È già accaduto in passato e accadrà di nuovo: sia pure con eccezioni probabili o possibili, dalla Lega ai Cinquestelle, il centrosinistra e il centrodestra sosterranno alcune scelte di fondo, peraltro obbligate dalla cornice europea. Quanto più il ruolo italiano vorrà identificarsi in una serie di impegni concreti per la sicurezza, tanto più sarà largo il sostegno delle Camere.
Questo non significa che tutte le domande troveranno risposta. Al momento non è chiaro nemmeno se l’autista di Nizza sia uno psicopatico solitario, marginalmente collegato con gli ambienti del radicalismo islamico, o sia viceversa connesso per vie insondabili alla rete dell’Is. In secondo luogo, si ripropone l’eterno dilemma del “che fare” con l’Islam in Italia. In Francia il vice presidente della conferenza degli imam si è dimesso per protestare verso un establishment islamico incapace di spezzare i nessi con i circoli estremisti. E da noi? Ci si attende una parola chiara da Alfano e prima ancora dai responsabili islamici troppo spesso reticenti.
Infine resta da capire quale sia lo spazio politico per un movimento di destra “lepenista”. Salvini sembra aver raggiunto da tempo il suo limite elettorale e le elezioni amministrative per lui non sono andate bene. Ma sta già tentando, in una chiave tutta domestica e provinciale, di trarre vantaggio dai fatti di Nizza. Difficile credere che possa rilanciare così le sue ambizioni di primato, tuttavia nessuno può prevedere quali saranno gli equilibri in Europa fra qualche mese. La Francia ferita, la Brexit, il referendum in Ungheria, le elezioni ripetute in Austria e sullo sfondo il voto americano: ci attendono passaggi cruciali.

Repubblica 16.7.16
La paura. Grossman “Le democrazie europee perderanno l’innocenza”
Per lo scrittore israeliano il rischio è che il terrore del diverso spinga i governi a leggi sempre più repressive. Come accade nel suo paese
intervista di Fabio Scuto

GERUSALEMME. «Il “lupo solitario” adesso si aggira per le strade delle città europee e questo avvierà una serie di azioni che sono destinate a ferire la democrazia, ad andare verso leggi straordinarie che limiteranno la libertà personale del cittadino. Le democrazie europee perderanno presto la loro innocenza». Lo scrittore israeliano David Grossman prova a tracciare un percorso per convivere con il terrorismo, con cui Israele si confronta da molti anni. «Vivere col terrorismo dimostra ancora una volta a che punto la natura umana sia flessibile, fino a che punto impariamo ad adattarci alla dittatura della paura».
Le leggi speciali mettono nelle mani degli apparati dello Stato un potere che potrebbe essere usato in maniera molto discrezionale… «Per la sua cecità nel colpire gli innocenti, il terrorismo ha una forza immensa, in grado di paralizzare una società civile e rafforzare gli stereotipi razzisti. E’ prevedibile che tanto più una società è esposta al terrorismo, tanto più le forze nazionalistiche e razziste diventino più potenti. Vedremo nel prossimo futuro sempre più governi di destra: questo provocherà un’azione sempre più dura degli stessi governi e questo spingerà queste minoranze verso una ulteriore radicalizzazione».
E’ un quadro molto nero …
«Questo atteggiamento verso le minoranze metterà in dubbio la loro identificazione nazionale e saranno sempre più numerosi quelli che troveranno nella religione un mezzo per esprimere la propria identità. Purtroppo alcuni Paesi europei conosceranno presto la forza distruttrice del terrorismo».
Come uscire da questo circolo vizioso?
«Ci sono mezzi per indebolire il terrorismo. Prima di tutto bisogna combatterlo militarmente nei luoghi di origine. Poi è necessario aumentare l’allerta, sia della popolazione sia delle forze dell’ordine. Alla fine, però, il modo di minare anche se molto lentamente le fondamenta del terrorismo è per forza il cambiamento nel modo di rapportarsi della maggioranza nei confronti delle minoranze. Deve esserci un cambiamento di quelle condizioni che oggi conferiscono un’attrazione così grande al terrorismo fra le minoranze musulmane europee».
Quindi i paesi europei dovranno adottare queste misure di emergenza, anche se è già chiaro che i musulmani ne saranno gli obiettivi principali?
«Al momento in cui la paura del terrorismo viene formulata, inizia una catena di azioni che ferisce la democrazia. Tuttavia ci sono situazioni di emergenza, che di fatto sono situazioni di guerra, in cui la democrazia deve difendersi, soprattutto perché ci sono forze che vogliono distruggerla. Questi mezzi devono essere scelti con estrema cura e devono essere usati con prudenza ed andando “al risparmio”, e al termine della campagna contro il terrorismo, bisogna immediatamente sospenderli».
I francesi però non hanno la più pallida idea di che cosa significhi avere limitazioni delle libertà personali.
«Il pericolo è che i governi che hanno usato decreti di emergenza per combattere il terrorismo, siano poi restii ad rinunciarvi e continuino a controllare o addirittura a spiare, i propri cittadini. D’altra parte, il modo in cui i francesi hanno rifiutato di misurarsi con la realtà e con il fatto che devono combattere la guerra contro il terrorismo sul loro territorio nazionale è un approccio molto pericoloso, che non corrisponde più alla realtà dei fatti ».
C’è anche un’Europa islamica. Milioni di musulmani che vivono la loro fede in maniera meno complessa e certamente non violenta: che fare con loro?
«E’ interesse anche dei musulmani moderati che il dito accusatore sia rivolto verso gli estremisti islamici e questo è anche il compito della leadership della comunità musulmane in Europa, condannare ed operare contro ogni manifestazione di estremismo nelle loro comunità in maniera aperta e chiara».

