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Corriere 11.7.16
Le parole che l’Islam non dice
di Ernesto Galli della Loggia
Chissà
se in quella tragica sera di Dacca qualcuno dei nove italiani, mentre
veniva torturato e si preparava ad essere sgozzato per non aver saputo
rispondere a dovere alle domande di catechismo islamico, avrà pensato
che i suoi compatrioti avrebbero preso l’impegno di vendicarlo. Penso
proprio di no, dal momento che quegli italiani erano certamente esperti
del mondo e della vita. Non sta bene covare sentimenti di vendetta, e
tantomeno dirlo: loro sapevano che noi la pensiamo così, e dunque non
potevano certo farsi illusioni.
Verso la memoria di quelle vittime
però, dovremmo tutti prendere almeno un impegno di serietà e di verità.
Dunque, parlando di ciò che li ha condotti alla morte, rinunciare al
buonismo di principio, ai giudizi programmaticamente tranquillizzanti,
agli equilibrismi. Che ad esempio i maggiori quotidiani del loro Paese,
quasi per farsi perdonare l’audacia di aver avanzato in un primo momento
il sospetto che nella macelleria bengalese, vedi mai, la religione
islamica c’entrasse qualcosa, che quei giornali, dicevo, immediatamente
dopo si sarebbero sentiti in dovere, in omaggio a una presunta
obiettività, di pubblicare articoli volti a rigettare il sospetto di cui
sopra giudicandolo calunnioso e frutto di ignoranza, ebbene che una
cosa simile sarebbe accaduta questo forse nessuna di quelle vittime è
arrivata certamente a pensarlo.
I nvece è andata proprio così.
Anche questa volta è andata così. Per la strage di Dacca, come in tante
altre occasioni da anni. E non certo solo da noi. Da anni infatti
terroristi islamici seminano dovunque la morte ma l’opinione pubblica
occidentale si sente puntualmente ripetere che la loro religione non
c’entra nulla. Il più delle volte con l’argomento (evidentemente
reputato in grado di chiudere la bocca a chiunque) che, a tal punto il
terrorismo islamico non c’entrerebbe nulla con la religione islamica che
spesso le sue vittime sono proprio gli stessi islamici. Come chi
dicesse che poiché le guerre di religione nell’Europa del
Cinque-Seicento vedevano dei cristiani ammazzare altri cristiani,
proprio per questo la religione con quella violenza non avesse nulla a
che dividere.
Le cose stanno ben altrimenti. «I jihadisti — ha
scritto Tahar Ben Jelloun, conosciutissimo teorizzatore dell’Islam
tollerante all’interno di un’auspicata tolleranza universale — prendono a
riferimento dei versetti che erano validi all’epoca della loro
rivelazione ma oggi non hanno più senso». Già. Ma mi chiedo: e chi è che
lo decide quali versetti del Corano continuano ad «avere senso» e quali
invece sono per così dire passati di moda? Chi? E in ogni caso non vuol
forse dire quanto scrive Ben Jelloun che comunque in quel testo ci sono
parole e precetti che si prestano e magari incitano ad un certo uso
della violenza?
Certo, tutti sappiamo che il monoteismo in quanto
tale intrattiene un oscuro rapporto con la violenza. Ma fa qualche
differenza o no — mi chiedo ancora sperando di non incorrere per questo
nell’accusa di islamofobia — fa qualche differenza o no se nel testo
fondativo di un monoteismo i riferimenti alla violenza ci sono,
espliciti e ripetuti, e in un altro invece sono del tutto assenti? Fa
una differenza o no, ad esempio, se i Vangeli non registrano nella
predicazione di Gesù di Nazareth alcuna azione o proposito violento
contro coloro che non credono? Non ha significato forse proprio questo
la possibilità nell’ambito del monoteismo cristiano di mantenere aperto
costantemente uno spazio di contraddizione, di obiezione nei confronti
della violenza pur commessa in suo nome che altrove invece non ha mai
potuto vedere la luce? Mi pare assai dubbio insomma che tutte le
cosiddette religioni del Libro adorino davvero lo stesso Dio come
sostengono gli instancabili promotori delle tante occasioni di «dialogo
interreligioso» che si organizzano dovunque tranne però, chissà perché,
nei Paesi musulmani. Per la semplice ragione che in realtà quel Libro è
per ognuna di esse un Libro dal contenuto e dal significato ben diversi.
In
realtà è assai difficile pensare che l’Islam non abbia un problema
specifico tutto suo con la violenza. Ne è prova non piccola, a me pare,
come esso continui a praticarla nei suoi riti i quali sembrano non aver
conosciuto in misura decisiva il processo di trasfigurazione simbolica
avutosi in altri monoteismi. Chiunque ad esempio si è trovato in una
località islamica il giorno della Festa del Sacrificio (che ricorda il
sacrificio del primogenito richiesto da Dio ad Abramo) ha potuto
assistere allo spettacolo di ogni capofamiglia che, armato di coltello,
sgozza sulla pubblica via un agnello procuratosi in precedenza. Certo,
la pratica non è più universale ma è ancora abbastanza diffusa da
impedire di credere che essa non costituisca tutt’oggi un paradigma dal
potentissimo richiamo emotivo per l’insieme dei credenti. Così come
ancora oggi — per menzionare un altro ambito fondamentale — l’ambiente
familiare islamico appare dominato da un tratto gerarchico-comunitario e
da un’arcaica fissità di ruoli maschile e femminile, l’uno e l’altro
ispirati dai precetti religiosi. Ora, sarà pure tutto ciò fonte preziosa
di protezione e solidarietà per l’individuo, sarà pure benefico
elemento di coesione del gruppo, ma di certo una tale struttura
familiare sembra fatta apposta per essere una continua palestra di
costrizione, di repressione e alla fine di violenza. Non è davvero
singolare — almeno all’apparenza e a quel che è dato di sapere: ma in
caso contrario perché non ci è dato di sapere? — che le banali
osservazioni appena fatte non siano oggetto di alcuna discussione nelle
società islamiche, che di fronte a ciò che sta accadendo non ci si
chieda se per caso la tradizione religiosa, sia pure al di là di ogni
sua intenzione, non sia implicata per qualche verso nei comportamenti di
non pochi dei suoi adepti? Come mai i processi di analisi
storico-culturale che si sono così largamente sviluppati nei Paesi
cristiani e altrove, nel mondo islamico invece sembrano non avere alcun
corso, almeno pubblico? Che cos’è che lo impedisce? Perché ancora oggi
nei Paesi islamici non si traduce quasi nulla della letteratura
scientifica mondiale riguardante la società, la religione, la psiche, il
sesso, la storia? Perché questa ferrea cortina d’ignoranza calata sul
futuro di quei popoli?
Con queste e analoghe domande, se volessimo
realmente onorare i morti di Dacca, non dovremmo stancarci di incalzare
il mondo islamico. Ripetutamente, insistentemente, ogni volta che
chiunque prenda la parola in qualche modo a suo nome.
Così come,
per parlare infine di politica, dovremmo una buona volta porre anche il
problema dell’Arabia Saudita, l’Arabia Saudita è il vero cuore della
violenza terroristica islamista perché ne è di gran lunga il maggiore
finanziatore. Da anni tutti gli osservatori lo dicono e lo scrivono,
sicché la cosa è in pratica di dominio pubblico. I soldi per le armi e
le bombe destinati a seminare strage da Bombay a Parigi vengono quasi
sempre da Riad. Ma egualmente da Riad proviene il fiume di soldi con cui
negli ultimi decenni l’élite saudita ha acquistato in mezzo mondo (ma
di preferenza in Occidente, naturalmente) partecipazioni azionarie,
interi quartieri residenziali, proprietà e attività di ogni tipo.
Trascurando nel modo più assoluto qualunque solidarietà islamica — ai
disperati, spessissimo musulmani, che ogni giorno tentano la traversata
del Mediterraneo, da loro non è mai arrivato un centesimo — ma curandosi
solo di arricchirsi sempre di più e di mutare a proprio favore la
bilancia del potere economico mondiale.
Ma perché, mi chiedo, non
si possono immaginare nei confronti dell’Arabia Saudita e dei suoi
dirigenti misure di sanzione, diciamo pure di rappresaglia, volte a
colpire gli interessi di cui sopra? Proprio l’idea che agli occidentali
interessi più il denaro di qualsiasi altra cosa è tra le cause di quel
disprezzo culturale che ha non poco a che fare con lo scatenamento della
violenza specialmente contro di essi. Quale migliore occasione, allora,
per dimostrare che le cose non stanno proprio così, che ci sono anche
per noi cose più importanti del denaro?
La Stampa 11.7.16
Boccia-Camusso, gelo sul referendum
La leader Cgil: indecenti le stime di Confindustria sui danni in caso di vittoria del No Il presidente degli industriali replica: “Esporsi non significa essere vicini a Renzi”
di Paolo Baroni
D’accordo quasi su tutto, sulle pensioni, sulla crisi delle banche, a livello di metodo da seguire d’accordo anche su un tema molto contrastato come il rinnovo dei contratti. D’accordo su tutto, tranne che sul referendum. Per il segretario della Cgil Susanna Camusso ed il nuovo presidente di Confindustria Vincenzo Boccia quello di ieri era il primo faccia a faccia pubblico. Quasi due ore di botta e risposta all’ombra delle rovine del castello di Serravalle, dove la Cgil pistoiese ogni anni organizza i suoi «Incontri».
Il confronto tra i due, moderato dal giornalista Francesco Manacorda, è andato via liscio all’insegna dell’assoluto fair play sino a quando non si è toccato il tema riforme. Confindustria schierata decisamente a favore del Sì la Cgil molto critica. Anche rispetto a Confindustria. «Ho trovato indecenti e sbagliate le slide del Centro studi» attacca Camusso. «Pronosticare un meno 4% del Pil, è il peggior vecchiume di cui credo il Paese non abbia assolutamente bisogno». E al presidente di Confindustria, che aveva appena finito di spiegare che il Sì convinto degli industriali era legato alle prospettive future di stabilità e governabilità, il segretario Cgil risponde che «la stabilità non è una variabile indipendente: si può essere stabili, come in apparenza lo siamo da due anni, e vedere che le condizioni delle persone non sono assolutamente cambiate». Boccia tiene il punto e spiega che quello di Confindustria non va inteso «come un endorsement»: esporsi per il Sì «non significa essere collaterali a Renzi» ma «essere onesti intellettualmente». Quanto alle slide del Csc avrebbe anche potuto non renderle pubbliche, ma se lo ha fatto è stato soprattutto per «segnalare i rischi di una eccessiva personalizzazione della vicenda».
Quanto al merito Camusso elenca una raffica di critiche, mentre il numero uno degli industriali sostiene che «le riforme non sono certo il massimo però rappresentano un primo passo importante» e per questo vanno appoggiate. Mentre boccia l’idea di spacchettare i quesiti, come invece suggerisce anche alla Cgil, e «se questo crea ulteriore confusione forse è bene fare una riflessione».
Il resto del confronto è stato un cordiale batti e ribatti: sui contratti Camusso dice no al modello Federmeccanica, chiede di non cancellare le intese nazionali e soprattutto di dare priorità alla riduzione delle diseguaglianza e alle imprese di tornare a investire; Boccia invece punta tutto sul recupero di produttività e sui contratti di secondo livello (e poi «solo dopo si distribuiscono le risorse») mettendo in chiaro che in questa tornata «se si fanno errori non si fa solo un brutto accordo ma ci giochiamo altri pezzi della nostra industria». Sulle banche entrambi concordano che impegnare soldi pubblici non è una bella cosa, ma che il sistema del credito va comunque aiutato, sulle pensioni entrambi criticano la legge Fornero e chiedono di introdurre meccanismi di flessibilità soprattutto per favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Insomma molti punti di intesa a partire dal fatto che sia Camusso che Boccia concordando sul fatto che le parti sociali debbano riappropriarsi del loro ruolo evitando di lasciare ad altri (sottinteso il governo) spazi di manovra.
«Vi do io il titolo di questo incontro: sono d’accordo con Camusso, però», azzarda ad un certo punto Boccia. Vero, referendum a parte.
