lunedì 4 luglio 2016

Corriere 4.7.16
Sassi che sanno vivere Io dico grazie a Matera
Una città rimasta se stessa per secoli è la dimostrazione che l’uomo resiste a tutto pur di non soccombere
di Michael Cunningham

In Giappone, i seguaci dello shintoismo distruggono i propri templi ogni vent’anni e li ricostruiscono nel medesimo luogo, per ricordare a se stessi che tutto è transitorio ma anche che tutto ciclicamente ritorna.
A Barcellona prosegue da oltre un secolo la costruzione della basilica della Sagrada Família, lasciata incompiuta nel 1926 alla morte improvvisa di Gaudí. L’opera è tuttavia ostacolata sia dalla perdita dei progetti originali nell’incendio che distrusse il laboratorio dell’architetto catalano, sia dalle stridenti sculture «astratte» aggiunte alla facciata ovest negli scorsi anni Sessanta e Settanta, sia ancora da una perdurante carenza di risorse economiche (le due fontane di mercurio che nelle intenzioni di Gaudí avrebbero dovuto affiancare la facciata principale probabilmente non saranno realizzate, quanto meno non in tempi brevi). La Sagrada Família perennemente incompiuta ci ricorda che le chiese che immaginiamo possono sempre essere più sontuose di qualsiasi edificio finito. Aspetto essenziale per la loro sacralità: noi non onoriamo infatti soltanto la chiesa in sé ma l’idea stessa di una chiesa più favolosa, che quella esistente si limita a simboleggiare.
Matera ospita ogni anno i festeggiamenti in onore della Madonna della Bruna, protettrice della città: fra le varie processioni e sfilate si svolge quella del carro trionfale di cartapesta che, dopo aver attraversato le strade della città lucana e raggiunto una delle piazze del centro, viene preso d’assalto dalla folla dei fedeli e letteralmente fatto a pezzi, finché non ne resta più niente.
Questo rito collettivo ricorda ai materani che qualsiasi creazione umana, dalle chiese ai carri trionfali, potrebbe essere migliore di quella che è. Ogni anno viene costruito un carro più bello, e ogni anno esso viene distrutto, perché la perfezione sfugge sempre agli sforzi dell’uomo, a prescindere dalle capacità e dall’ispirazione.
Matera conosce la perseveranza. Conosce l’impulso a completare ciò che non potrà mai essere completato.
Matera è una delle più antiche — forse addirittura la più antica — fra le città del mondo abitate senza soluzione di continuità fin dalla fondazione. Sebbene sia impossibile determinarne con esattezza l’età, risale di certo al Paleolitico, il periodo in cui gli esseri umani cominciarono a realizzare utensili di pietra. Con l’avvento dell’Età del Bronzo, Matera era già una città consolidata e fiorente, scavata nel corso del tempo in uno sperone di roccia calcarea che si erge sulla campagna circostante come un gigantesco pugno fuoriuscito dalle viscere della terra.
Molte delle abitazioni di Matera sono grotte e molti dei suoi edifici — o meglio, quelli che sembrano edifici — sono semplici facciate, dietro le quali si scoprono ancora delle grotte. Matera è come un enorme alveare, apparentemente solido dall’esterno, ma in realtà costituito per lo più da gallerie, cunicoli e grotte, talvolta poste una sull’altra a formare un’unica abitazione. Se la gran parte delle grandi città aspira oggi a costruire edifici sempre più alti, a testimonianza dei nostri tentativi di avvicinarci al cielo, Matera evoca un bisogno più primordiale, quello di scavare nella terra, di trovarvi abbraccio e protezione.
Matera — le sue rocce, le sue strade, le sue strutture — è sostanzialmente di un solo colore, un biancastro simile a quello di un osso spolpato e abbandonato al sole e alla pioggia del deserto.
Non ci sono alberi. Non c’è erba. Come se ogni cosa fragile, cedevole, fosse stata spazzata via dal vento millenni fa. Matera è composta soltanto da quanto è in grado di resistere a una forza sconquassante. Matera è ciò che resta dopo gli uragani.
Visitandola di persona, ho capito che è proprio questo l’unico modo per comprenderla davvero. Le foto sono suggestive, indubbiamente, ma non riescono a trasmetterti la sensazione — palpabile nel momento in cui metti piede in città — di essere fragile a tua volta, di pattinare sulla superficie rocciosa della mortalità.
Tu sei caduco. Matera no.
È nelle viuzze dei Sassi che più è tangibile una presenza spettrale, ma di spiriti dipartiti talmente tanto tempo fa da aver perso qualsiasi tratto umano. A Matera la presenza spettrale è quella dell’umanità stessa: umanità dilavata dal tempo, umanità nella forma più pura ed essenziale, spogliata delle proprie inclinazioni e battaglie, delle proprie paure e desideri. I suoi fantasmi sono ciò che resterebbe di noi se ci venisse tolto tutto ciò che ai nostri occhi ci rende quello che siamo. Camminando per Matera è possibile scorgerne i fantasmi originari, magari anche solo per un istante. Quell’essenza umana antica, quel fremito di inquietudine che attraversa una piazza altrimenti immobile… no, peccato, l’hai perso. Aspetta, eccolo di nuovo, scivolare davanti al portale di una chiesa… niente, è sparito ancora. Forse l’hai soltanto immaginato.