La Stampa 15.7.16
Trump vola nei sondaggi e si affida al prudente Pence
Il governatore dell’Indiana probabile vice: oggi l’annuncio ufficiale
di Paolo Mastrolilli

Donald Trump sale nei sondaggi, raggiunge e in qualche caso supera Hillary Clinton, e oggi annuncia il suo vice che potrebbe essere il governatore dell’Indiana Mike Pence, cioé un conservatore affidabile con la missione di riunificare il Partito repubblicano in vista del voto di novembre.
Lunedì comincia la Convention repubblicana a Cleveland, e i segnali si fanno incoraggianti per Trump. Se oggi a New York annunciasse la scelta di Pence come vice, sarebbe un passo significativo: Donald pensa di avere una possibilità concreta di vincere, e quindi fa le mosse più prudenti. In finale per il posto di vice erano arrivati il governatore del New Jersey Christie, l’ex Speaker della Camera Gingrich, e il generale Michael Flynn. In origine Trump voleva un politico esperto, ma anche un “cane da attacco” come lui. Poi però i suoi figli, e in particolare il genero Jared Kushner, hanno spinto in una direzione diversa: per gli attacchi basti tu, come vice è meglio una persona navigata che tranquillizzi l’establishment e unifichi il partito. Pence ha esperienza, perché ha fatto anche il parlamentare. Viene dal Tea Party, è anti gay e anti aborto. All’inizio delle primarie aveva sostenuto il senatore del Texas Cruz, pupillo degli evangelici e principale rivale di Donald, ma non ha rotto con i notabili del Gop che lo considerano un interlocutore affidabile. In sostanza il profilo giusto per equilibrare il “ticket”. Non viene da uno stato conteso, ma l’Indiana è comunque è tra il Midwest e la Rust Belt industriale, dove le presidenziali si decideranno fra i colletti blu e la classe mediobassa bianca di Ohio, Pennsylvania, Wisconsin e Michigan. Se la scelta cadrà su Pence, il segnale mandato da Trump è che ha capito di poter vincere, ed è disposto a fare le mosse politiche sagge necessarie a riuscirci.
Questa sensazione viene dagli ultimi sondaggi, che sembrano confermare come Hillary abbia accusato il colpo dello scandalo mail, dove ha evitato l’incriminazione, ma non i pesanti rimproveri dell’Fbi. Secondo il New York Times, a livello nazionale Donald l’ha raggiunta col 40% dei consensi, mentre il 67% degli americani giudica l’ex first lady disonesta. Un rilevamento della Rasmussenn dà addirittura Trump in netto vantaggio, 44 a 37%. Negli stati più contesi il repubblicano è passato avanti in Florida, mentre la Clinton conserva un vantaggio di un punto in Ohio, e di tre in Pennsylvania, Iowa e Virginia. In altre parole la corsa è aperta, e l’abbrivio al momento sembra favorevole a Donald. A questo si aggiungerà la cassa di risonanza della Convention, che comincia lunedì a Cleveland, da cui il candidato repubblicano uscirà con il tradizionale “bounce”, un rimbalzo nei sondaggi.
Il programma si profila inusuale, in linea con l’intera campagna: pochi politici con grande profilo ma piccoli serbatoi elettorali, e molti personaggi popolari. Nessuno della famiglia Bush sarà presente, così come il candidato del 2012 Romney, ma a Trump non dispiace perché non portano voti. Al loro posto il campione di football Tim Tebow, forse la medaglia d’oro olimpica e trans Caitlyn Jenner, la golfista Natalie Gulbis, la prima comandante donna della shuttle Eileen Collins, il cofondatore di PaylPal Peter Thiel, e il nero Jamiel Show, diventato attivista dopo che suo figlio è stato ucciso da un immigrato illegale.
La prima serata sarà dedicata all’attentato di Bengasi, da cui è nato il caso mail, per attaccare la credibilità di Hillary con Rudy Giuliani e la moglie di Trump Melania, senza dimenticare una presentazione per ricordare le scappatelle sessuali di Bill. La seconda sarà dedicata all’economia, con Donald Trump junior e il governatore del Wisconsin nemico dei sindacati Scott Walker. La terza sarà dominata dai discorsi di Cruz e del vice, e la quarta da Tebow, Ivanka Trump, e naturalmente lui. Quando dal tetto scenderanno i palloncini, Donald punterà ad essere in testa ai sondaggi e lanciato verso la Casa Bianca.

Corriere 16.7.16
Le fantasiose ricette di Trump contro il califfato
di Giuseppe Sarcina

La strage di Nizza ha spiazzato anche l’intelligence americana. Gli esperti di terrorismo appaiono cautamente divisi. C’è chi sostiene che la chiave sia il Califfato in Siria e Iraq; chi ritiene che esista un problema specifico della Francia. Donald Trump, invece, non ha dubbi: «Io so come si sconfigge il terrorismo», ha dichiarato ieri. Poi ha fornito diverse versioni, in almeno due interviste televisive. Una alla conservatrice Fox , dove è sembrato quasi assecondare il popolare conduttore, Bill O’Reilly. «Dichiarerebbe guerra all’Isis?» la domanda. «Certo», ha risposto Trump. «Chiederebbe al Congresso di farlo, coinvolgerebbe la Nato?» «Lo stavo per dire io, coinvolgeremo la Nato – ha replicato il front-runner repubblicano». Con la Cnn, invece, Trump ha sostenuto una strada economica: «Dobbiamo togliere il petrolio ai terroristi».
Nei comizi Trump ha spesso insistito su un punto: non bisogna svelare i piani per non dare un vantaggio ai terroristi. E sempre alla Cnn l’altro ieri ha ripetuto un concetto simile: «Dobbiamo essere intelligenti, non agitare troppo le nostre intenzioni». Però nel giro di ventiquattrore Trump ha prefigurato una dichiarazione di guerra da parte del Congresso (l’ultima risale alla Seconda guerra mondiale), la mobilitazione della Nato, una specie di embargo petrolifero.
L’ex senatore repubblicano Newt Gingrich, sperando forse di acciuffare un posto in un’eventuale amministrazione Trump dopo che la candidatura per la vicepresidenza è andata a Mike Pence, ha chiesto di sottoporre i musulmani d’America a un test. Chi è a favore della sharia, la legge islamica, se ne deve andare.
Qualche mese fa, però, lo stesso Gingrich aveva rilasciato una dichiarazione che oggi appare più calzante: «Nessuno sa come sarebbe la presidenza Trump, nessuno sa come si comporterebbe. Non lo sa neanche lui».