Repubblica 11.7.16
"La supertassa sui permessi di soggiorno discrimina gli stranieri", governo condannato a risarcire
La sentenza del tribunale di Milano che bacchetta ministeri e presidenza del Consiglio e apre la strada ai rimborsi di quanto pagato dal 2011. "Sproporzionata" la tariffa da 100 a 245 euro chiesta per il rilascio e il rinnovo del documento rispetto a quanto pagano gli italiani per certificati analoghi
di Zita Dazzi
qui
http://milano.repubblica.it/cronaca/2016/07/11/news/migranti_immigrazione_permessi_di_soggiorno-143804382/?ref=HREC1-1
Il Fatto 11.7.16
Italicum e referendum C’eravamo tanto sbagliati
L’idillio tra il premier e la grande stampa è finito, ora Matteo apre
alle modifiche che rifiutava. E non sogna più di trasformare in plebiscito il voto sulla Carta
Doppio schiaffo. Prima De Benedetti poi Eugenio Scalfari: “Metta mano alla legge elettorale”
di Tommaso Rodano
qui
http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/il_fatto_p2_1c40c4278e108c?workerAddress=ec2-54-174-255-77.compute-1.amazonaws.com
Il Fatto 11.7.16
Repubblica (dopo Cdb) scopre i guai del renzismo
di Marco Travaglio
qui
http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/il_fatto_p2_1c40c4278e108c?workerAddress=ec2-54-174-255-77.compute-1.amazonaws.com
Repubblica 11.7.16
Referendum costituzionale, i Sì avanti di un soffio ma in netto calo
In crescita i No e gli indecisi che diventano un terzo degli elettori
di Ilvo Diamanti
qui
http://www.repubblica.it/politica/2016/07/11/news/nella_consultazione_politicizzata_i_si_avanti_di_un_soffio_ma_in_netto_calo-143819083/?ref=HREA-1
Repubblica 11.7.16
Referendum, si allontana lo spacchettamento Pd freddo, poche le firme
Tutti i dubbi in Cassazione e alla Consulta. L’impegno a decisioni rapide se saranno depositati più quesiti
di Goffredo De Marchis e Liana Milella
C’è tempo fino a giovedi per raccogliere le sottoscrizioni, i dem non intendono partecipare
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi alle prese con l’incognita quesiti: uno o più di uno per il referendum costituzionale che si terrà in autunno
ROMA. L’ipotesi spacchettamento dei quesiti per il referendum costituzionale diventa sempre di più una chimera. Non dire di no a niente e a nessuno - la nuova strategia di Matteo Renzi -, aprire quindi alle proposte che arrivano dalla minoranza o dagli alleati può essere insufficiente ad arrivare al risultato. Per colpa di fattori esterni. Nella maggioranza sono convinti infatti che non ci sia lo spazio per dividere in 5 (o in tre) la consultazione di autunno sulla legge Boschi. Il problema va oltre i tempi strettissimi: giovedì è il termine per consegnare la richiesta in Cassazione. Non sarebbe un problema nemmeno la nuova raccolta di firme dei parlamentari che costringerebbe il Partito democratico a smentire la precedente raccolta. Una capriola difficile da spiegare. Gli scogli veri sono il via libera della Cassazione e della Consulta. Non c’è alcuna certezza che sarebbero così semplici da ottenere, ora che la macchina referendaria è in moto. Anzi: si fa strada il convincimento che sorgerebbero degli intoppi perchè, come dice il capogruppo del Pd alla Camera Ettore Rosato, è complicato «trovare la chiave per spacchettare il quesito in maniera omogenea».
I consensi a favore della divisione in 5 della riforma, così come proposto dai Radicali italiani, non mancano, anche se occorrono 126 firme di deputati e 64 di senatori. Un fronte trasversale pro-spacchettamento, con grande fatica, avrebbe la chance di raggiungere la soglia. Ma l’aiuto del Pd appare indispensabile, considerato che dalle opposizioni non arriveranno favori. Perchè spacchettare potrebbe avere un effetto: rinviare la data del referendum, addirittura al 2017. Ma qual è la posizione della Corte di Cassazione? E in caso di ricorso ulteriore alla Consulta, i giudici costituzionali si prenderebbero tanto tempo per decidere come avviene di solito? Oppure stringerebbero i tempi per evitare polemiche.
In Cassazione, dove la decisione spetta all’Ufficio centrale per il referendum, si respira un’aria scettica. «Ne abbiamo già ammesso uno con un quesito unitario, adesso possiamo solo aspettare venerdì, quando scadrà il termine per le ulteriori richieste», dice una buona fonte del Palazzo. Ovviamente la stessa fonte conferma che cambia tutto se a presentare le firme saranno altri parlamentari o gli stessi che hanno già sottoscritto la richiesta per il quesito unico. Perché in questo caso i supremi giudici si troveranno di fronte «a un caso nuovo, quindi tutto da studiare».
Vediamo quale sarebbe la novità. Non è mai accaduto che gli stessi parlamentari possano diventare protagonisti di una doppia richiesta di referendum, con caratteristiche sostanziali del tutto diverse. Nel primo caso — e cioè per la richiesta di referendum che è già andata a buon fine e che ipotizzava un unico quesito per tutta la legge Boschi-Renzi — i richiedenti si sono espressi in un modo (quesito unico), mentre adesso gli stessi richiedenti presenterebbero un quesito diverso, e cioè spacchettato. «Ci imporrebbe di studiare a fondo la questione, per capire se gli stessi parlamentari, in due momenti diversi, possono presentare due richieste differenti». Come si pronuncerebbe la Cassazione? «Proprio perché si tratta della prima volta, l’esito in questo momento è imprevedibile ». Ma tra le toghe di piazza Cavour ce n’è qualcuna che già adesso è pronta a ipotizzare un doppio no, a partire proprio dall’ammissibilità del quesito dei parlamentari che hanno cambiato idea.
Qualora la Corte — che ha tempo fino alla metà di agosto per emettere il suo verdetto, ma che potrebbe anche rispondere prima, addirittura in una decina di giorni, vista l’urgenza della questione — dovesse accettare la bontà delle firme dei parlamentari, resta poi il merito della decisione, che però a questo punto diventa molto più complessa rispetto al quesito unico. La Corte ne dovrà valutare la congruità e potrebbe anche spingersi a modificarli, com’è avvenuto nel caso di referendum ordinari, ultimo quello sulle trivelle. Un percorso dunque molto accidentato.
Ovviamente, qualunque decisione venga presa, la parola passa ai richiedenti che, insoddisfatti della decisione assunta, potrebbero sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale. Considerati i tempi per preparare il ricorso, presentarlo, protocollarlo, la risposta della Consulta potrebbe arrivare in autunno. Ma anche in questo caso potrebbe intervenire un’accelerazione.
La Stampa 11.7.16
Matteo Renzi cambia i toni sul referendum
di Federico Geremicca
Da qualche giorno Matteo Renzi approccia il doppio rebus referendum costituzionale-Italicum in termini diversi rispetto a qualche settimana fa. La sensazione è che la correzione di rotta riguardi, per il momento, più i toni che la sostanza delle questioni aperte: ma è giusto osservare che, se anche si trattasse solo di questo, il confronto tra gli schieramenti in campo avrebbe certo da guadagnarne.
La nuova posizione del presidente del Consiglio potrebbe esser definita di scettica apertura o - per certi versi - addirittura di agnostica terzietà. Cambiare l’Italicum? «E’ una buona legge, ma io non ne parlo più: è nella disponibilità del Parlamento». «Spacchettare» i quesiti referendari, concedendo ai cittadini un voto più articolato? «Io sarei per la scheda unica: ma se le Corti decideranno in altro modo, non avrò problemi».
Difficile dire se si tratti di un aggiustamento di toni determinato dal mezzo rovescio elettorale di giugno o del tentativo di svelenire il clima in apertura di una settimana che si annuncia complicata: fatto sta che minoranza Pd e alleati centristi di governo hanno festeggiato questo aggiustamento come foriero di importanti novità.
Quanto questo «disgelo» sia effettivo lo si potrà apprezzare già mercoledì nell’aula del Senato, dove va ai voti un provvedimento (la riforma dei bilanci degli enti locali) che ha bisogno, per l’approvazione, della metà più uno dei componenti l’Assemblea: una soglia (161 voti) impegnativa da raggiungere, tanto per i mal di pancia degli alleati dell’Ncd quanto per il fatto che stavolta mancherà il «soccorso» dei senatori di Denis Verdini.
Non è la prima volta che la maggioranza di governo affronta il voto di Palazzo Madama con il batticuore, ma lo stabilizzarsi di questa precarietà - il ritorno, cioè, dell’«incubo-Senato» di prodiana memoria - rischia di avere sul Pd un effetto perfino psicologicamente deprimente. Del resto, solitamente sono proprio i numeri (quelli delle elezioni o delle maggioranze parlamentari, per dire) a tradurre in maniera plastica difficoltà che analisi consolanti e annunci di contrattacco tentano di nascondere.
Da questo punto di vista, le sconfitte di Roma e Torino e l’appesantirsi del clima intorno al governo stanno lasciando segni che il premier ha smesso di sottovalutare. Dall’interno della sua stessa maggioranza nel Pd, del resto, continuano ad arrivargli inviti alla riflessione (sabato lo hanno fatto Fassino e Chiamparino, che di Renzi non sono certo nemici).
E l’interrogativo di fondo - rilanciato già subito dopo la sconfitta di Torino proprio dal Piemonte - sembra esser ormai chiaro: perché, a differenza di quel che accadeva ancora due anni fa, il Pd a «trazione renziana» non raccoglie più quella spinta al cambiamento che pare esser diventata prerogativa esclusiva del Movimento Cinque Stelle?
L’interrogativo ha diverse risposte possibili, ma risulta comunque ostico per Matteo Renzi la cui giovane leadership sembrava la più indicata per arginare il fenomeno-Grillo. Cosa non ha funzionato? Dove si è sbagliato? E basta consolarsi con l’affermazione che oggi «le leadership invecchiano presto»? Gli avversari del premier ne dubitano e segnalano diversi errori.
Quello capitale, in fondo, è così riassumibile: come è stato pensabile tentare di prosciugare i consensi dei «grillini» stipulando prima il patto del Nazareno con Berlusconi e poi un’alleanza con Verdini? Insomma, molte delle difficoltà di oggi - accusano i nemici del premier - sono frutto di scelte politiche sbagliate compiute ieri. Renzi non ne è certo, ma ascolta e riflette: non escludendo, magari, di correggere qualcosa. Cominciando dai toni, certo. Che può sembrare poco: ma invece non lo è affatto, considerato il profilo caratteriale del premier.
La Stampa 11.7.16
Senato, il voto sugli enti locali banco di prova per Renzi
Per approvare il decreto mercoledì in aula serve la maggioranza assoluta Ncd rassicura ma il Pd teme: stop alle missioni, nessuno deve assentarsi
di Alessandro Di Matteo
La situazione, per ora, sembra tornata sotto controllo, Matteo Renzi è convinto di aver superato le turbolenze del dopo-amministrative, ma bisognerà aspettare il test di mercoledì in Senato per capire se davvero il governo è in grado di tenere almeno fino al referendum. Dovrebbe essere rientrata la minaccia di una decina di senatori centristi di sfilarsi dalla maggioranza, il premier ha avuto rassicurazioni da Angelino Alfano, ma la certezza la avrà solo tra due giorni, quando a palazzo Madama si voterà il disegno di legge che riforma il bilancio degli enti locali. E al leader Pd, raccontano, non dispiacerebbe uscirne con una prova di forza, ovvero dimostrando di avere i numeri anche senza i verdiniani di Ala.
Per approvare il provvedimento, infatti, serve la maggioranza assoluta dei componenti del Senato, perché così vuole l’articolo 81 della Costituzione, quello che parla del bilancio dello Stato e che fissa i criteri guida da seguire in materia di conti pubblici. Su questi temi delicati, è il dettato della Costituzione, non basta la maggioranza dei presenti in aula, è necessaria «maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera», che al Senato è a quota 161. Un’occasione ghiotta per chi vuole sparare qualche colpo di avvertimento al governo e preparare il terreno ad un dopo-Renzi in caso di vittoria del no al referendum.
La maggioranza, in teoria, può contare su 182 voti (sommando Pd, Ap, il gruppo delle Autonomie e anche Ala) ma la scorsa settimana era stato il senatore di Ap Giuseppe Esposito, vicino al capogruppo Renato Schifani, a minacciare la crisi e anche Ala ha fatto sapere di non volere «fare da stampella», senza contare i malumori della minoranza Pd. Tra i centristi, infatti, in particolare, da tempo cova l’insofferenza a causa del rischio di restare fuori dal prossimo Parlamento, perché la nuova legge elettorale voluta da Renzi, l’Italicum, rende molto difficile la vita ai piccoli partiti. Situazione resa ancor più delicata dalle intercettazioni dell’inchiesta Labirinto nelle quali uno degli indagati, tra l’altro, dice che sarebbe merito suo l’assunzione alle Poste di Alessandro Alfano, fratello del ministro dell’Interno.
Renzi, da un lato, ha fatto capire che non tollererebbe un’azione di logoramento e che potrebbe prendere atto di un incidente parlamentare chiedendo di andare al voto già in autunno. Dall’altro, però ha provato a rassicurare: mercoledì scorso ha incontrato Alfano garantendogli il proprio sostegno. Inoltre, dopo aver parlato con il presidente Sergio Mattarella, il leader Pd ha deciso di rendere ancora più esplicite le aperture sulla legge elettorale, che potrebbe essere ritoccata ripristinando il premio alla coalizione, anziché alla lista, dando respiro ai piccoli partiti.
Mosse che hanno spinto Ap a far rientrare le proprie minacce. Il punto, spiega un senatore Pd, «è che lì dentro ormai nessuno ha più il controllo». Anche per questo il Pd ha revocato permessi, missioni, vacanze ai propri, nel tentativo appunto di superare quota 161 anche senza Ala.
Corriere 11.7.16
Obiezione di coscienza per le unioni civili
«Non è prevista, si rischiano sanzioni»
ROMA Non c’è obiezione di coscienza per le unioni civili. I Comuni sono dunque tenuti a celebrare le nozze. Così si sostiene in un documento di «Certi Diritti», associazione dei Radicali. Secondo cui, nel nostro ordinamento, non esiste un generico diritto ad astenersi dallo svolgere le proprie mansioni, ma soltanto due casi in cui la rinuncia è concretamente prevista e regolamentata: aborto e sperimentazione animale. «Quindi, chi fa appello a convincimenti personali, quali che siano, per rifiutarsi di svolgere le proprie mansioni al di fuori di queste fattispecie, ne paga le conseguenze, più che altro disciplinari». Del resto, nel regolamento attuativo della legge Cirinnà del 20 maggio 2016, al primo comma dell’articolo 1, si specifica che «al fine di costituire un’unione civile, due persone maggiorenni dello stesso sesso fanno congiuntamente richiesta all’ufficiale dello stato civile del Comune di loro scelta» che immediatamente la deve verbalizzare. Dunque non solo il celebrante non deve essere per forza il sindaco che, nel caso, può sempre delegare il compito al funzionario del Comune. Ma in fondo al testo il legislatore ha anche ritenuto di precisare che «è fatto obbligo a chiunque spetti di osservare e fare osservare il presento decreto». Il che non lascerebbe spazio, secondo le conclusioni del documento, a nessuna forma di obiezione di coscienza.