Matera è un luogo che suscita visioni e insieme dubbi sulle proprie visioni.
Niente di tutto questo si vede dalle fotografie.
Così come non si vedono, al di là del burrone che separa la città vivente da quella estinta, dalle grotte non più abitate, i trogloditi del Paleolitico che vi trovavano rifugio e che sembrano guardarti a loro volta dall’estremità opposta del continuum spaziotemporale, incuriositi quanto te da questo sogno reciproco che state facendo.
Altrettanto impossibile da fotografare è la strana, sepolcrale pulizia della città, una sobria e spietata pulizia buddhista della quale non si stupirebbero gli shintoisti che distruggono e ricostruiscono i loro templi ogni venti anni…
E, ancora, il momento in cui, all’imbrunire, il cielo si riempie di uccelli che in lontananza sembrano rondoni o usignoli e che invece, guardando più da vicino, si rivelano essere piccoli falchi, con la loro testa da predatore e i freddi occhi assassini. I falchi rappresentano l’aspra indistruttibilità di Matera, una città che in un certo senso è predatrice del tempo. Tempo che infatti divora quasi tutto, e tuttavia sembra non riuscire a divorare questa città.
Non che Matera divori il tempo: semplicemente non se ne preoccupa, proprio come un falco non si preoccupa del cielo.
Voglio tornare ancora sulla storia di Matera perché Matera è Storia, in costante collisione con il presente. Potremmo dire che Matera è l’illustrazione vivente di come la nostra storia crei il nostro presente e il presente il futuro, di come questo processo vada avanti, nanosecondo dopo nanosecondo, sin dalla formazione della Terra.
Come la maggior parte delle città, anche quelle di mille anni più giovani, Matera ha avuto i suoi alti e bassi. Per oltre duecento anni capoluogo della Basilicata, ha ricevuto in visita imperatori e arcivescovi. Ma ci sono stati anche periodi storici più difficili. All’inizio degli scorsi anni Cinquanta, a fronte delle cattive condizioni di vita, con la maggioranza degli abitanti che vivevano ancora nelle grotte, senza corrente elettrica e fognature, una legge nazionale stabilì lo sfollamento dei Sassi e la costruzione, su colline ricche di verde, di nuovi e più confortevoli quartieri residenziali.
I materani, tuttavia, non erano ben disposti a trasferirsi. Preferivano i (dis)agi delle loro vecchie case, come generalmente è sempre stato nella storia dell’uomo: a quanto pare preferiamo il consueto all’inconsueto, anche se quest’ultimo costituisce tecnicamente un passo avanti.
Date le difficoltà di vita, non stupisce che Matera tenda alla devozione religiosa. La città ospita oltre centocinquanta chiese, molte delle quali rupestri: sì, ricavate anch’esse all’interno di grotte. Molte sono decorate da affreschi realizzati da anonimi pittori cinquecento e passa anni prima della nascita di Giotto.
La religiosità di Matera ha conosciuto una svolta per così dire più moderna nel 1963, quando Pasolini vi ha girato il suo Vangelo secondo Matteo . Da allora sono stati girati nel capoluogo lucano almeno una dozzina di film sulla vita di Gesù, visto che la Matera di oggi somiglia alla Gerusalemme di Cristo più di Gerusalemme stessa. Tra i più recenti, La passione di Cristo di Mel Gibson, nel 2004.
Sono molti i materani che hanno aneddoti da raccontare dopo aver lavorato come comparse nella pellicola: uno, in particolare, mi ha informato con orgoglio che in una delle scene si vede il suo dito (ma soltanto il dito) puntato in segno di sfida. Un altro mi ha mostrato qualcosa di prezioso che conservava dal set, un frammento della croce al quale era stato appeso l’attore che interpretava Gesù. Gli ho fatto i dovuti complimenti, evitando per cortesia di fargli notare che non era un frammento della Vera Croce, ma un pezzo di arredo scenico made in Hollywood . Non credo però che la differenza importasse granché al possessore di quel pezzo di legno vecchio di dodici anni. Tutto sommato comprensibile, in una città che esisteva già migliaia di anni prima della nascita di Cristo. Non voglio essere blasfemo — né di certo c’è questa intenzione nei materani — quando dico che Matera ha una tale abitudine a ricevere imperatori ed ecclesiastici che Pasolini e Gibson sembrano quasi gli esempi più recenti di una catena ininterrotta di personaggi illustri venuti qui in visita, magari non i più eminenti, ma nemmeno trascurabili.