Repubblica 16.7.16
George Steiner
“Guai a chi dice che le utopie non sono altro che idiozie”
Freud è stato uno dei grandi mitologi della storia È finzione
La scuola. I giovani che non hanno tempo. La politica e i populismi Parla il grande critico
“Ciò che mi turba è la paura della demenza Ogni giorno faccio esercizi di memoria”
“I mezzi elettronici stanno retrocedendo. La gente preferisce il libro tradizionale”
intervista di Borja Hermoso

In principio fu un fax. Nessuno rispose a questo primo, archeologico tentativo. Poi una lettera (sì, quelle reliquie che consistono in una carta scritta e infilata dentro una busta). «Non le risponderà, è malato », mi aveva avvisato una persona che lo conosce bene. Dopo pochi giorni arrivò la risposta. Per posta aerea, con il timbro della Royal Mail e il profilo della regina di Inghilterra. Sull’intestazione c’era scritto: Churchill College, Cambridge. Il breve testo recitava così: «Caro signore, l’88° anno e una salute incerta. Ma la sua visita sarebbe un onore. Con i miei migliori auguri, George Steiner».
Due mesi dopo, il vecchio professore disse «sì», mettendo provvisoriamente fine alla sua proverbiale avversione alle interviste. Il cattedratico di letteratura comparata, il lettore di latino e greco, l’eminenza di Princeton, Stanford,
Ginevra e Cambridge; il figlio di ebrei viennesi che fuggirono dal nazismo prima a Parigi e poi a New York; il filosofo delle cose di ieri, di oggi e di domani; l’autore di libri fondamentali del pensiero moderno, della storia e della semiotica, come Errata, La nostalgia dell’assoluto, Una certa idea di Europa, Tolstoj o Dostoevskij o La poesia del pensiero ci ha aperto le porte della sua stupenda casetta di Barrow Road.
Professor Steiner, come va la salute?
«Oooh, molto male, purtroppo. Ormai ho 88 anni e non va bene, però non importa. Ho avuto e ho molta fortuna nella vita e ora va male, anche se qualche bella giornata ancora mi capita».
Quando si sta male, è inevitabile sentire nostalgia dei giorni felici? Lei fugge dalla nostalgia o la nostalgia può essere un rifugio?
«No, l’impressione che hai è di aver tralasciato di fare molte cose importanti nella vita. E di non aver capito del tutto fino a che punto la vecchiaia rappresenta un problema, questo indebolimento progressivo. Quello che mi turba maggiormente è la paura della demenza. Intorno a noi l’Alzheimer fa strage. Io, per lottare contro questo rischio, tuti i giorni faccio esercizi di memoria e di attenzione».
È ottimista riguardo al futuro della poesia?
«Enormemente ottimista. Viviamo una grande epoca di poesia, soprattutto fra i giovani. E ascolti una cosa: molto lentamente, i mezzi elettronici stanno cominciando a retrocedere. Il libro tradizionale ritorna, la gente lo preferisce al Kindle… preferisce prendere un buon libro di poesia cartaceo, toccarlo, odorarlo, leggerlo. Però c’è una cosa che mi preoccupa: i giovani non hanno più tempo… di avere tempo. L’accelerazione quasi meccanica delle routine vitali non è mai stata forte come oggi. E bisogna avere tempo per cercare tempo. E un’altra cosa: non bisogna avere paura del silenzio. La paura del silenzio nei bambini mi fa paura. Solo il silenzio ci insegna a trovare in noi l’essenziale».
Il rumore e la fretta… Non crede che viviamo troppo di fretta? Non stiamo educando i nostri figli con troppa fretta?
«Mi lasci allargare la domanda e dirle una cosa: stiamo uccidendo i sogni dei nostri bambini. Quando ero bambino, esisteva la possibilità di commettere grandi errori. L’essere umano li ha commessi: il fascismo, il nazismo, il comunismo… Ma se non hai la possibilità di commettere errori quando sei giovane non diventerai mai un essere umano completo e autentico. Gli errori e le speranze infrante ci aiutano a completare lo stadio adulto. Ci siamo sbagliati con tutto, con il fascismo e con il comunismo, e a mio parere anche con il sionismo. Ma è molto più importante commettere errori che cercare di comprendere tutto fin dall’inizio e in un colpo solo. È drammatico avere chiaro a 18 anni che cosa devi e non devi fare».
Lei parla dell’utopia e del suo contrario, la dittatura della certezza… «Molti dicono che le utopie sono delle idiozie. Ma saranno comunque idiozie vitali. Un professore che non consente agli alunni di immaginare utopie e di sbagliarsi è un professore pessimo».