Repubblica 11.7.16
Intesa ministero-sindacati, cambia il reclutamento
Prof scelti in base al curriculum, non per l’anzianità
Si sale in cattedra per competenza la rivoluzione che divide la scuola
di Corrado Zunino
ROMA. Dopo un anno e mezzo di scontri alternati a indifferenze, il ministero dell’Istruzione e i sindacati principali della scuola italiana hanno siglato un accordo. Dai connotati potenzialmente rivoluzionari. Dice: dal 15 settembre prossimo, per gli insegnanti che hanno chiesto di cambiare istituto e per i vincitori del concorso 2016, la sede non sarà più scelta dal docente in base al punteggio accumulato (anzianità), ma dalla singola scuola in base alle sue necessità. E le necessità saranno riassumibili in quattro competenze, rese pubbliche proprio dall’istituto che va a offrire la cattedra.
L’accordo, che è una sigla in attesa dei dettagli, è della notte tra martedì e mercoledì scorsi e appena si è diffusa la notizia attorno alla scuola si è subito scatenato un nuovo dibattito, naturale prosieguo di quello che per due stagioni ha infiammato l’approvazione e poi la realizzazione della Legge 107, “La buona scuola”.
«La mia anzianità di servizio significa una grande esperienza unita ad anni di formazione. Non varrebbe più niente dall’oggi al domani? », chiede un docente. «I quattro criteri possono essere molto discutibili. Per esempio, avere abilitazione Clil nelle lingue non significa essere un buon insegnante. Oltretutto, per averla occorre pagare». C’è chi sostiene poi che la “finestra” di competenze sarà “personalizzabile” dalle scuole, insinuando il dubbio che sarà solo un altro modo per imbarcare prof raccomandati.
Ecco, le quattro competenze. Ogni preside di scuola, su una lista di venti-trenta criteri nazionali decisi dal Miur (a giorni), sceglierà i quattro che servono per offrire la cattedra (o le cattedre) del suo istituto. Quindi, ricevute le risposte alla “chiamata”, il dirigente scolastico sceglierà il docente che può garantire tutte e quattro le competenze. Se questo docente non ci sarà, si offrirà il ruolo a chi potrà offrirne tre. Se due insegnanti saranno a parità di competenze, vincerà — qui sì — chi avrà l’anzianità più alta.
Il 18 luglio, al massimo il 20, il Miur metterà sul proprio sito il modulo che gli insegnanti interessati dovranno compilare segnalando le proprie specificità: conoscenza certificata delle lingue, per esempio, esperienza in scuole periferiche, specializzazione sul sostegno, padronanza di didattiche alternative. Quindi, il Miur spiegherà in maniera pubblica quali sono le “caratteristiche nazionali” richieste, il cestino di venti-trenta competenze valide per tutti, e la singola scuola con cattedre a disposizione indicherà sul proprio sito le caratteristiche richieste per ogni ruolo. Il docente presente nell’ambito territoriale di quella scuola invierà il proprio modulo, se riterrà di avere quelle caratteristiche. Tutto questo, per il primo anno, riguarderà 80-100 mila docenti. E andrà chiuso entro il 15 setttembre.
Si temeva la “chiamata diretta” (invenzione di Valentina Aprea, suggeritrice dell’ex ministro Mariastella Gelmini). Questa, al massimo, è una “chiamata per competenze”. La Flc Cgil, timorosa dell’insurrezione dei suoi, smorza la portata dell’accordo: «Titoli e anzianità saranno sempre centrali». Il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone insiste: «È una svolta epocale che cambierà davvero la scuola italiana, gli istituti sceglieranno gli insegnanti non in base all’anzianità, ma per il loro profilo professionale, e per la prima volta non vedranno arrivare i docenti in base a meccanismi burocratici».
La Stampa 11.7.16
La Boschi in cerca di consacrazione da Hillary Clinton
Contatti per partecipare alla Convention democratica
di Maria Corbi
Maria Elena Boschi la front-woman del governo e del renzismo, vicepremier de facto, studia e lavora per accreditarsi ai tavoli internazionali. È stata a Londra a spiegare la sua riforma istituzionale, è volata a Berlino, sarà questa settimana a Bruxelles dove incontrerà, mercoledì, il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans e i commissari Bienkowska e Dombrovskis. Ma sarà un luglio impegnativo sul fronte internazionale per la ministra delle Riforme istituzionali perchè in vista ci sono gli States. Adesso anche Maria Elena Boschi vuole «fa’» l’americana. E sono giorni frenetici di contatti con lo staff della aspirante first president d’America, Hillary Clinton, per essere invitata alla convention democratica che si terrà a Filadelfia dal 24 al 28 luglio prossimo. Obiettivo raggiunto.Ed è un passaggio importante, un upgrading internazionale per la ministra delle Riforme costituzionali, un indizio sulle sue ambizioni, un’aaltro tassello per arrivare alla poltrona del potere a Palazzo Chigi.
Scenari futuri, certo, ma meglio anticipare i tempi, soprattutto se nel tuo circolo magico ci sono guru della comunicazione di stile (e passaporto) made in Usa come Jim Messina, autore della vittoria di Barack su Romney nella corsa alla casa Bianca e da poco assoldato da Renzi per la campagna referendaria. Ma ad allenare la vocazione internazionale della Boschi c’è Giuliano Da Empoli, consigliere politico di Renzi, inventore dell’«Aspen» renziano, il think tank «Volta», con sede a Bruxelles. E questo negli Usa è un viaggio con un significato preciso, ricalca le orme di Matteo Renzi che nel 2012, quando era sindaco di Firenze, partecipò a Charlotte alla convention democratica che vide Obama lanciarsi verso il suo secondo mandato alla Casa Bianca. Renzi era il solo sindaco europeo presente in un panel composto, tra gli altri, da tutti i giovani sindaci dem americani. Prese parte anche ai lavori della Ndi (National Democratic Institute), gestito dall’ex segretario di Stato Madeleine K. Albright e di cui la stessa oggi è chairman e che coordina tutte le attività internazionali e politiche che fanno capo al Democratic Party.
Per Maria Elena e la sua trasferta, Giuliano da Empoli si è speso la sua buona amicizia con Alec Ross, classe 1971, esperto di politiche per l’innovazione tecnologica, figura importante nella campagna presidenziale di Barack Obama nel 2008 e già Senior Advisor della Segretaria di Stato Hillary Clinton. E amico di Renzi che gli ha presentato a Roma il libro Il nostro futuro. Come affrontare il mondo dei prossimi vent’anni. Se Hillary diventasse presidente per lui si aprirebbero le porte della Casa Bianca, anche se interpellato sul tema risponde con un cauto «vedremo». Intanto si applica alla politica italiana e senza sforzi, visto che con l’Italia ha un legame speciale, qui ha studiato, qui ha una parte della famiglia. L’allieva Boschi intanto si prepara con una full immersion di inglese che nel viaggio londinese di aprile, quando a Westminster ha raccontato le riforme italiane, le sono valsi i complimenti dell’ambasciatore e dei suoi interlocutori britannici. Yes, she can.
Corriere 11.7.16
I bambini giocano a contare i topi
L’emergenza rifiuti che soffoca Roma
di Sergio Rizzo
«Questo jelo mannamo all’Ama, così vede lo schifo. Vojo vede’, poi...» dice il ragazzino, e l’altro lo incita: «Fai er video, prendili bene!». Avranno dieci, forse dodici anni e già conoscono perfettamente il terreno di gioco e i giocatori. Il campo dove a Tor Bella Monaca si disputa la partita fra l’amministrazione comunale di Roma e uno dei quartieri simbolo del degrado urbano sono i cassonetti traboccanti di spazzatura: l’avversario è l’Ama, ovvero l’Azienda municipale ambiente. Il bello è che sanno pure come combatterla la guerra dei topi che infestano le loro strade. L’arma letale è il social network, dove il video diffuso dal sito La Fiera dell’Est e pubblicato dal Corriere.tv diventerà virale. «Rega’, questo è ‘n video clamoroso. Mettelo su Facebook e taggame» fa uno del gruppo. E quello vicino: «Pure a me, taggame...». In tutto questo gli attori, cioè i topi che sciamano intorno al cassonetto, sembra che facciano di tutto per farsi riprendere, tanto sono sfrontati. C’è n’è uno che va avanti e indietro: potrebbe fare il protagonista in Ratatouille 2, ma con ratti veri, e qui a Tor Bella Monaca gli attori non mancherebbero di certo. «Eccolo!!!», esclamano in coro i ragazzini. Mentre uno tiene il conto: «Ventuno, ventidue, ventitré, ventiquattro!» .
Più che l’Ama, che in certe situazioni è davvero come sparare sulla Croce rossa, quei due minuti di video dovrebbero mettere in allarme Virginia Raggi. I ragazzini di Tor Bella Monaca combattono con le stesse armi del Movimento 5 stelle, che ad ascoltare le statistiche ha vinto le elezioni comunali a Roma anche grazie ai loro genitori. E per come sono ridotte le periferie romane, a ritrovarsi improvvisamente dall’altro lato della barricata rispetto a chi appena prima ti ha sommerso di consensi ci vuole un attimo. L’ha sperimentato la sinistra, capace di dissipare ripetutamente un patrimonio elettorale enorme, consegnandolo nel 2008 alla destra di Gianni Alemanno e otto anni più tardi ai grillini: che al ballottaggio hanno fatto il pieno proprio nei quartieri periferici. Liberati dai malintesi ideologici o dai loro surrogati, delusi perfino dalle vane promesse dei boss di partito locali, gli umori delle periferie sono diventati mutevolissimi. Da questo punto di vista i topi di Tor Bella Monaca, quartiere peraltro incendiato giusto qualche settimana fa da una rivolta contro la spazzatura, dicono che il cambiamento di rotta dev’essere immediato e a nessuno è più concesso sbagliare.
A Roma, come in tutte le altre grandi città, i topi ci sono sempre stati. Di regola sono più numerosi degli abitanti, anche se il rapporto romano di tre ratti per residente non sembra molto tranquillizzante. Però di solito i topi non circolano per le vie, tanto meno in pieno giorno come accade qui. Non più tardi di un mese fa uno di loro, enorme, è stato investito da una macchina a via Po, uno sputo da via Veneto, mentre attraversava la strada. E si potrebbe ricordare come all’inizio di marzo la biglietteria dei Fori imperiali, uno dei siti archeologici più visitati del mondo, fosse rimasta chiusa a causa del rinvenimento di un roditore morto nello spazio sovrastante uno sportello aperto al pubblico.
Ma se le battaglie contro i topi nella capitale d’Italia vengono regolarmente perse, la causa non può essere ridotta alla determinazione o all’organizzazione dei ratti. La questione è che ci sono troppe cause favorevoli. C’è il problema dei rifiuti dei ristoranti che stazionano la notte all’aria aperta, e questo riguarda soprattutto il centro storico. C’è poi il problema della raccolta della spazzatura, che interessa più ancora le periferie, e il video di cui abbiamo parlato ne è la testimonianza lampante. Per non parlare della pulizia delle strade. Secondo un‘indagine di Bruxelles, Roma è considerata la capitale più sporca d’Europa con i costi più alti. E qui onestà, capacità e buona volontà degli amministratori dell’Ama possono certamente incidere, ma fino a un certo punto: come del resto in tutte le aziende municipalizzate, la cui efficienza risulta da troppi anni condizionata da un intreccio melmoso fra interessi affaristici, politici e sindacali. Vale per la guerra contro i topi e vale per i guasti degli autobus dell’Atac: 860 in un solo giorno, quello di maggiore tensione fra il sindacato e il direttore generale nominato dall’ex commissario Francesco Paolo Tronca. È chiaro che tocca alla politica spezzare questo intreccio: ma ci vuole il coraggio che finora nessuno ha avuto. Per quieto vivere o, peggio ancora, per un subdolo e miope tornaconto elettorale.
La soluzione è solo questa. A meno che per vincere la battaglia contro i topi non si voglia puntare sul sistema più antico del mondo. Ovvero, i gatti. Un tempo nel bilancio comunale c’era anche un apposito stanziamento per l’acquisto delle frattaglie destinate ad alimentarli. Alcuni comitati di cittadini hanno già proposto di ripopolare la città con le colonie feline decimate dalle sterilizzazioni di massa decise dal Comune. Mentre un presunto candidato sindaco avrebbe voluto scatenare l’offensiva di mezzo milione (mezzo milione!) di feroci gatti asiatici. Anche se fra Razzi e Raggi, per il momento, godono solo i Ratti.