Negli ultimi anni le fortune di Matera sono in costante ascesa, non solo dopo le riprese del film di Gibson, ma anche da quando la città, nel 1993, è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dell’Unesco e, qualche tempo fa, designata capitale europea della cultura per il 2019.
In previsione dei flussi turistici che fra tre anni conosceranno senza dubbio un ragguardevole picco, già oggi a Matera sono stati aperti hotel a cinque stelle e ristoranti di livello mondiale, molti proprio all’interno di grotte impeccabilmente tinteggiate di bianco e dotate di ogni comfort. Resta, tuttavia, la forte sensazione che, a prescindere dal destino di queste strutture di lusso, la città non subirà cambiamenti, almeno non in senso profondo e duraturo. Camminando lungo le sue stradine, si percepisce chiaramente la certezza che Matera sopravviverà a tutto ciò di effimero — vuoi l’indigenza, vuoi gli alberghi a cinque stelle — che il vento spazza via.
Per chiudere, vorrei tornare brevemente sul carro trionfale che tutti gli anni, a luglio, viene distrutto in occasione della festa della Madonna della Bruna. La tradizione risale agli inizi del Cinquecento, quando Matera era governata da un conte particolarmente dissoluto che, per far fronte ai debiti personali, era arrivato a raddoppiare e addirittura triplicare le tasse.
La sua ultima, intollerabile decisione fu di ordinare per la festa della Bruna un carro trionfale sgangherato, dalla fattura scadente, beffardo taglio delle spese da parte di un uomo che per sé aveva costruito regge sfarzose e che in una sola notte era capace di sperperare al gioco più di quanto qualsiasi materano guadagnasse in un intero anno di lavoro. Quando comparve lungo le strade di Matera, il patetico carro fu fatto a pezzi da cittadini che, molto semplicemente, ne avevano avuto abbastanza. Il tiranno subì un agguato mortale all’uscita dal duomo: i suoi uccisori non vennero mai individuati, nonostante uno di loro avesse, poco prima dell’assalto, inciso sulla colonnina di una chiesa una confessione anonima che si conserva ancora oggi.
Da allora, Matera distrugge il carro nel giorno di festa, a prescindere da quanto sia grandioso, da quanto sia bello.
Assistendo alla festa puoi notare che i più irruenti nel dare l’assalto al carro e cercare di conquistarsene un pezzo — l’ala di un angioletto, la base di una colonna — sono quasi sempre i giovani. E se ci parli, mentre se ne tornano a casa con i loro trofei di cartapesta, scopri che pochi di loro sono consapevoli di mettere in scena l’antica rivolta contro un avido tiranno morto poco più di cinquecento anni fa. Eppure, il rito si svolge fedelmente ogni anno e non sembra fare molta differenza se le persone che vi partecipano conoscono il significato del proprio gesto o sono soltanto felici per l’annuale occasione di poter impunemente fare a pezzi qualcosa (un impulso che chiunque può capire, no?).
In fondo siamo a Matera, città che racchiude innumerevoli storie e che ha accolto innumerevoli generazioni di abitanti, alcune ricordate, altre dimenticate, altre ancora documentate negli archivi, ma per lo più sconosciute a chi ci vive oggi.
Matera, dove il frammento di una croce prodotta a Hollywood per crocifiggerci un attore può essere venerato semplicemente perché appartiene a una Storia ininterrotta, nella quale c’è posto sia per la vita dei santi sia per la realizzazione di un film.
Non è che le storie con la «s» minuscola, e le generazioni, non contino, ma Matera è, anzitutto, una ininterrotta dimostrazione di sopravvivenza, della capacità umana di continuare a esistere, persino a prezzo di grandi sacrifici, e dell’impulso a vivere dove vivevano i nostri antenati. Anche se è un posto aspro e inospitale, anche se la terra è dura e scarse le risorse d’acqua… be’, questo posto appartiene a noi e noi a esso.
L’uomo è, quanto meno, una specie ben determinata. Siamo sopravvissuti a tanti ostacoli. Stando così le cose, gli shintoisti continueranno a distruggere e a ricostruire i loro templi ogni venti anni. Un giorno, forse, a Barcellona la Sagrada Família sarà completata: ma che questo succeda o no, più importante della basilica in sé sarà sempre la visione che Antoni Gaudí ha concepito di essa.
Matera, ancora vivissima, brulla e scarna, di una bellezza anomala, resiste da millenni e potrebbe resistere per millenni a venire. Quegli stessi millenni che, con il loro silenzio, dicono a noi uomini che possiamo continuare a esistere, che molto probabilmente esisteremo ancora, persino in un mondo che talvolta appare fin troppo pronto a liberarsi di noi.
Non saremo granché, come specie — se guardiamo alla nostra storia, alle guerre, all’abitudine di ricompensare i ricchi e spogliare i poveri — eppure possediamo una tenacia, una spinta profonda e inesauribile ad andare semplicemente avanti… che sfiora la genialità.
(traduzione di Carlo Prosperi )