Perché l’errore è visto in modo tanto negativo?
«L’errore è il punto di partenza della creazione. Se abbiamo paura di sbagliare non potremo mai affrontare le grandi sfide, assumerci i rischi. L’errore tornerà? È possibile, ci sono alcuni indizi in tal senso. Ma essere giovane oggi non è facile. Che cosa gli stiamo lasciando? Nulla. Neanche l’Europa, che ormai non ha più nulla da proporgli. Il denaro non ha mai fatto sentire così forte la sua voce come adesso. L’odore del denaro ci soffoca, e questo non ha nulla a che vedere con il capitalismo o il marxismo. Quando io ero studente, la gente voleva diventare parlamentare, funzionario pubblico, professore… oggi perfino i bambini sentono l’odore dei soldi e l’unico obbiettivo ormai sembra sia quello di diventare ricchi. E a questo si aggiunge l’enorme indifferenza dei politici verso chi non ha soldi. Per loro, siamo solo dei poveri idioti. E questo Karl Marx lo vide con largo anticipo. Invece, né Freud né la psicoanalisi, nonostante tutta la loro capacità di analisi dei caratteri patologici, sono riusciti a capire qualcosa di tutto ciò».
La psicoanalisi non le sta molto simpatica.
«La psicoanalisi è un lusso della borghesia. Per me la dignità umana consiste nell’avere dei segreti, e l’idea di pagare qualcuno perché ascolti i tuoi segreti e le tue cose intime mi disgusta. È come la confessione, ma con l’assegno di mezzo. Freud è uno dei grandi mitologi della storia. Però è finzione. Era un romanziere straordinario».
Torniamo alla questione del potere del denaro. Ha una spiegazione valida, dal punto di vista filosofico, del perché gli elettori di Italia e Spagna abbiano deciso in passato e decidano ancora di mettere al potere partiti politici macchiati dalla corruzione?
«Perché c’è un’enorme abdicazione della politica. La politica perde terreno in tutto il mondo, la gente non ci crede più, e questo è molto pericoloso. Aristotele ci dice: “Se non vuoi stare nella politica, nell’agorà pubblica, e preferisci restartene nella tua vita privata, poi non lamentarti se vieni governato da banditi”. Io provo vergogna di aver goduto di questo lusso privato di studiare e scrivere e di non aver voluto entrare nell’agorà. Trionfano per ogni dove il regionalismo, il localismo, il nazionalismo… torna il campanile. Quando vedi che uno come Donald Trump viene preso sul serio nella democrazia più complessa del mondo, tutto è possibile».
Come contempla un’ipotetica vittoria di Trump?
«Non succederà. Vincerà Hillary. Ma sarà una vittoria triste, perché questa donna è stremata, sfinita interiormente. E che mi dice di Putin? La violenza di uno come lui sembra tranquillizzare le persone che non credono più nella politica, le riconforta. Questo perché il dispotismo è il contrario della politica».
Lei fa differenze tra cultura «alta» e cultura «bassa», come fanno alcuni intellettuali di grido?
«Le dico una cosa: Shakespeare avrebbe adorato la televisione. Avrebbe scritto per la televisione. E io non faccio queste distinzioni. Quello che davvero mi rattrista è che le piccole librerie, i teatri di quartiere e i negozi di dischi chiudano. È vero che i musei sono ogni giorno sempre più pieni, le grandi mostre sono travolte da moltitudini di visitatori, le sale da concerto sono stracolme… perciò attenzione, perché questi processi sono molto complessi e diversi per poter emettere dei giudizi complessivi. Muhammad Ali era anche un fenomeno estetico. Era come un dio greco. Omero avrebbe compreso alla perfezione Muhammad Ali».
Una volta lei ha detto che si pentiva di non aver avuto il coraggio di lanciarsi nel mondo della creazione. È un rimpianto che la tormenta?
«In effetti sì. Ho fatto poesia, ma mi sono reso conto che quello che stavo facendo erano versi, e il verso è il più grande nemico della poesia. E ho detto anche — e qualcuno non me l’ha mai perdonato — che il più grande dei critici è minuscolo se lo si confronta con un qualsiasi creatore. Insomma, parliamo chiaro e non facciamoci illusioni. Io sono solo un postino, il postino del film. E sono molto orgoglioso di questo, di aver consegnato bene la posta a tanti, tantissimi alunni. Ma non facciamoci illusioni».
© El País / LENA, Leading European Newspaper Alliance. Traduzione di Fabio Galimberti