Corriere 11.7.16
«Entrano anche in camera da letto, ma nessuno fa nulla»
La mamma di una delle bimbe autrici del video: «Siamo terrorizzati, rischiamo di essere assaliti»
di Rinaldo Frignani
ROMA «Siamo terrorizzati all’idea di aprire i secchioni dell’immondizia. Preferiamo fare il giro del quartiere e cercare quelli già spalancati. Perché? Perché altrimenti rischiamo di essere assaliti da venti-trenta topi...». Federica Roselli abita a Tor Bella Monaca. La figlia, insieme con altri ragazzini fra gli 8 e i 12 anni, ha filmato con il telefonino e postato sulla pagina Facebook del giornale «La Fiera dell’Est» (che si occupa della periferia est della Capitale) il video della conta di ben 25 roditori in fuga da una fila di cassonetti di largo Ferruccio Mengaroni, vicino un parco giochi e un centro sportivo. Il filmino è ormai virale. «È un’indecenza, purtroppo viviamo così — accusa Federica —. Di sera è impensabile avvicinarsi ai secchioni. Di giorno lo facciamo solo dopo che Ama li ha svuotati: un vicino incastra una cassetta di legno per tenere aperto lo sportello e allora ci facciamo coraggio e buttiamo i sacchetti dell’umido». Al comprensorio R8 tutto è cominciato con l’umido. «I topi ci sono sempre stati, c’è la pineta, ma non così tanti. In due anni si sono moltiplicati, ci sono le tane accanto ai cassonetti», spiega la giovane mamma che aggiunge: «Di solito vieto a mia figlia di passare di lì quando torna dalla piscina, ma venerdì c’era tutta la sua comitiva e così quando hanno visto i topi si sono fermati a riprenderli».
L’R8 di largo Mengaroni 11 è ormai in ostaggio dei roditori. Un’emergenza legata a quella dei rifiuti che dall’inizio di giugno, in altre strade del quartiere, ha già provocato proteste, anche violente, con cassonetti incendiati e con pompieri e netturbini costretti a intervenire con la scorta della polizia. «Qui ancora non è successo, anche se qualche secchione l’hanno bruciato proprio per uccidere i topi — afferma Federica —. Arrivano dappertutto, anche al quarto piano. Salgono dal vano ascensore. Li vedo muoversi sui davanzali, entrare nelle camere da letto dei vicini. Nessuno viene a fare la derattizzazione, nessuno pota gli alberi, nessuno combatte le zanzare. È tutto abbandonato. Da ottobre i contatori dell’acqua perdono, si formano pozze dove i topi si fermano a bere. Ho reclamato più volte ma sapete cosa mi hanno risposto? Non si preoccupi, tanto l’acqua mica la paga».
La Stampa 11.7.16
“I politici passano, i dirigenti no”
Le metastasi della Regione Calabria
In Regione illegalità e spese senza controlli nonostante denunce e inchieste
di Gaetano Mazzuca
«I presidenti parlano e passano, i dirigenti restano», dicono i dipendenti della Regione Ca
labria.
Lo ripetono come un mantra per tenere ben a mente le gerarchie e orientarsi in quella torre di babele che è la Cittadella regionale. La politica è confinata al dodicesimo piano, tutto il resto è area riservata ai colletti bianchi. Per il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri sono loro il nuovo centro di potere: «Prima ancora della politica e della ’ndrangheta, il problema della Calabria sono i quadri della pubblica amministrazione». Nella regione dove su cento lavoratori 65 hanno un impiego pubblico e circa la metà delle imprese ha come primo cliente la pubblica amministrazione, un imprenditore deve attendere 5 mesi per ottenere il pagamento di una fattura, il doppio della media italiana. È qui che per usare le parole di Gratteri «si gestisce la cosa pubblica con metodo mafioso».
Crollo per lentezza
Questa estate i turisti in vacanza a Fuscaldo, località di mare in provincia di Cosenza, non potranno concedersi una passeggiata sul lungomare, semplicemente perché non c’è più. L’ultima mareggiata lo ha sbriciolato. Un evento decisamente prevedibile. Tanto è vero che tre anni fa era stato presentato alla Regione un progetto per la sua messa in sicurezza. Sono partite consulenze ed è stato subito realizzato un bel masterplan con un progetto definitivo, ma i lavori non sono mai partiti. Tutto bloccato, manca il visto sulla valutazione di impatto ambientale. Mentre a Fuscaldo il mare ormai bussa alle case, in Regione la discrezionalità sembra essere la regola. Per metterci un freno l’anticorruzione ha dovuto inviare una circolare per precisare una cosa ovvia: i pagamenti devono seguire un ordine cronologico, prima le pratiche più datate poi quelle recenti. Nonostante l’appello i dirigenti continuano a decidere chi e quando pagare.
Benvenuti nella giungla
«L’apparato amministrativo della giunta regionale è una giungla, anzi un muro di gomma». L’affondo del capo della Protezione civile calabrese Carlo Tansi è durissimo. Geologo del Cnr, da meno di un anno è stato nominato dal presidente Mario Oliverio: «Ho trovato una illegalità diffusa, c’è una commistione tra alcuni dirigenti e ben individuabili imprenditori». Insomma la torta andrebbe a finire sempre nelle stesse mani o almeno «così è stato fino adesso». Tansi scende nello specifico: «Succede per esempio che il bando per acquistare mezzi fondamentali per la pulizia dei letti dei fiumi sta fermo per mesi e invece la gara per le divise degli operai si affida subito e va immediatamente in pagamento». Tutto quello che ha scoperto Tansi l’ha portato all’attenzione della guardia di finanza. Nell’elenco c’è di tutto, oltre 28 milioni di euro per le alluvioni nel Vibonese spesi senza uno straccio di rendicontazione, antenne radar pagate fior di milioni e abbandonate in un magazzino, e poi ci sono le jeep. Poche settimane fa, infatti, una pratica monstre è stata stoppata appena un attimo prima della firma del governatore. Il direttore generale al ramo aveva approvato l’acquisto di 220 pick up che la Regione avrebbe dovuto pagare ben 85 mila euro cadauno.
Imprenditori vittime
Ancora più deciso l’ex presidente della Confindustria, Pippo Callipo: «Taglieggiano gli imprenditori molte volte costringendoli a chiudere». Parla per esperienza personale, del suo personale calvario se ne sta occupando il tribunale di Catanzaro: «Quando ho iniziato a denunciare questo stato di cose sono stato vittima di una serie di controlli e ispezioni. Mi volevano far tacere, ma non ce l’hanno fatta, io sono un uomo libero». La proposta di Callipo adesso è «di istituire un numero verde della Procura per favorire le denunce di cittadini e imprenditori vessati». In attesa del fil rouge con il procuratore Nicola Gratteri qualcuno ha pensato di risolvere il problema in modo più originale: un imprenditore agricolo esasperato dai ritardi ha atteso il dirigente del dipartimento nel parcheggio e gli ha rovesciato addosso un secchio di letame. Un altro con interessi nel fotovoltaico invece si è affidato alla politica. Dal dirigente «lumaca» ha mandato l’allora assessore Domenico Tallini che ha pensato di convincere il funzionario non solo con le parole: ora deve rispondere di violenza privata.
Potere permanente
Ma nonostante critiche, denunce e botte la gran parte dei dirigenti resta sulla sua poltrona, e non solo. È il caso di Domenico Pallaria, sindaco di Curinga, entrato come consulente in Regione negli Anni Novanta, ha superato spoils system e mutamenti politici, ora è direttore generale per Ambiente, Lavori Pubblici, Urbanistica e Trasporti. Ma il super dg è anche responsabile del procedimento per alcuni dei più importanti appalti calabresi: la metro di Cosenza, i quattro nuovi ospedali (Sibari, Palmi, Catanzaro e Vibo) e il nuovo sistema depurativo. Un record che il Movimento 5 stelle ha segnalato all’autorità anti corruzione. Non è il solo a cumulare più cariche. Carmelo Barbaro è dg dell’Audit, l’organo che controlla la spesa dei fondi comunitari. Ma da alcuni mesi è anche commissario della fondazione Calabria etica che lavora proprio con i finanziamenti europei. Insomma, controlla se stesso.
Comunque promossi
Eppure a guardare il decreto 5416 del 12 maggio scorso i dirigenti calabresi sono fra i più efficienti d’Italia: hanno tutti ottenuto l’indennità di risultato. Un bonus da un milione e mezzo di euro. Tutti promossi a pieni voti anche quelli che in Regione non ci potrebbero proprio stare. Il consiglio di Stato con la sentenza 4139 del 21 aprile 2015 ha annullato la promozione a funzionari di 985 dipendenti regionali. Uno tsunami che sembrava dovesse travolgere la struttura burocratica. A distanza di nove mesi nulla è cambiato. Nessuno stupore «tutto passa, i dirigenti restano».
La Stampa 11.7.16
Così funziona il mercato nero dei trapianti
Al mercato nero 250 mila dollari per un rene
I grandi affari dei mercanti di organi
Dall’America Latina all’Europa dell’Est le rotte del commercio illegale dei trapianti In Cina mutilati i condannati a morte, amputazioni tra i migranti del Mediterraneo
di Antonio Maria Costa
Non c’è maggiore generosità. Un benefattore dona un proprio organo a qualcuno la cui sopravvivenza dipende dal suo trapianto.
Un altro samaritano autorizza nel testamento l’espianto di una parte del proprio corpo, post-mortem.
Gesti ripetuti nel mondo migliaia di volte l’anno: generosi, ma non sufficientemente frequenti. L’organizzazione Onu per la salute (Oms) stima che in Europa, Usa e Cina si trapiantino annualmente circa 20 mila organi, con una spesa aggregata di 1 miliardo di dollari l’anno in ciascuna regione (3500 trapianti in Italia nel 2015). Eppure le liste di attesa attestano una richiesta aggregata di 100 mila organi. In media, il fabbisogno è 5-8 volte superiore alla disponibilità.
Con la maggioranza della domanda di organi insoddisfatta, le opportunità di arricchimento, per chi non teme sanzione terrena né celeste, sono illimitate. L’umanità è trasformata in un immenso giacimento di tessuti organici, dal quale si estraggono reni, cornee, fegato, pancreas e, persino cuore e polmoni – offerti a prezzi esorbitanti, che riflettono l’ansia di pazienti disposti a pagare qualsiasi ammontare pur di avere l’innesto necessario alla sopravvivenza.
A sfruttare la miniera umana ci pensa la mafia internazionale, assistita da agenzie di viaggio, società di trasporto ed enti sanitari. Pur di lucrare sulla disgraziata necessità di malati ricchi, professionisti in camice bianco (chirurghi, anestesisti e urologi) non esitano a causare la diminuzione permanente nella condizione fisica del donatore – inevitabilmente povero e spesso involontario. I guadagni ammontano a 15-20 volte il capitale investito. All’espianto un organo vale 5-10 mila dollari. Il suo prezzo al trapianto raggiunge i 70-100 mila dollari, fino a 250 mila, a seconda dell’organo e soprattutto della lunghezza della lista di attesa.
Il terzo protocollo Onu contro la criminalità organizzata (la convenzione di Palermo), sanziona le origini criminali degli organi immessi sul mercato: movimenti migratori rendono i soggetti vulnerabili ad amputazioni forzate (i casi scoperti nel Mediterraneo); violenza su manodopera coatta per indurla a donare una parte del corpo; cessione contrattuale di un organo mai remunerata (in Africa); espianto forzato a degenti in ospedale per altra terapia (America Latina). Notorio è poi il commercio di organi asportati da avversari politici spariti nel nulla, da prigionieri di guerra appositamente assassinati (nei Balcani), e da cadaveri di condannati a morte (in Asia). Quando l’espianto è volontario, le vittime sono generalmente giovani, indigenti e inconsapevoli dei rischi: riduzione permanente dell’attività fisica a seguito dell’amputazione, inadeguata cura post-chirurgica, e condizioni psico-fisiche degradate fino alla morte.
Annunci online
La Convenzione del Consiglio d’Europa in materia (2014), protegge il sacrosanto diritto al trapianto eseguito rispettando le procedure. Eppure internet, che pubblicizza disponibilità, ubicazione e prezzi, mostra la globalità del contrabbando di organi. Informazioni desunte da Lexis/Nexis, MedLine e PubMed, oltre che da comuni motori di ricerca mostrano 2000 innesti illegali di reni in Pakistan negli ultimi anni, 3000 nelle Filippine, 500 in Egitto e diverse centinaia, recentemente, in Moldavia.
L’industria del trapianto consiste in una catena logistica dove l’efficienza nel raccordo tra donatore e recettore, sono fondamentali. Le opzioni sono tre: il donatore raggiunge il malato; oppure quest’ultimo e i suoi medici viaggiano per incontrare il donatore; oppure l’organo è trasportato tra i due. Problemi di frontiera (visti d’ingresso) ostacolano la prima opzione: i donatori dal terzo mondo hanno difficoltà nel raggiungere i malati nei paesi ricchi. Il terzo caso è più frequente ora, grazie alla migliore farmacologia anti-rigetto. La seconda opzione, nota come turismo del trapianto, coinvolge il malato e i suoi professionisti: l’intera squadra raggiunge il donatore, complici autorità corrotte, al fine di ridurre il rischio di deterioramento dei tessuti nel trasporto.
I profitti nelle cliniche
In Kosovo, il cui primo ministro è accusato di omicidi di prigionieri serbi a scopo di trapianto, diversi medici sono stati identificati per innesti illegali da vittime russe e moldave. In Sudafrica centinaia di trapianti illegali su ricchi occidentali hanno accumulato un profitto milionario in cliniche locali. In Usa recenti indagini hanno identificato 110 trapianti su cittadini americani, eseguiti in 18 paesi esteri.