il manifesto 16.7.16
Guerra civile: solidarietà operaia
1936-2016. Chi erano le brigate? Lavoratori di 53 nazioni riuniti in formazioni militari in appoggio al governo repubblicano
di Fulvio Lorefice

Come ha scritto Eric Hobsbawm «la guerra di Spagna resta la sola causa politica che, anche a considerarla retrospettivamente, mantiene la purezza e la cogenza ideale che ebbe nel 1936». A scolpirla nella memoria fu la più importante prova di solidarietà internazionale nella storia del movimento operaio, le Brigate Internazionali: le formazioni militari, composte da lavoratori di cinquantatré nazioni, che combatterono in appoggio al governo repubblicano spagnolo.
Nonostante siano passati ottant’anni ormai da quel fatidico 17 luglio la disputa politica sulle ragioni della sconfitta spagnola non è mai cessata. Alimentata da una floridissima memorialistica, nella quale può scorgersi la passione e lo slancio dell’epoca, ha finito tuttavia per assumere contorni romanzeschi. L’intero conflitto è stato ridotto infatti alla contrapposizione guerra-rivoluzione, in seno al fronte repubblicano, ignorando completamente i fattori esogeni. Un contributo alla comprensione degli avvenimenti, suggeriva già trent’anni fa Luciano Casali, può derivare dalla rilettura degli scritti di alcuni fra i più avveduti dirigenti politici dell’epoca, come Berneri, Rosselli, Togliatti e Nenni. Depurati dall’acrimonia di quegli anni possono scorgersi temi e questioni, elaborati in seguito con la Resistenza: i legami con le masse, la capacità di organizzarne la lotta, le forme della partecipazione politica, la disamina dei rapporti di forza, la definizione degli obiettivi di medio e lungo periodo. Ma la guerra di Spagna va soprattutto inserita nelle relazioni internazionali dell’epoca. Nel trittico della crisi dell’ordine di Versailles rappresentò, infatti, la tavola centrale: lo spazio in cui più nitida si fece la trama politica ordita dai fascismi, dopo l’occupazione giapponese della Manciuria e l’annessione italiana dell’Etiopia.
Benché le cause originarie del conflitto spagnolo fossero prevalentemente nazionali lo svolgimento e la sua soluzione risentirono profondamente della situazione internazionale. Decisivo fu quindi il meccanismo delle alleanze costituitosi attorno ai contendenti: da una parte Germania, Portogallo e Italia, dall’altra l’Unione Sovietica e il Messico. La decisione delle principali potenze occidentali, coagulatesi attorno al Comitato di Non-Intervento, di vietare la vendita di armi alle fazioni in conflitto avvantaggiò i franchisti che non ebbero difficoltà a procurarsele tramite i loro alleati, penalizzando il legittimo governo impossibilitato ad organizzare un’efficace difesa. Il Comitato di Non-Intervento, ebbe a scrivere l’ambasciatore statunitense in Spagna Alexander Bowers, «fu una vergognosa truffa concepita con cinica disonestà». Uomini e materiali, finché la guerra lo consentì, arrivarono dall’Unione Sovietica il cui prestigio crebbe enormemente. Nel giro di poche settimane su un fazzoletto di terra si ritrovarono così i più validi dirigenti e quadri politico-militari che il movimento operaio all’epoca esprimeva. Immediatamente si era posto infatti il problema militare. Esiguo era il numero di alti ufficiali e di reparti delle forze armate regolari che erano rimasti fedeli al governo legittimo, il Quinto Reggimento divenne così il nucleo dell’esercito regolare, la prima Compañías de Acero venne composta per intero da operai metallurgici.
L’eco del conflitto scosse gli operai italiani, rapporti allarmati alle autorità fasciste ne diedero conto a Milano, Genova e Taranto. Per molti giovani intellettuali, in parte provenienti dal GUF, la Spagna fu uno spartiacque: rotti gli indugi passarono alla lotta antifascista. Un primo afflusso di volontari si registrò nel corso dell’estate ‘36, il meccanico bolognese Nino Nannetti fu probabilmente il primo italiano che giunse dall’estero. Partecipò all’attacco a Huesca bombardando la città con un cannoncino da 76 montato su un camion, insieme ad un altro compagno si spostavano rapidamente per dare l’impressione ai fascisti che all’opera fosse un’intera batteria. Morirà sul fronte di Bilbao un anno dopo: aveva trentuno anni. Dalla fine del settembre ‘36 il Comintern prese ad occuparsi quasi esclusivamente della costituzione delle Brigate Internazionali. Parigi divenne quindi la centrale mondiale per lo smistamento dei volontari: da un piccolo albergo sulla rive gauche, Josip Broz, il futuro Maresciallo Tito, avviava le reclute attraverso la cosiddetta «ferrovia segreta».
Ma chi erano dunque i combattenti delle Brigate? Non erano mercenari e neppure avventurieri, erano «portatori di un sogno di libertà» scrisse Giuliano Pajetta. Combattevano per una causa di progresso ed emancipazione sociale, internazionale. Ad Albacete – ricorda Giovanni Pesce – approdavano professionisti, operai, contadini, minatori; anziani e giovani; militanti comunisti, anarchici, socialisti, repubblicani; uomini che avevano abbandonato casa e posto di lavoro, miseri braccianti del mezzogiorno d’Italia, della Croazia, delle pianure d’Ungheria, minatori tedeschi. Più simile agli odierni foreign fighters era invece il drappello di volontari, irlandesi e romeni, che, animato da un senso di crociata e di rivolta contro il mondo moderno, andò in Spagna a combattere a fianco delle forze di Franco, Mussolini, Hitler e Salazar.
Se, quindi, la guerra di Spagna fu il nocciolo duro di uno scontro di portata internazionale, culminato nella seconda guerra mondiale, vale la pena in conclusione rammentare chi – tra gli altri – quello scontro lo combatté in tre diversi continenti: Ilio Barontini. La qualifica di «cavaliere della libertà dei popoli» se l’era guadagnata sul campo di battaglia. Dopo aver appreso le tecniche di guerriglia dalle forze di Mao in Cina ed essersi distinto in Spagna, al comando del battaglione Garibaldi a Guadalajara, il suo impegno era continuato prima in Etiopia, ove aveva organizzato, insieme a Bruno Rolla e Anton Ukmar, la resistenza popolare contro l’occupante italiano. E poi in Francia nei Francs-tireurs partisans e in Italia alla direzione del Comando militare unificato Emilia-Romagna. Un internazionalismo il suo, che non fu dunque mera aspirazione ideale ma parte costitutiva del più importante progetto di emancipazione dei subalterni nella storia.

il manifesto 16.7.16
Guerra civile: il dovere di ricordare
1936-2016. Al posto della «diserzione» che caratterizzò gli eventi bellici pre-moderni, s'impose un modello europeo di partecipazione
di Alessandro Barile