Susumu Shimazono, il maggiore esperto in materia, stima che il 10% dei trapianti effettuati nel mondo comportano organi trafficati, con il coinvolgimento di malati di oltre 100 nazionalità: 700 dall’Arabia Saudita, 450 da Taiwan, 131 in Malesia, migliaia da Australia e Giappone. Pur se orrende, queste sono probabilmente una sottovalutazione: qualche anno addietro, nella sola Cina sono stati fatti 11 mila espianti da cadaveri di condannati a morte (molteplici asportazioni dallo stesso corpo sono comuni).
I Principi Guida dell’Oms sanciscono che «il corpo umano, e ogni parte di esso, non possono essere fonte di lucro». In ossequio, i paesi non sanzionano né donatori, che perdono parte del corpo, né recettori, per lo più inconsapevoli dell’approvvigionamento clandestino dell’organo. Il destinatario delle sanzioni è l’intermediario criminale che, con inganno o violenza, mercifica il corpo umano. I trafficanti di migranti nel Mediterraneo sono tra essi.
La Stampa 11.7.16
A Dixon Circle con le ronde delle nuove Pantere Nere
Nel quartiere più afroamericano di Dallas le pattuglie dei vigilantes armati contro i poliziotti bianchi
Le ronde sono composte da donne e uomini che pattugliano le comunità imbracciando fucili d’assalto AR-15 e AK-47
di Valeria Robecco
I binari arrugginiti della ferrovia al di là dell’Interstate 30 attraversano un tratto di terra costellato da erbacce e casupole a perdita d’occhio. Questo vecchio binario è lo spartiacque non solo geografico, ma anche sociale, tra la Dallas opulenta dei petrolieri e quella del degrado. Siamo a Dixon Circle, quartiere ghetto di South Dallas, dove si trova la più alta concentrazione di afroamericani del nord del Texas. È questo l’epicentro dell’estremismo nero armato, dove l’Huey P. Newtown Gun Club porta avanti pattugliamenti per contrastare i soprusi delle forze dell’ordine e impedire gli abusi di potere nei confronti delle persone di colore. Qui il gruppo, uno dei più oltranzisti nel macrocosmo delle formazioni paramilitari dell’orgoglio nero, tiene anche il suo addestramento settimanale, lezioni di lotta armata e autodifesa cadenzate dal grido di battaglia: «Basta maiali nella nostra comunità». I «maiali in divisa», per loro, sono i poliziotti.
Ci avviciniamo al sobborgo definito da una lunga fila di case semi-diroccate e ci addentriamo su Barber Avenue, dove un’anziana coppia cerca ristoro dall’afa con un ventilatore a pale sistemato in veranda. Davanti a una piccola abitazione circondata interamente da inferriate e cancelli, invece, incontriamo un uomo di origine afroispanica. È disabile e ci racconta che per questo non riesce a trovare lavoro, vive nel quartiere da 41 anni e ha due figli che se ne sono andati tanto tempo fa, di cui non sa più nulla. «Le ronde? Sono lì - dice - poco più avanti, su Dixon Avenue». Lo raggiunge la nipote Maria, che ci avverte: «State attenti a girare in questa zona, qui la gente non ha voglia di parlare, e neppure di essere guardata».
Appena imbocchiamo Dixon Avenue vediamo due neri appoggiati a un’auto davanti al minimarket dall’insegna semidistrutta La Marketa Grocery, notiamo un passaggio di mani, e che non gradiscono la nostra presenza. Poco più in là invece c’è il Dixon Grocery, oggi abbandonato, davanti al quale nel 2012 un giovane nero è morto per mano di un agente bianco: si chiamava James Harper, un 31enne con un passato violento, aggressioni, furti, e spacci di droga. Li centinaia di abitanti inferociti si sono dati appuntamento dopo «la sua esecuzione», e a quattro anni di distanza si respira ancora lo stesso clima pesante. Questo intreccio di vie è il Ground Zero delle ronde armate dei vigilantes neri, donne e uomini che pattugliano le comunità imbracciando fucili d’assalto AR-15 e AK-47. Le chiamano «Open Carry Walks», perché in Texas si può girare armati fino ai denti, purché le armi siano in vista. Il Gun Club prende il suo nome dal fondatore del Black Panther Party, Huey P. Newton, ed è stato creato nell’agosto del 2014 sulla scia dell’uccisione di Michael Brown, afroamericano disarmato freddato a Ferguson, Missouri, per mano di un agente bianco. È da quel momento che sono ripresi i pattugliamenti, gli stessi a cui hanno dato il via nel 1966 le vecchie Pantere Nere, il gruppo nato a Oakland, California, per rispondere con la violenza alle «violenze razziste» di una certa polizia. Ciò che è accaduto giovedì sera a Dallas, quando Micah Xavier Johnson ha ucciso cinque poliziotti, ha la sua genesi in questi nuovi gruppi paramilitari, una genesi antica come l’odio razziale radicato nella storia della società Usa. E se anche in una città come Dallas, dove il capo della polizia è David Brown - afroamericano cresciuto a South Oak Cliff, quartiere «black» e piazza di spaccio privilegiata di crack e cocaina - non si riescono ad arginare le divisioni tra comunità nera e forze dell’ordine, sono in molti a non meravigliarsi se prendono piede soluzioni radicali come quella proposta dall’Huey P. Newton Gun Club. Il minimo comune denominatore a Dixon Circle è l’odio, odio per tutto ciò che non è nero, obiettivo privilegiato i bianchi in divisa. Di certo non l’unico filo conduttore di questo quartiere ai margini: «Barack Obama? Una vera delusione - spiega una donna che si affaccia da una delle case meno degradate della zona -. Il cambiamento di cui parlava non è mai avvenuto». Paradosso storico nell’era del primo Presidente afroamericano degli Stati Uniti, che viene accusato proprio dai neri d’America di non aver fatto abbastanza per loro.
Repubblica 11.7.16
Nel ghetto della città in fiamme dove tutto ha avuto inizio “Ci addestriamo alla guerra”
Tra le gang in marcia e i fedeli raccolti in preghiera. Con un pensiero costante: “Le prime vittime qui siamo noi afroamericani”
di Alberto Flores d’Arcais
DALLAS. «Meglio che ve ne andiate, chiudete bene le portiere e non fermatevi. Da queste parti è pericoloso». Queste parti sono le strade intorno a Dixon Circle, ghetto nero della South Dallas dove la classica ferrovia divide l’area «per bene» da quella dei «senza legge», dove la polizia non mette (quasi) mai piede. La donna che parla non abita qui («sono venuta per vedere come sta mio zio, qui l’unica speranza è andarsene») e ha una gran fretta. Lui, lo zio, pelle nera e forte accento ispanico di parlare invece ne ha voglia e da qui non se ne andrà mai. «Le gang stanno lì oltre quel fossato, marciano avanti e indietro nella strada principale, qui non vengono, noi ci facciamo gli affari nostri, siamo tranquilli».
Non sembra molto convinto di quanto sta dicendo, fermo davanti alla sua casa su Barber Street, ridotta piuttosto male ma con una tripla inferriata a scoraggiare i poco di buono. «Sono disabile, vivo nel quartiere da 41 anni e il governo se ne è sempre fregato di noi. Che devo pensare? Non è bello quello che è successo, certo che non si devono ammazzare i poliziotti, ma a noi chi ci difende? Per loro non siamo neanche esseri umani». Sopravvive con pochi spiccioli, ha due figli: «Li avevo, in realtà non ho idea di dove siano finiti. Da qui se ne sono andati e hanno fatto bene, chi cresce nel quartiere non ha alcuna speranza. Io ci sono cresciuto e ci resto».
Quelle che lui chiama gang sono giovani uomini e qualche donna, la fedele “milizia” di Charles Goodson, 31 anni, treccine rasta, sguardo truce e rabbia da vendere, che una volta alla settimana li guida, tute mimetiche e armati come piccoli Rambo, per «addestrarsi alla guerra», nel vicino Martin Luther King Jr. Park, raro pezzo di verde pubblico. Oggi non si fanno vedere, davanti a quello che è una sorta di loro quartier generale — la Marketa Grocery su Dixon Avenue — ci sono solo un paio di afroamericani che sembrano intenti a uno scambio soldi per droga e non hanno alcuna voglia di essere osservati.
Accanto c’è quel che rimane di un altro piccolo market abbandonato, solo un isolato di distanza da dove nel 2012 il ragazzo nero James Harper venne ucciso con tre colpi di pistola da un poliziotto bianco. A South Dallas ha avuto tutto inizio allora. Dopo la morte di Harper ci furono proteste, qualche incidente, poi una sorta di armistizio per cui la polizia doveva girare alla larga. Il salto di qualità arriva nell’estate del 2014, i giorni delle tensioni razziali seguite all’uccisione di Michael Brown a Ferguson e di Eric Garner a Staten Island. Fu allora che Charles Goodson e il suo compare Darren X (che si auto-definisce pomposamente «maresciallo del New Black Panther») hanno organizzato il Huey P. Newton Gun Club e le marce provocatorie, imbracciando fucili d’assalto e AR-15, per le strade della metropoli texana. Dove comprare queste armi è facile quasi quanto fare la spesa alimentare.
Dixon Circle come Arlington, altra area ad alta tensione. Qui tra Dallas e Fort Worth, vicino alla stadio dei Dallas Cowboys, le cose sono ancora più complicate. Ci sono intere zone dove le gang spadroneggiano e dettano legge, ma non solo quelle che si richiamano al Black Power. Qui sono molto organizzati anche i gruppi “ariani”, suprematisti bianchi che esultano a ogni nero ucciso dalla polizia, sognano un ritorno ai “bei tempi” dei linciaggi e di quando i neri non avevano diritti civili. È da Arlington che circa un anno fa sono calati su South Dallas manipoli di “patrioti” che volevano attaccare una moschea di neri (gestita dal Black Islam), quando due gruppi armati — bianchi da una parte, neri dall’altra — hanno dato una dimostrazione palese di come una guerra civile (e razziale) “virtuale” possa diventare reale in un futuro non troppo lontano.
La domenica è giorno di riposo e di preghiera e nelle chiese di Dallas, a maggioranza protestante, la strage dei poliziotti di giovedì scorso tiene inevitabilmente banco. Con distinguo e differenze. La First Baptist si trova al 1707 di San Jacinto, parte nobile di downtown, in mezzo a ristoranti, banche e case di buona borghesia. «La nostra missione è trasformare il mondo con la parola di Dio, la nostra eredità arriva dalla Bibbia», ripetono quasi a slogan i fedeli. Alle 9 e 15 di mattina sono pochi i banchi liberi, il pubblico è composto quasi solo di bianchi, molti hanno appuntata sul petto la scritta “Back the Blue”, appoggiamo la polizia. Più che una celebrazione religiosa sembra un grande happening, danze e concerti, con un gruppo di sedici ballerini-cantanti (tutti rigorosamente bianchi, maschi e femmine) che vengono applauditi a lungo. La parte “politica” è affidata a Robert Jeffress, giacca scura, cravatta e fazzoletto blu, reduce da un’intervista con Fox News. Il suo non è soltanto un invito a pregare per i poliziotti morti, ci sono anche le accuse ai «sedicenti ministri», i religiosi delle altre chiese di Dallas che usano l’altare per fomentare una «inaccettabile violenza».
Non fa nomi, «ma se vuole sentirli vada pure alla Friendship West Baptist», suggerisce un vicino di banco sorridente. La Friendship si trova sulla West Wheatland Road, una quindicina di miglia a sud del centro di Dallas, un grande edificio bianco-crema con tre tetti spioventi color mattone e il motto «cambiare la gente per cambiare il mondo». Qui di facce bianche non se ne vedono, i canti sono più classici, invocazioni e preghiere sono rivolte a tutti. «Preghiamo anche per i poliziotti, ma ricordatevi sempre che le prime vittime siamo noi neri. Vendette? No, cerchiamo solo pace ed uguaglianza». Parole che nella Dallas di oggi sembrano prive di significato.
Corriere 11.7.16
L’uguaglianza, il razzismo, la sfiducia L’America (dopo gli 8 anni di Barack) non è cambiata: una ricerca lo prova
di Marilisa Palumbo
Un’Unione più perfetta. Obama la invocava in uno dei suoi discorsi pubblici più belli, durante le primarie del 2008. Pronunciato dal punto di vista del figlio di un africano del Kenya e di una donna bianca del Kansas, era uno sguardo non ipocrita sulle ferite razziali del Paese. Sembrava che nessuno meglio di lui potesse avvicinare gli sguardi dell’America black e di quella white. E invece. È di pochi giorni prima delle cronache sanguinarie di queste ore un sondaggio del Pew Research Center intitolato «Nelle opinioni sulla razza e sulle disuguaglianze, neri e bianchi vivono in mondi diversi». Per il 43% degli africano americani il Paese non realizzerà mai i cambiamenti necessari all’uguaglianza (opinione condivisa solo dall’11% dei bianchi). Il 58% dei neri ritiene che si dia troppo poca attenzione ai temi razziali; i bianchi al 41% che se ne dia troppa. Il 40% dei neri crede che il razzismo sia «sistemico»; il 70% dei bianchi che sia limitato ai pregiudizi individuali. I rapporti tra le razze vanno male per il 61% dei neri e per il 45% dei bianchi. Colpa di Obama? Per la maggior parte degli americani il presidente ci ha almeno provato, a migliorare le cose. Ma per un tondo 25% le ha peggiorate (e tra i bianchi a pensarlo è il 32%). Per il 34% ci è riuscito (lo pensa il 51% dei neri: riecco la faglia).