Il 17 luglio ricorreranno gli ottant’anni dallo scoppio della Guerra civile spagnola. Una data simbolica per la storia europea. Per la prima volta, la dimensione politica del conflitto prendeva il sopravvento su quella militare, tecnica e diplomatica. Si può dire che lo scontro spagnolo inaugura una forma-guerra sublimata nel successivo conflitto mondiale, che attraverserà tutte le lotte anti-coloniali del XX secolo. Se la diserzione costituiva l’approccio naturale delle popolazioni alle guerre pre-moderne e fino alla Prima guerra mondiale, la contemporaneità imporrà il dovere della partecipazione. In Spagna non c’era possibile diserzione: il conflitto attraversava i rapporti di parentela, di lavoro, scardinava le relazioni sociali e politiche, costringendo allo schieramento. Prendere parte coscientemente anziché subire passivamente gli eventi della storia.
Anche quel ceto notabiliare che gestiva gli affari politici, ancorato a paradigmi ottocenteschi in ritardo sulla modernità europea, dovette suo malgrado schierarsi in difesa di una delle due cause per cui si lottava tragicamente. La messa in scena aristocratica lasciava il posto alla dimensione drammatica dello scontro sociale. La modernità politica del Novecento passava anche attraverso il travaglio di questo scontro inevitabilmente fratricida. La Guerra civile spagnola è stata una guerra soprattutto simbolica. Figure e miti ne pervadono la scenografia: non si lottava per un territorio, una casata, un titolo o contro l’invasore. Spagnoli contro spagnoli, sullo sfondo di un conflitto che mobilitò la popolazione europea nel suo insieme. In questa mobilitazione continentale gli italiani ebbero un ruolo protagonista.
Secondo le parole di Teresa Noce, riportate nella sua autobiografia rieditata proprio quest’anno da RedStarPress, «prima che il Partito comunista francese e di conseguenza quello italiano avessero preso una decisione ufficiale, i nostri compagni cominciarono a partire con qualsiasi mezzo in auto, in treno o in camion, da Parigi, da Tolosa, da altre città del Belgio, della Francia o da altri paesi». Più di 4000 italiani affollarono le Brigate internazionali guidate da Luigi Longo e André Marty.
Nel frattempo, il disciolto esercito della Repubblica venne ricostituito su basi democratiche da Vittorio Vidali, in Spagna conosciuto come Carlos Contreras, vero e proprio «unificatore» delle diverse milizie popolari nel nuovo Esercito popolare. 13mila furono i morti stranieri in difesa della Repubblica; 25mila il totale degli stranieri uccisi in Spagna nei tre anni di guerra civile. 13mila volontari che combattevano in Spagna una guerra europea, la prima vera battaglia contro il fascismo internazionale, come immediatamente riconosciuto da tutti i protagonisti. Senza la Guerra civile spagnola difficilmente si sarebbe prodotta la Resistenza in Italia nelle forme che questa effettivamente assunse.
Il conflitto spagnolo servì come palestra per una generazione di antifascisti abituati alla clandestinità e al lavoro illegale. Un contesto in cui i massimi dirigenti comunisti, a partire proprio da Togliatti, compresero la particolare natura politica del fronte antifascista, la necessità di smussarne gli estremismi e gli avventurismi, il carattere sociale che andava assumendo lo scontro che non poteva essere vinto forzando le appartenenze politiche. Il consenso che le forze della reazione avevano in Spagna come in Italia era stato fino a quel momento sottovalutato: una lezione che favorì il cambio di mentalità dei dirigenti italiani nella comprensione del nemico.
Secondo le parole di Giuliano Pajetta nella sua riflessione sul ruolo italiano in Spagna, «se vogliamo tentare di riassumere le grandi lezioni politiche ricavate dalla Guerra di Spagna potremmo dunque enunciarle così: il problema delle alleanze della classe operaia con altre classi interessate a una guerra di indipendenza nazionale; la strategia e la tattica dei comunisti per estendere e consolidare le alleanze politiche (…); la lotta di principio e pratica del Partito comunista contro le posizioni estremistiche (…); la trasformazione del Partito comunista in grande partito di massa, popolare e nazionale». Una serie di indicazioni che costituiranno la base della «svolta di Salerno» del 1944, e che renderanno il Pci, esattamente come il suo omologo spagnolo, perno politico del fronte antifascista. Una direzione che, peraltro, verrà resa strutturale nel secondo dopoguerra.
Ci sono allora molte ragioni per ricordare questo anniversario decisivo anche per la nostra storia nazionale, oltre che continentale. Liberare la storiografia dalle ritrosie politiche del passato è uno dei passaggi necessari. Ancora oggi in Spagna vige il tacito accordo di porre le ragioni e i torti dei contendenti su uno stesso piano sostanziale (la sollevazione nazionalista come effetto di una Repubblica in via di «sovietizzazione»): un fenomeno sconosciuto al racconto, ad esempio, della Resistenza italiana, dove il rigore storiografico non venne tradotto in equivalenza tra le parti contrapposte. Questo ottantesimo potrebbe in tal senso recuperare una prospettiva analitica che, senza concedere nulla all’agiografia interessata, abbia il coraggio di indicare le responsabilità storiche. La Guerra di Spagna ci ricorda anche il nostro passato colonialista. In tal senso, potrebbe consentire anche alla cultura italiana una resa dei conti con il nostro armadio della vergogna.

il manifesto 16.7.16
Verdad, l’utopia è necessaria
Interviene. Lorena Canottiere è l'autrice della storia di una comune e di una miliziana anarchica. Una storia che parla di prede e predatori sui monti dopo la presa di Barcellona
di Virginia Tonfoni

Spagna pirenaica, anni ’20. Una bambina reclama alla nonna ancora disgustata dalla condotta della propria figlia, il diritto a conoscere la propria storia. Non a caso questa bambina, che ritroviamo pochi anni dopo a Barcellona con il fucile in spalla, pronta per partire e combattere tra le file della milizia anarchica, si chiama Verdad, come quella verità che è destinata a cercare e come la verità del monte Verità, la comune libertaria sui monti svizzeri dove è stata concepita. A raccontare in un romanzo disegnato, in libreria per Conino Press, la storia di questa donna combattente è Lorena Canottiere, autrice torinese, alla sua seconda prova con la narrazione lunga.
Verdad è la storia di un viaggio, un cammino interno di definizione, crescita e autodeterminazione. Da cosa hai tratto ispirazione per costruire questo personaggio?
È nato in maniera molto istintiva, e come talvolta accade, si è trattato di un imprevisto. Mi stavo documentando per raccontare un’altra storia, quando mi sono imbattuta nella vicenda della comune libertaria di Monte Verità, esistita nel primi anni del ’900 ad Ascona, in Svizzera da cui son passati moltissimi intellettuali e artisti dell’epoca come Herman Hesse, Otto Gross, Mikail Bakunin, vera fucina artistica di inizio novecento, dove si praticava il matriarcato, il vegetalianesimo, il nudismo. Monte Verità è rimasto come una postilla e come obiettivo ultimo del viaggio di Verdad. È poi subentrato il bisogno di rappresentare la battaglia contro il fascismo durante la Guerra di Spagna e tutto quello che ha rappresentato questo conflitto che ha visto coinvolte persone di tutto il mondo. Si tratta una storia contemporanea, solo in apparenza una vicenda storica e politica passata, che invece reclama bisogni molto attuali, come soldi e potere.
Monte Verità è un luogo dove l’utopia è stata realtà, e il viaggio verso questo luogo è esattamente il motore narrativo della storia. Però è anche il nome della protagonista che cerca di ottenere la propria verità, non avendo mai conosciuto la madre. Come hai messo in relazione questi due movimenti opposti?
Verdad si chiama così in onore e in memoria di questo luogo, la società utopica sulle montagne svizzere legata alla memoria della madre. Verdad ha un nome che è un controsenso, è la verità che ricerca, ma lei stessa si mette continuamente in dubbio, e anche quando raggiunge una meta continua a porsi domande. Il legame tra queste due dimensioni è creato nel testo da tavole che sono tecnicamente diverse e che rappresentano la leggenda della volpe vecchia; un inserto narrativo frammentato che svela come la protagonista insegua non tanto ciò che le ha lasciato la madre, né tantomeno quello che la guerra le permette di dimostrare, ma qualcosa di più profondo, che agisce a livello dell’inconscio ed è probabilmente legato alla ricerca del selvatico, dell’irrazionale, un atteggiamento tipico di coloro che non si accontentano di ciò che ci viene dato dall’esterno.
Queste parti alterano felicemente il ritmo narrativo della storia, le danno un respiro diverso, offrono una specie di controcanto al punto di vista di Verdad. C’è un significato simbolico nell’uso della volpe?
La volpe rappresenta il lato selvaggio che si oppone alla società rurale e chiusa dove a lei è toccato di vivere. Ovviamente è una storia che parla di prede e predatori, sostenendo che a un certo punto ognuno di noi scopre la sua indole, di preda o di predatore, che ne determina il destino: cercare di difendersi dal predatore, o tentare per sempre di attaccare la propria preda. Ci si uccide con le parole, in questa leggenda. La cosa curiosa è che mi è venuta a mente in sogno. Ho dovuto trascriverla appena sveglia perché mi sembrava perfetta per quello che volevo raccontare. La volpe è sia preda che predatrice e mi piaceva perché è selvatica, conserva la sua natura, ma interagisce con gli umani, per esempio quando fa visita nei pollai.
Dialettica preda predatore. Quanto questa dinamica, di chi cerca e di chi è cercato, serve allo sviluppo della protagonista?
È lei stessa a divenire preda e predatrice; dopo la battaglia persa, quando Barcellona sta per finire in mano ai fascisti, mentre tutti scappano per non essere giustiziati, le viene proposto dai suoi compagni di fuggire in Francia, riorganizzare la battaglia, continuare a lottare. Ma lei rifiuta, sceglie l’autoisolamento, si ritira solitaria in montagna-come molti partigiani faranno poi in Italia- ed è a questo punto della storia che capiamo che la sua battaglia è diventata qualcos’altro. Il nemico non è più Franco, non è più l’ideale, la lotta si rivolge verso di lei stessa poiché ha perso anche fisicamente, e rivolta a ciò che continua a cercare. Una battaglia che non finisce mai, che si allarga esponenzialmente nella sua ricerca e richiesta di verità.
Sembra che le bombe della storia, esplodano anche tra le pagine del libro, nel quale utilizzi una palette abbacinante e fai sfoggio di una tecnica sorprendente.
Non ho usato il nero, tranne che nelle parti della leggenda di cui parlavamo, che è fatta a grafite e matite, aggiungendo il rosso e il blu. Ho lavorato manualmente e in digitale. Le tavole in cui Verdad è adulta sono realizzate con l’acrilico giallo e rosso, e l’azzurro è aggiunto al computer. Nelle parti dell’infanzia della protagonista, la tecnica è la stessa, ma ho utilizzato i pastelli al posto dei pennelli, per distinguere i flashblack. La scelta cromatica dei tre primari invece è stata fortemente influenzata dalla documentazione raccolta per il libro, i manifesti di propaganda dell’epoca erano in gran parte serigrafie e spesso realizzate con questi colori.
«La utopia es necesaria», si legge nel frontespizio del tuo libro. Quanto è necessaria l’utopia nel mestiere del narratore?
Totalmente necessaria. Riesco a scrivere solo estraniandomi, togliendo tutte le regole che ho rispettato fino a quel momento, per cui ogni narrazione è ricerca, un mondo da scoprire. Se non c’è un castello in aria non ha senso raccontare, anche quando si parla del quotidiano, soprattutto di quello. Proprio quando si conosce una realtà a fondo, è necessario andare oltre per poterla rappresentare. La frase nel frontespizio è di un falsario anarchico che aveva il sogno di sovvertire lo stato sociale mondiale stampando talmente tante banconote false da far saltare il sistema monetario.
Il viaggio verso utopia è il motore della narrazione; Verdad conclude dicendo che l’importante è che non sia stato inutile.
Certo, non è mai inutile: una dose di utopia e se vogliamo di dadaismo è necessaria in ogni gesto, se vogliamo continuare a vivere in modo reale. Nell’ultima vignetta di Verdad c’è una nuova volpe che agguanta una preda, ma non è la stessa che abbiamo visto nel resto della storia: è un altro animale, come a indicare che la ricerca dell’istintività, della selvaticità non si conclude mai.
Come nella lotta si alzano i canti, nel libro esiste una colonna sonora che si può ascoltare e scaricare da soundcloud (https://soundcloud.com/stefanorisso/sets/verdad/s-lgCd5)
Tutti i movimenti popolari sono accompagnati da canti di protesta che non solo raccontano in maniera viscerale una parte di storia autentica dal punto di vista dei diretti protagonisti, ma spesso sono stati anche veri motori per intere battaglie. Mi sembrava scorretto prescindere completamente da quest’elemento sonoro e narrativo, ma non volevo che fosse una raccolta di canti popolari, ma piuttosto una colonna sonora, come quella di un film, un bordone che accompagnasse tutti i momenti, esaltandone quelli salienti e quelli più emotivi. Per la prima volta nella mia vita, ho lavorato con il mio compagno, Stefano Risso, che ne è il compositore.


Avvenire.it 14.07.16
A dent’anni dalla nascita
Natalia Ginzburg, lessico del ‘900
di Massimo Onofri