Corriere11.7.16
Neri e bianchi in America: da Lincoln a Obama Perché c’è ancora la frattura?
di Massimo Gaggi
Abramo Lincoln che nel 1862 abolì la schiavitù. Le leggi sui diritti civili e sul diritto di voto introdotte da Lyndon Johnson negli anni Sessanta del secolo scorso che avrebbero dovuto porre fine a ogni forma di segregazione razziale, oltre a offrire ai neri pari opportunità nello studio e nell’accesso al lavoro. Di battaglie per l’integrazione della minoranza di colore la democrazia americana ne ha combattute tante, ma difficoltà e resistenze sono sempre state enormi e la ferita della questione razziale non si è mai rimarginata.
La miscela di rapporti tra le diverse comunità del «melting pot» americano è cambiata più volte negli anni, ma ha sempre mantenuto qualche fattore esplosivo: dopo lo schiavismo, la segregazione delle «leggi Jim Crow» di fine Ottocento. Dopo la segregazione, la discriminazione. E poi, ancora, la povertà, il degrado urbano dei quartieri neri e, oggi, l’insofferenza davanti ai controlli di polizia sempre più frequenti e rudi. Ricucire è difficile anche perché, perfino davanti ai migliori tentativi di integrazione, molti afroamericani non riescono a scrollarsi di dosso il risentimento per il peccato originale che ha prodotto questa loro condizione: la deportazione degli avi dall’Africa.
Quanto ai bianchi, anche nei fautori più sinceri dell’integrazione c’è quasi sempre un sentimento di diffidenza o la tendenza a mantenere le distanze. Possiamo liquidarlo con la parola razzismo, ma il termine, in sé, spiega poco: di razzismi ce ne possono essere tanti. Perfino tra neri con molti discendenti dei popoli del Corno d’Africa e del bacino del Nilo che si sentono su un gradino più alto.
C’è il pregiudizio contro i maschi neri che raramente riescono a costruire famiglie stabili e la consapevolezza che - anche se pesano povertà, degrado dei quartieri, scuole disastrate - a finire nel vortice del teppismo e della microcriminalità sono soprattutto i giovani delle minoranze nere e ispaniche. Così quello che per i neri è accanimento degli agenti, per molti bianchi è una prevenzione a volte rude ma utile se si vuole evitare il dilagare del crimine.
Fino a quando gli eccessi degli agenti non provocano rivolte tra i neri e anche nelle coscienze dei bianchi. Le tensioni attuali, iniziate due anni fa dopo l’uccisione di un ragazzo disarmato a Ferguson, fin qui non avevano prodotto incendi paragonabili alle rivolte di Chicago e Tulsa dell’inizio del Novecento (in tutti e due i casi ci furono una quarantina di morti e centinaia di feriti).
E nemmeno con quelle degli anni Sessanta: il decennio delle grandi speranze e delle grandi delusioni. Furono quelli gli anni in cui gli Stati Uniti sembrarono a un passo dall’impresa di rimarginare l’antica ferita: John Kennedy che imposta la riforma dei diritti civili mentre Martin Luther King - siamo nel ‘63 - pronuncia davanti a una folla immensa a Washington il suo celebre discorso: «I have a dream».
Qualche mese dopo Kennedy viene assassinato ma Lyndon Johnson ne completa l’opera: pari diritti alle urne, nelle società, sul posto di lavoro. Nel 1966 viene eletto il primo senatore nero. Nel ‘67 tocca al primo giudice afroamericano della Corte Suprema. E’ anche l’anno di «Indovina chi viene a cena?», l’ironico film con il quale Sidney Lumet cerca di rompere gli steccati sulla questione dei matrimoni misti ormai previsti dalla legge, ma che rimangono ancora un tabù nella società americana.
Ma è anche l’anno della rivolta di Newark, alle porte di New York: 23 morti e 700 feriti dopo che la polizia aveva massacrato un tassista nero. L’anno dopo, il 1968, le speranze d una convivenza più serena vengono ulteriormente scosse dall’assassinio di Martin Luther King e dell’altro Kennedy, Robert, lanciato verso la conquista della Casa Bianca.
Le violenze della polizia hanno prodotto negli anni altre rivolte, comprese le due che hanno insanguinato Los Angeles: quella di Watts del 1965 - sei giorni di guerriglia, 34 morti, 1032 feriti e l’intervento della Guardia Nazionale) e quella del 1992 dopo il caso Rodney King (un altro tassista malmenato dalla polizia). Al limite della guerra civile: quando tornò l’ordine sul campo erano rimasti 50 morti e duemila feriti.
L’America ora teme che qualcosa del genere possa succedere di nuovo e proprio negli ultimi mesi della presidenza Obama. Il Paese ha più anticorpi - una vera classe dirigente nera capace di mitigare le tensioni com’è già avvenuto a Baltimora dopo i primi disordini successivi all’uccisione di un altro ragazzo nero disarmato. O come è avvenuto a Charleston, in South Carolina, dove non si è registrato alcun incidente dopo che un «suprematista» bianco ha fatto strage di neri in una chiesa. Ma i tempi sono per certi versi più difficili, le circostanze più insidiose. Oggi l’America è un Paese in armi: 300 milioni di fucili e pistole su 320 milioni di abitanti. E la diffusione dei video che provano gli abusi e a volte i crimini commessi da alcuni poliziotti, suscitano ondate d’indignazione. Venti difficili da controllare: c’è spazio per chi, come il killer di Dallas, va alla ricerca di micce alle quali dare fuoco.
Nel 1921 i disordini di Tulsa vennero spenti dopo giorni di guerriglia coi neri chiusi in campi d’internamento. Solo ricerche storiografiche recenti hanno dimostrato che quel conflitto fu assai più cruento, con molti neri massacrati anche da civili bianchi che volavano su di loro in aereo lanciando candelotti di dinamite. Cosa sarebbe successo, già allora in America, se il Paese avesse visto le immagini di quei feroci bombardamenti?
La Stampa 11.7.16
Bauman: “La paura e l’odio si nutrono dello stesso cibo”
“Dallas simbolo dell’Occidente senza identità”
“Servono obiettivi sui quali scaricare i nostri timori. Torniamo alla dinamica tra superiore e inferiore”
Il filosofo: la xenofobia in Europa e a Dallas figlie della cronica incertezza
intervista di Francesca Paci
La paura è il demone più sinistro del nostro tempo», ammoniva già anni fa il filosofo polacco Zygmunt Bauman. A guardare il mondo occidentale, che dagli Usa all’acciaccata Europa, pare aver ceduto alle pulsioni più rabbiose quasi si fosse «mediorientalizzato», gli spettri evocati dal teorico della società liquida nonché una tra le menti più acute del pensiero contemporaneo assumono dimensioni epiche.
Dallas ma anche gli episodi xenofobi ripetutisi nel Regno Unito dopo la Brexit e, nell’Italia porto dei migranti, il rifugiato nigeriano ucciso a Fermo. Professor Bauman, stiamo passando dall’età della paura a quella dell’odio?
«Non c’è alcun passaggio dalle paure nate dalla nostra cronica incertezza all’esibizione di odio a Dallas o ai mini pogrom avvenuti dopo la Brexit nelle strade inglesi: sono contemporanei, solo di rado li sperimentiamo separatamente. Paura e odio hanno le stesse origini e si nutrono dello stesso cibo: ricordano i gemelli siamesi condannati a trascorrere tutta la vita in compagnia reciproca: in molti casi non solo sono nati insieme ma possono solo morire insieme. La paura deve per forza cercare, inventare e costruire gli obiettivi su cui scaricare l’odio mentre l’odio ha bisogno della spaventosità dei suoi obiettivi come ragion d’essere: si rimpallano a vicenda, possono sopravvivere solo così».
C’è consequenzialità tra la diffusione dell’«hate speech» (incitamento all’odio) e le nuove tensioni etniche e razziali?
«La loro coincidenza non è casuale ma neppure predeterminata. Come ogni alleanza è una scelta politica. Per quanto stiamo vivendo la scelta è stata dettata dalla simultaneità di due fenomeni. Il primo, individuato dal sociologo tedesco Ulrich Beck, è la stridente discrepanza tra l’essere stati assegnati a una “situazione cosmopolita” in assenza di una “consapevolezza cosmopolita” e senza gli strumenti adatti a gestirla. Il conseguente scontro tra strumenti di controllo politico territorialmente limitati e poteri extraterritoriali incontrollabili e imprevedibili ha prodotto la “deregulation” multi-direzionale delle condizioni di vita e ha saturato le nostre esistenze di paura per il futuro nostro e dei nostri figli. Quella paura era e resta una trinità avvelenata, l’incontro di tre sentimenti ossessionanti, ignoranza, impotenza e umiliazione. I poteri distanti e oscuri che ci condizionano vanno al di là del nostro sguardo e della nostra influenza, così come le nostre paure si muovono tra forze che siamo incapaci di addomesticare o contenere. Se non sappiamo respingere queste forze che minacciano tutto quanto ci è caro, non potremmo almeno tenerle a distanza, interdire loro l’accesso alle nostre case e ai luoghi di lavoro?».
Non potremmo, professore?
«L’afflusso massiccio e senza precedenti di rifugiati è il secondo fenomeno a cui accennavo e ha contribuito a dare a questa domanda una risposta credibile e “di buon senso” seppure falsa e fuorviante, una risposta elevata a rango di dogma da aspiranti politici che vi annusano la chance di un forte sostegno popolare. È balsamo per le anime tormentate: le paure senza sbocco e perciò tossiche non possono riversarsi sulle loro vere cause - forze poderose e così distanti da essere immuni al nostro risentimento - ma possono facilmente e tangibilmente rovesciarsi su chi appare e si comporta da straniero, dagli ambulanti ai mendicanti. Le aggressioni etniche e razziali sono la medicina dei poveri contro la propria miseria. La loro efficacia si misura non dal fatto che risolvano la fragilità della vita ma dal dare temporaneo sollievo al tormento psicologico dell’impotenza e dell’umiliazione».
La paura, certo. Ma non hanno responsabilità anche la diffusione delle armi in Usa, l’inanità europea sui migranti, Internet?
«Queste non sono cause: facilitano, anche molto, le azioni che quelle cause producono. Internet e i “social” possono servire altrettanto efficacemente all’inclusione come all’esclusione, al rispetto e al disprezzo, all’amicizia e all’odio. La responsabilità di scegliere ricade direttamente sulle nostre spalle di navigatori. Possiamo usare lo stesso coltello per tagliare pane o gole: a qualsiasi uso lo destini, chi lo tiene lo vuole affilato. Il web affila gli strumenti ma noi ne scegliamo l’applicazione».
È ancora «sonno della ragione»?
«Come diceva il filosofo tedesco Leo Strauss, ci sono sempre stati e ci saranno sempre degli inattesi cambiamenti di punto di vista che modificano radicalmente il sapere precedente: ogni dottrina, per quanto definitiva sembri, sarà prima o poi soppiantata da un’altra. L’hanno già detto altri, il tribalismo è la risposta al perché le differenze tra gruppi della popolazione siano sempre ridotte a un rapporto inferiore/superiore».
Corriere 11.7.16
Scontri a Berlino, feriti 123 agenti
Circa duemila persone sono scese in strada a Berlino per manifestare contro lo sgombero del «Rigaer 94», una casa occupata nel quartiere orientale di Friedrichshain.
La polizia della capitale tedesca l’ha definita «la manifestazione più violenta degli ultimi cinque anni»: il bilancio, alla fine, è di 123 agenti feriti (per il lancio di pietre e oggetti) e di 86 persone arrestate. Oltre a numerose auto incendiate.
Corriere 11.7.16
Polonia, le critiche oscurate in tv
«Esprimo al presidente Duda la nostra preoccupazione sulla questione Corte costituzionale». Così aveva detto il presidente americano Obama al suo omologo polacco, Andrzej Duda, a margine del vertice Nato di Varsavia. Ma su Telewizja Polska , l’emittente pubblica polacca, il reporter ha spiegato come Obama abbia lodato il percorso di riforme voluto dal partito al potere Diritto e Giustizia del leader Jarosław Kaczynski (foto).
La Stampa 11.7.16
Giappone
Abe vince. Farà le riforme
di Cecilia Attanasio Ghezzi
Abe ha vinto e ora potrà riformare la costituzione. La coalizione al governo in Giappone guidata dal premier Shinzo Abe ha conquistato i due terzi della maggioranza in Senato, numeri che consentiranno una revisione (molto contestata) della Costituzione pacifista. Il partito Liberal democratico, assieme al partito centrista di ispirazione buddhista Komeito che formano l’esecutivo, sono certi di raggiungere almeno 78 dei 121 seggi per il rinnovo della Camera dei consiglieri. L’obiettivo del premier è la modifica dell’articolo 9 della Costituzione giapponese, che non consente il mantenimento di forze armate e vieta qualsiasi coinvolgimento in conflitti militari. Per l’approvazione della riforma occorrerà indire un referendum, ma, secondo gli analisti, il percorso appare meno impervio a causa delle recenti controversie destabilizzanti con la Corea del Nord e le allarmanti dispute territoriali cinesi
Corriere 11.7.16
Giappone, Abe più forte Ora può cambiare la Costituzione pacifista
Economia in stallo, ma il premier aumenta i seggi
Ora si prepara a fronteggiare Cina e Corea del Nord
di Guido Santevecchi
PECHINO Gli elettori giapponesi hanno assegnato un altro successo a Shinzo Abe e nonostante i dubbi sull’esito dell’Abenomics il partito liberaldemocratico del premier e gli alleati del Komeito celebrano una vittoria a valanga alla Camera alta del Parlamento. Abe inseguiva una super-maggioranza dei due terzi dei seggi e con l’appoggio di qualche senatore di altri partiti conservatori dovrebbe averla. Sarebbe la quota «magica» per cambiare anche la Costituzione pacifista e poi sottoporla a referendum. Alle urne è andata poco più della metà dei giapponesi e quindi il risultato è visto come rassegnazione generale alla mancanza di alternative fornita dall’opposizione.