Rintocca oggi il centenario della nascita di Natalia Levi, la quale però si firmò sino alla fine col cognome del marito col quale condivise anche il confino: Leone Ginzburg, il brillantissimo slavista, il rigoroso intellettuale di "Giustizia e libertà", il martire antifascista morto in carcere nel 1944. La Ginzburg è stata una protagonista della letteratura italiana del secondo Novecento, non solo con i suoi libri – a cominciare dall'esordio del 1942, La strada che va in città, con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte –, ma anche in virtù del suo lavoro editoriale svolto per Einaudi. Per tracciare oggi un bilancio della sua opera, risulta fruttuoso un confronto con quella di due altri scrittori, per altro suo coetanei: Giorgio Bassani, anche lui nato nel 1916, e Lalla Romano, che invece è del 1906. Ecco: nominare Ginzburg e Bassani significa richiamare subito la questione ebraica italiana. Non è un caso che, a sconsigliare la pubblicazione per Einaudi di Se questo è un uomo (1947) di Primo Levi, sia stata proprio la Ginzburg. Ma torniamo al rapporto con Bassani. Se vogliamo, Lessico famigliare (1963) può essere considerato la risposta a Il giardino dei Finzi-Contini (1962) di Bassani. Se infatti i Finzi-Contini, dentro la comunità ebraica ferrarese, esibiscono subito un'antropologia della diversità, poi dolorosamente pagata, che si traduce in disinvolta ostentazione di agio, in orgoglioso antifascismo, a fronte del facile conformismo di quasi tutti gli altri ebrei, la famiglia del Lessico, non per questo risparmiata dal fascismo, la incontriamo subito mimetizzata in un interno borghese molto italiano, poco interessata, nella sua quotidianità, a professare un'esplicita coscienza ebraica. Per intenderci meglio: il Lessico, ambientato tra i primi anni Trenta e i prima Cinquanta, riporta ogni evento alla misura allegra e ciarliera delle sue ragazze in fiore, che s'ostinano a misurare ogni evento sul metro d'una famiglia ebrea, che però non rinuncia mai, anche nei momenti di tragedia incipiente, a dichiararsi italiana e normale. Siamo arrivati, così, alla seconda questione, là dove appunto la Ginzburg incontra la Romano (ma anche Luisa Adorno, se si vuole, la quale, nel 1962, la precedette, nel ritorno alla letteratura di memoria al femminile, con L'ultima provincia): e cioè la famiglia. Con tutte le implicazioni d'autobiografismo ed egotismo che l'accostamento tra le due comporta. Uno dei libri più belli della Ginzburg, non per caso, è La famiglia Manzoni (1983), indagata con implacabile ostinazione nel rinserramento o nell'allentamento dei legami biologici, nell'odio e nell'amore, persino in ogni futilità, insomma in tutti quei fatti che, come scrisse Garboli, «si creano nella promiscuità di una tana». Tra La strada e il Lessico (con la sua pastosa lingua di "malagrazie", "potacci", "sbrodeghezzi": il lessico, appunto, d'una piccola comunità), c'è tutta la gamma di sentimenti e risentimenti sperimentati dalla Ginzburg nei confronti della "tana": la voglia di aprirne porte e finestre per incontrare il mondo alla ricerca di sé, nel primo romanzo; la pacificazione con essa attraverso la memoria, nel secondo. Quando poi aggiungessimo un racconto lungo come Famiglia (1977), avremmo anche la perlustrazione, ma sempre in un quadro di "normalità", delle ragioni della crisi che quei legami di sangue problematizzano. Siamo di fronte, insomma, a una scrittrice ad altissima temperatura antropologica, la quale, quando dice "io", lo fa però a un grado zero di narcisismo, in quanto si tratta sempre di un "io" con famiglia, che nella famiglia si dissolve. All'opposto della Romano: la quale, nei suoi romanzi autobiografici disarticola la famiglia in una serie di rapporti "io-tu", poco importa si tratti della madre (La penombra che abbiamo attraversato, 1964), del figlio Piero (Le parole tra noi leggere, 1969), o del marito (Nei mari estremi, 1987), o di chissà chi altro ancora.

Avvenire.it 13.07.16
I suoni delle Dolomiti. Musica ad alta quota
di Marcello Palmieri


Si chiama baglama, ed è il liuto anatolico. Mettilo in mano a Taylan Arikan, affiancagli la fisarmonica di Srdjan Vukasinovic, e aggiungici per l'occasione Gilles Apap con il suo violino: ecco i Meduoteran in versione allargata, proiettati in quella che dal 1995 è una geniale intuizione di Trentino marketing. Son tornati dal due luglio "I suoni delle Dolomiti", e fino e al 26 agosto trasformeranno i prati in platee, i massi in palchi, le cime in quinte. Ma alle 13 di domani regaleranno qualcosa di unico: un crossover tra ritmi e stili, tradizioni e culture, sensazioni ed esperienze, apoteosi e sintesi del cammino che ogni spettatore dovrà imporsi per ascendere ai 1786 metri di malga Movlina: terra di pascoli rigogliosi, conteso spartiacque tra la Rendena e il Bleggio. Che dal 1155 è padrone di quella terra. E al luogo dove allora il "giudizio di Dio" (in verità un atroce combattimento per motivi tutt'altro che spirituali) decretò la morte del duellante rendenero, per mano di quello bleggese, domani si salirà da entrambi i versanti, con le guide alpine - prenotazioni allo 0465.502111 - a dar sicuro passo da Stenico (3 ore) e Pinzolo (3 ore e mezza). E' da sempre Mario Brunello il signore incontrastato di questo festival. Lui, che alla kermesse delle Dolomiti trentine salirà violoncello in spalla (dal 23 al 25 luglio, sul Catinaccio, per un trekking musicale in compagnia del violino di Giuliano Carmignola e del genio di chitarre, tiorbe, liuti e altri strumento antichi - info/prenotazioni allo 0462.609666). E sempre lui, che quest'anno ha voluto associare al festival un illustre collega. Geniale, eccentrico, noto nei maggiori teatri del mondo per la sua eccezionale tecnica "vestita" – e non metaforicamente - in un abbigliamento strambo e appariscente: l'edizione 2016 segna il debutto di Mischa Maisky (mercoledì 20 luglio, ore 13), con le pale di San Martino ad ascoltare la III e V Suite di Bach. Programma classico, certo. Ma preludio alla riscossa del jazz che arriverà il 3 agosto, e sempre alle 13, quando la Val di Fassa si dimenerà al ritmo di Stefano Bollani e della sua tastiera (rifugio Michelucci, gruppo del Sassolingo). Attenzione: le Dolomiti, poco distante da lì, suoneranno già sabato 16 luglio. E in un contesto ancor più suggestivo. Alle 6 del mattino, a Col Margherita. Quando la musica sorgerà insieme al sole. Gli esecutori? Un gruppo lappone che distillerà musica e cultura del popolo Sami, privilegiato custode delle aurole boreali. Si potrebbe continuare per molto, ma basti questo: da oggi a fine agosto "I suoni delle Dolomiti" dispenseranno 16 perle preziose. Respiro della montagna, ossigeno per chi sceglie d'accarezzarla. Programma dettagliato su www.isuonidelledolomiti.it