Abe guida il Giappone dalla fine del 2012 e cerca di rivitalizzare la terza economia del mondo, impantanata in stagnazione e deflazione. Durante la campagna ha assicurato che il suo obiettivo è proseguire con la spinta riformista, con l’obiettivo di espandere l’economia dagli attuali 500 trilioni di yen a 600, vale a dire un Pil da 6 mila miliardi di dollari circa. La ge nte ha votato per la continuità .
L’Abenomics, diventata un caso di scuola, è il piano basato su «tre frecce»: politica monetaria radicale, stimolo di bilancio e riforme strutturali. Avversari e scettici sostengono che in realtà Abe ha giocato solo su un enorme piano di «quantitative easing» concordato con la Banca centrale. In un Paese che fa pochi figli e continua a invecchiare lo Stato spende troppo in pensioni e sicurezza sociale e invece ancora una volta, il mese scorso, il premier ha annunciato il rinvio dell’aumento dell’Iva, che servirebbe proprio a riequilibrare il bilancio gravato da un debito pubblico pesantissimo. D’altra parte, alzare l’Iva deprimerebbe i consumi interni. In pratica, dicono i critici, l’unica freccia scoccata da Abe, quella del «quantitative easing» che ha svalutato lo yen, ha aiutato solo i grandi gruppi industriali che esportano di più. Il premier ieri notte ha detto di sentirsi «molto sollevato» e ha promesso di aumentare ancora la spesa pubblica in «modo aggressivo» per disincagliare l’economia dalla secca. Si parla di un altro stimolo da 99 miliardi di dollari in investimenti pubblici.
Ma c’è un altro sogno di Shinzo Abe che suscita paure e polemiche. È un nazionalista convinto e l’opposizione lo accusa di essere ossessionato dall’idea di cancellare la costituzione pacifista del 1947.
Il premier ha cominciato l’anno scorso con una legge che estende il ruolo delle Forze di Difesa all’estero e ha messo a bilancio miliardi di dollari di aumento nelle forniture di armamenti. Ma per riscrivere l’Articolo 9 della Costituzione, che giudica umiliante perché imposto settant’anni fa dagli Stati Uniti, gli serve una super-maggioranza di due terzi in entrambe le camere del Parlamento.
Abe in campagna elettorale si è tenuto alla larga dal tema revisionista e anche ieri sera è stato cauto: «Il popolo ha parlato, ma è presto per dire sì o no, ho altri due anni di mandato, la riforma è un obiettivo che voglio affrontare con calma con la coalizione».
Che farà allora il leader giapponese? I suoi alleati del Komeito, partito di ispirazione buddhista, non sono affascinati dalla rinuncia al pacifismo costituzionale e i sondaggi dicono che anche il 52% dei giapponesi è fermamente contrario e tra il 26% a favore solo l’11% la ritiene una priorità. Il referendum sarebbe un azzardo. Ma mentre i giapponesi discutono di pacifismo, la Corea del Nord ha un arsenale atomico e fa test missilistici minacciando di incenerire i vicini e la Cina pretende di controllare mari e isole lontane dalle sue coste.
Corriere 11.7.16
il rischio del giappone che archivia il pacifismo
di Guido Santevecchi
Il risultato delle elezioni in Giappone sembra dare al primo ministro nazionalista Shinzo Abe l’opportunità che ha sempre sognato: riscrivere la Costituzione pacifista imposta dagli americani nel 1947. Abe non ha mai nascosto di ritenere l’Articolo 9 della Carta un’umiliazione, perché ha costretto la terza potenza economica del mondo a un ruolo di osservatore passivo nelle crisi internazionali e spesso di finanziatore delle iniziative Usa.
La possibile fine del pacifismo giapponese suscita brividi in Asia, dove è ancora viva, soprattutto in Cina, la memoria dei dolori e disastri causati dal militarismo e dal colonialismo del Sol Levante nel secolo scorso quando infiammarono il Pacifico. Ma anche restare ancorati a un pacifismo a tutti i costi sembra anacronistico vista la situazione intorno al Giappone: la Corea del Nord continua a lanciare missili balistici (l’ultimo sabato da un sottomarino) e perfeziona l’arsenale nucleare; Pechino rivendica isole nel Mar Cinese meridionale e anche vicino alle coste del Giappone (le Senkaku/Diaoyu) e in questi giorni ha schierato un centinaio di navi impegnate in manovre a fuoco intorno alle isole Paracel. La settimana scorsa è stato sfiorato uno scontro tra jet cinesi e giapponesi sulle isole contese e basterebbe una collisione in volo per un errore di valutazione di un pilota a far sprofondare le Borse mondiali; Tokyo assiste impotente anche agli assalti del terrorismo islamico nel mondo, piange i suoi cittadini rapiti e assassinati in Medio Oriente e ha appena ricevuto le bare di sette vittime nell’ultimo attentato in Bangladesh. C’è una finta pace anche nel Pacifico.
E domani la Corte di arbitrato Onu per la Legge del Mare deciderà sul ricorso di Manila contro l’occupazione cinese di scogli nelle secche di Scarborough, a poche centinaia di chilometri dalle coste filippine: la sentenza sarà secondo tutte le previsioni a favore di Manila e Pechino ha già detto che la riterrà «carta straccia». La Cina rivendica il 90% del Mar Cinese meridionale, una via lungo la quale passano ogni anno 5 mila miliardi di merci, compresi i vitali rifornimenti petroliferi per il Giappone.
Più che alle prossime mosse di Abe sulla Costituzione, presumibilmente caute, è alla decisione di domani dei giudici internazionali dell’Aia che bisognerà guardare. Rifiutandola, Pechino si metterà fuori dalla legge delle Nazioni Unite e darà un’altra spinta alla corsa al riarmo nella regione.
Ma è anche vero che nel mondo globalizzato il fatto che il primo ministro del Giappone terza economia del pianeta possa distrarre la sua azione di governo dalla crescita, dirottandola su una riforma costituzionale impopolare, è comunque un rischio destabilizzante.
Corriere 11.7.16
Visionario dell’odio Il mistero di Hitler
Da giovane era goffo, solitario, divorato dall’ansia
Poi scoprì che la sua oratoria elettrizzava le folle
E cominciò un’ossessiva corsa verso la distruzione
di Pietro Citati
Adolf Hitler visse a Linz, la capitale della regione austriaca dove era nato, dall’autunno 1905 alla fine del 1907. Non studiava. Passava il tempo a disegnare, dipingere, leggere, scrivere poesie, dedicando la sera al teatro di prosa e all’opera. Stava alzato fino a notte inoltrata: la mattina dormiva fino a tardi, e il giorno fantasticava ad occhi aperti sul suo futuro destino di grande artista; fantasticava, come avrebbe fatto sempre, anche quando aveva tutto il potere tra le mani.
Aveva un solo amico, August Kubizek: il quale racconta che il primo bisogno di Hitler era quello di parlare, parlare, parlare, davanti a un piccolo o un grande uditorio. Faceva arringhe su tutto: i difetti degli impiegati statali, gli errori degli insegnanti, le cattive esecuzioni operistiche, i brutti edifici di Linz. Acquistò, insieme all’amico, un biglietto della lotteria. Era sicuro di vincere: con il danaro della vincita, avrebbe fatto vita d’artista, andando a Bayreuth per ascoltare le opere di Wagner, che poi definì il suo «immenso predecessore». Ma il biglietto non vinse; e venne colto da uno di quei furibondi scoppi di collera, che atterrirono sempre i suoi fedeli.
Nel settembre 1907 andò a Vienna per sostenere un esame all’Accademia di Belle Arti. Fu respinto due volte, e riversò la sua collera sull’umanità intera, colpevole di non apprezzarlo. A Vienna rimase dal febbraio 1908 al maggio 1913. Non volle mai imparare un mestiere: per tutta la vita fu un dilettante. Progettò grandiosi piani di città future e grandiosi spettacoli: alcuni drammi, che abbandonò senza finirli: una bevanda, che avrebbe preso il posto dell’alcol: un prodotto miracoloso per far crescere i capelli; e lo Stato ideale. Andò dieci volte ad ascoltare il Lohengrin : avrebbe voluto diventare un eroe wagneriano; a teatro indossava un soprabito scuro, un cappello nero, e portava in mano un bastone da passeggio col manico d’avorio. Come disse l’amico, «aveva un’aria quasi elegante». Nell’autunno 1909, rimase senza danaro. Dormiva in un dormitorio: aveva un posto fisso nella Casa degli uomini: mangiava nei refettori dei conventi: indossava un logoro completo blu a quadretti: spalava la neve per strada; e si improvvisò facchino alla stazione. Ma teneva tutti gli altri a distanza, non tollerando che qualcuno occupasse un posto nella sua misera vita.
Quando ricevette l’eredità del padre, nell’aprile 1913, partì per Monaco. Abitava vicino al quartiere di Schwabing. Leggeva fino a tarda notte, alla luce di una lampada a petrolio. Ogni due o tre giorni dipingeva un quadro: un modesto acquarello, copiato da una cartolina; e cercava di venderlo, procurandosi di che vivere decentemente. Prendeva in prestito libri alla biblioteca: li leggeva nei caffè, dove aveva giornali a disposizione, o nel frastuono delle birrerie. Camminava fino allo sfinimento per le strade e i parchi di Monaco. Era chiuso in sé stesso: nascondeva la propria vita a sé stesso e agli altri; e rifiutava qualsiasi amicizia. Non aveva alcun interesse ideologico e politico. Sino alla fine della Prima guerra mondiale, non fu né antisemita né anticomunista; forse era vicino al Partito socialdemocratico, al quale, più tardi, dedicò un odio senza tregua e senza remissione.
All’improvviso Hitler venne alla luce: a partire dal 1919, abbiamo molti ritratti di lui, che sembrava sfuggire anche al più acuto osservatore. «Chi era, Hitler?» tutti si domandavano. Era pallido, smunto, con i capelli spioventi sulla fronte: gli occhi erano grandissimi, color azzurro slavato, avvolti da una strana luce. Il volto aveva qualcosa di doloroso. Aveva movimenti goffi e bruschi: si accorgeva di essere goffo; e se ne adontava perché gli altri se ne accorgevano. Era incapace di rivolgere la parola a qualsiasi persona importante. Ogni estraneo risvegliava in lui «un’ansia perenne»: lo teneva lontano; e doveva lavarsi continuamente le mani per abolire la sconosciuta e terribile realtà quotidiana. Ora era visionario: ora indeciso: ora svelava un istinto realistico acutissimo, e aveva il dono di riconoscere le debolezze delle persone e di sfruttarle mirabilmente. A volte sembrava uno spettro: o uno straniero, un eterno straniero; o un infimo impiegato, o un sottoufficiale. Il fondo della sua persona era l’odio: un odio feroce e crudele, che egli esaltò in una pagina di Mein Kampf .
La rivoluzione del 1918-19 rivelò Hitler a sé stesso. L’esercito bavarese lo incaricò di tenere corsi di impronta nazionalistica e anticomunista alle truppe. Successe qualcosa che non aveva mai immaginato. Scoperse di «saper parlare» alla gente, e in primo luogo ai soldati. «Hitler è nato per parlare alla gente», disse un ufficiale: «Col suo accaloramento e il suo stile popolare tiene avvinti gli ascoltatori».
«Per parlare», Hitler disse, «ho bisogno di folle»: ne ebbe bisogno per molti anni; e quando non sentì più questo rapporto con le folle, il suo talento politico scomparve. «Le masse», diceva volgarmente, «sono delle femmine, che hanno bisogno di venire possedute». Scandiva in modo netto le parole, con una voce rauca e gutturale: mandava lampi dagli occhi: ogni tanto si ravviava i capelli con la mano destra; parlava per due o tre ore, facendo appello a rabbia, odio, rancore, ed elettrizzando le folle. Dapprima parlava lentamente: poi, poco alla volta, le parole si accavallavano: il pathos isterico raggiungeva il culmine; la voce era strozzata, al punto che era difficile comprenderlo. Gesticolava: balzava eccitato qua e là. Alla fine era esausto, coperto di sudore, prossimo alle vertigini. Ma sapeva trasformarsi. Quando, come gli accadde più tardi, parlava agli industriali della Ruhr, si presentava con un completo scuro a doppio petto, e il discorso era attento, posato, misurato.
Da principio, Hitler affermava di essere soltanto «un tamburino che chiama a raccolta», accennando vagamente alla figura lontana di un Führer. Presto scoprì di essere il capo di tutti i violenti ed esagitati tamburini tedeschi. Era, lui stesso, il Führer. Poi credette di essere il Cristo, il Salvatore dell’universo, il Redentore: avrebbe portato a termine l’opera che il Cristo aveva solo abbozzato. Infine disse: «Vado con la stessa certezza di un sonnambulo lungo il cammino tracciato per me dalla Provvidenza». La Provvidenza lo portava nel mondo dell’assoluto futuro, che lui solo illuminava con la sua terribile luce.
L’8 novembre 1923, in una birreria di Monaco, alzò in alto un bicchiere pieno di birra: lo bevve teatralmente: estrasse la pistola, balzò su un tavolo, sparò contro il soffitto, urlando: «La rivoluzione nazionale è scoppiata». La rivoluzione fallì miseramente. In uno scontro con la polizia, quattordici nazisti morirono. Hitler fu arrestato e condotto nella fortezza di Landsberg: nel febbraio-marzo 1924 venne processato da un giudice compiacente, e condannato a cinque anni di reclusione per alto tradimento. Con grande e scandaloso anticipo, il 20 dicembre 1924 fu liberato.
Nella fortezza di Landsberg Hitler venne trattato come l’ospite di riguardo di un grande albergo, piuttosto che come un carcerato. Leggeva molti libri, il fondamento della sua cultura: Nietzsche, Ranke, Marx, Treitschke, e i ricordi di guerra di generali e statisti tedeschi. Cominciò Mein Kampf , a cui mani compiacenti tolsero gli errori di tedesco. Uscito dal carcere divenne vegetariano: non toccò mai più una goccia di alcol — ciò che giudicava essenziale per la formazione di un grande Führer.
Tutto accadde velocissimamente: con una rapidità che Hitler giudicava sua propria; mentre gli avversari si muovevano con disgustosa lentezza. Nel gennaio 1933 conquistò il potere: distrusse ed abolì gli avversari: nel 1938 conquistò l’Austria, poi la Cecoslovacchia, la Polonia, la Norvegia, la Francia, i Balcani; nel 1941 assalì la Russia e voleva spingersi lontano, sempre più lontano, verso il Caucaso e l’India. Nessuno, mai, era stato così veloce: nemmeno Napoleone, al quale Hitler si sentiva immensamente superiore. Ma questa velocità era la sua hybris : scatenava sé stesso, il partito, l’esercito, le SS, la Germania, fino a una meta lontanissima, che aveva un solo nome: distruzione.
Negli ultimi anni mutò profondamente. Aveva sempre riconosciuto l’origine del proprio potere nel rapporto con la folla. Ora, non parlava più alla folla: né dal Palazzo dello Sport né alla radio. Si allontanò e diventò invisibile. Non riconobbe più sé stesso e il proprio segno in niente di quello che i suoi gerarchi, sempre ispirandosi a lui, facevano: si tenne visibilmente lontano sia dall’assassinio degli ebrei sia dall’assassinio dei malati. Non volle creare uno Stato coerente ed unitario: detestava gli Stati e qualsiasi forma di organizzazione politica ed economica; importava soltanto che tutte le luci convergessero su di lui, sempre più intense via via che tutto precipitava nella distruzione.
Scelse due luoghi privilegiati. Il primo stava alle spalle di Rastenburg, nella Prussia orientale: la Tana del lupo. Come disse Galeazzo Ciano, era una via di mezzo tra il monastero e il campo di concentramento. Non c’era una sola macchia di colore, né una nota vivace. Tutto era grigio sporco e paludoso: puzzava di uniformi e di stivali pesanti. Come scrisse una segretaria a un’amica, c’era «rischio di perdere ogni contatto con la realtà». L’evento principale di ogni giornata era il punto sulla situazione militare, a mezzogiorno. Durante il pranzo, Hitler si atteneva, come sempre, a una dieta rigorosamente vegetariana. Spesso consumava il pasto da solo. Alle 17 invitava le segretarie a prendere un caffè, dedicando un complimento a quelle che mangiavano un biscotto. Dopo cena, faceva proiettare un film. Bastava una parola, e si lanciava in una arringa interminabile contro il bolscevismo. Guardava una carta d’Europa: teneva il dito puntato su Mosca e diceva: «Tempo tre o quattro settimane, e saremo a Mosca. Mosca verrà rasa al suolo». Ascoltava dischi: sempre gli stessi; Beethoven, Wagner, Hugo Wolf.
Non aveva amicizia per nessuno: l’uomo, diceva, era «un risibile batterio». I nemici erano insetti nocivi da schiacciare tra le dita. Aveva tenerezza solo per la sua cagna. Il popolo tedesco era spregevole. Un giorno, accanto al suo treno, si fermò un treno pieno di soldati tedeschi feriti: si rifiutò di vederli e di parlare con loro; fece abbassare immediatamente la tendina del suo scompartimento. Da lì, dalla Tana del lupo, Hitler dirigeva la guerra. Aveva un profondo disprezzo per i suoi generali, che considerava incompetenti e traditori: pensava di essere il più grande condottiero di tutti i tempi. Obbediva a un principio: le truppe non dovevano mai ritirarsi, anche a costo di venire accerchiate e distrutte; e costrinse la Wehrmacht ad alcune terribili sconfitte.
Era malato. Quando Goebbels, nella primavera del 1943, andò a trovarlo alla Tana del lupo, Hitler gli fece «un’impressione sconvolgente»: era invecchiato: soffriva di capogiri; la sola vista della neve gli dava un acuto malessere. Aveva l’aria stanca, il volto sfinito: gli occhi erano vacui e giallastri: le spalle curve; la mano sinistra tremava di continuo. Soffriva di una terribile insonnia: temeva l’angoscia della notte; a volte singhiozzava. Era nelle mani del suo medico, che lo riempiva di medicine, ventotto diverse pasticche al giorno. Pallido e stanco per la lunga veglia, giocherellava nervosamente con gli occhiali e le matite di vari colori, che teneva infilate tra le mani. Aveva emicranie, mal di denti, crampi allo stomaco, attacchi di cuore. Stava disteso apaticamente sul suo lettuccio da campo: balbettava; sembrava che la volontà di vivere l’avesse abbandonato completamente. Mangiava solo dolci. Era — disse un ufficiale — «un rottame umano rimpinzato di dolci».
Il 16 gennaio 1945 Hitler fece ritorno alla Cancelleria del Reich a Berlino, in un bunker a due piani scavato a otto metri di profondità. Il suo studio era una piccola stanza di tre metri per quattro: con una scrivania, un tavolo, tre poltrone, e un enorme ritratto di Federico il Grande. Emergeva solo ogni tanto, molto di rado, per una boccata d’aria insieme alla cagna. Andava a letto alle 5 di mattina, o anche più tardi. Cercava di non vedere la luce. Teneva sotto gli occhi un plastico di Linz, dove — diceva — si sarebbe ritirato in vecchiaia, dopo la vittoria. Quando il plastico fu ultimato, lo contemplava con entusiasmo: lo osservava da tutti i punti di vista, e sotto diverse illuminazioni. Nel bunker l’atmosfera era funerea. Quando un ufficiale si felicitò con lui per l’anniversario della sua presa del potere, Hitler accolse le felicitazioni con aria apatica: aveva l’aspetto distratto, il volto cadaverico. Ordinò una controffensiva a una divisione panzer: la controffensiva non avvenne mai, perché la divisione panzer non esisteva più. Fece fucilare il cognato di Eva Braun. Poco dopo la mezzanotte del 29 aprile 1945, tra il rumore sempre più vicino delle cannonate russe, sposò Eva Braun; e dettò alla segretaria il proprio testamento politico.
Nel bunker, tutti discutevano sul modo migliore di suicidarsi. Un sergente aprì a forza le fauci della cagna di Hitler e la avvelenò. Subito dopo egli entrò nella stanza: vide al suolo l’animale senza vita; lo guardò fisso per qualche istante, e senza dire una sola parola si allontanò col volto impassibile. Quando un cameriere aprì la porta della sua stanza, vide il Führer ed Eva Braun distesi, l’uno accanto all’altro, sopra un divano: dal corpo di lei veniva un penetrante odore di mandorle amare, l’odore dell’acido prussico. Hitler aveva la testa piegata: il sangue colava da un foro sulla tempia destra. La pistola giaceva ai suoi piedi.
I due corpi vennero bruciati nel giardino della Cancelleria, mentre i superstiti gridavano per l’ultima volta «Heil Hitler ». Non erano ancora le diciotto e mezza del 30 aprile 1945. Il giorno dopo, la radio tedesca annunciò che il Führer «era caduto in combattimento, lottando contro il bolscevismo». Era l’ultima menzogna di una lunga serie di menzogne, che per molti anni avevano insanguinato la terra.
Corriere 11.7.16
L’Austria e l’«Anschluss» Vittima o complice?
risponde Sergio Romano
Ho l’impressione che dopo la Seconda guerra mondiale l’Austria ebbe un trattamento meno punitivo della Germania sulle responsabilità della guerra. Hitler era un austriaco, fece uccidere il cancelliere Dolfuss (il presidente austriaco, che era contrario all’Anschluss, l’annessione), e il popolo austriaco accolse Hitler con grande esultanza. Molti criminali
di guerra, come Eichmann, erano austriaci, ma anche l’opinione pubblica internazionale sembrò considerare l’Austria meno responsabile. Le risulta questo aspetto? Quali furono le ragioni storiche di questo particolare comportamento?
Alessandro Pipino Montebelluna (Tv)
Caro Pipino,
Prima della Grande guerra l’imperatore Francesco Giuseppe disse a un ambasciatore francese: «Io sono, dopo tutto, un principe tedesco». Il suo impero era multietnico e multireligioso; comprendeva accanto ai suoi sudditi di lingua tedesca popolazioni ungheresi, polacche, ucraine, italiane, romene, croate e slovene. Ma le sue radici erano nel mondo germanico. Era naturale quindi che molti austriaci nel 1919, dopo la disintegrazione dell’Impero austro-ungarico, si considerassero cittadini di una provincia tedesca. Se vi fosse stato un referendum in quel momento, la maggioranza, probabilmente, avrebbe votato per l’unione con la Germania. Ma i vincitori proibirono espressamente una tale prospettiva. Non è sorprendente quindi che l’ingresso di Hitler a Vienna nel marzo del 1938 sia stato salutato entusiasticamente da una parte della popolazione, non tutta necessariamente nazista.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, i vincitori non mutarono opinione. Per evitare nuovi movimenti unionisti occorreva tuttavia diffondere la convinzione che l’Austria, anziché complice del Terzo Reich, fosse stata la sua prima vittima. È questa la ragione per cui il Paese, nel 1947, non fu tra quelli che dovettero negoziare con i vincitori un trattato di pace. La questione della frontiera con l’Italia fu lasciata ai due governi e saggiamente affrontata da Alcide De Gasperi, allora ministro degli Esteri oltre che presidente del Consiglio, e dal ministro austriaco Karl Gruber. I due si accordarono a Parigi sulla concessione di uno statuto di autonomia alla provincia di Bolzano.
La storia ha corretto il giudizio sull’Austria in un modo inatteso. È accaduto quando un uomo politico, Kurt Waldheim, divenne presidente della Repubblica austriaca nel 1986. Era reduce da una brillante carriera internazionale (segretario generale dell’Onu per due mandati) e godeva di un largo consenso nel suo Paese. Ma una campagna di stampa, in Europa e negli Stati Uniti, lo accusò di avere combattuto con la Wehrmacht in Grecia e di avere partecipato alla repressione del movimento partigiano. Waldheim ammise di aver fatto parte di un corpo tedesco nei Balcani, ma negò di avere partecipato alle rappresaglie. La classe politica austriaca lo difese e soprattutto rivendicò di fronte agli accusatori di Waldheim il diritto di scegliere il proprio presidente.
Ancora una osservazione, caro Pipino. Adolf Eichmann era tedesco, non austriaco. Nacque a Solingen, in Renania-Westfalia, nel 1906 e fu mandato in Austria nel 1938 per applicare agli ebrei di Vienna e più generalmente all’ebraismo austriaco, le leggi del Reich sull’ebraismo tedesco.
Repubblica 11.7.16
Dalle sacre icone a Andy Warhol così l’arte divenne astratta
Perché la raffigurazione dell’invisibile nata a Oriente come ponte tra cielo e terra ispira ancora il nostro secolo
di Silvia Ronchey
Nel 1904 a Mosca venne restaurata ed esposta al pubblico la Trinità di Andrej Rublev, “l’icona delle icone”, come l’aveva definita già il Concilio dei cento capitoli convocato tre secoli e mezzo prima da Ivan il Terribile. Era uno strano dipinto. Nominalmente raffigurava i tre angeli che nell’episodio biblico visitarono Abramo e furono ospitati alla sua tavola. Ma nell’icona nessuno mangiava, e non c’erano né il padrone di casa né Sara, sua moglie. C’erano tre figure celesti di inumana bellezza, quasi identiche. I contorni delle loro posture formavano un cerchio che catturava lo sguardo dello spettatore in modo così potente da impedirgli di soffermarsi sui personaggi, o su alcun altro elemento del dipinto, magnetizzato all’interno della perfetta figura geometrica che era il vero soggetto dell’icona. Quel cerchio invisibile, ma soverchiante, rappresentava
l’irrappresentabile: la consustanzialità delle tre persone della Trinità, definita già dalla teologia dei primi concili bizantini un’unica sostanza ( ousia) in tre ipòstasi ( hypostaseis). Una pura astrazione, forse la più difficile fra le astrazioni teologiche. Per questo Rublev l’aveva dipinta. Il suo era un quadro astratto.
Che cos’è l’icona, l’immagine sacra del mondo cristiano ortodosso? Come scriveva Evgenij Trubeckoj, «l’icona non è un ritratto ma un prototipo della futura umanità trasfigurata». Nel grande libro curato da Tania Velmans, magnificamente illustrato, ora uscito in Italia ( Le icone. Il grande viaggio, Jaca Book, 399 pagine, 120 euro), più studiosi si sforzano di mostrarlo, raccontando la storia di questi enigmatici oggetti pittorici, dalle tavole preiconoclaste conservate a Santa Caterina del Sinai fino a quelle del mondo russo e balcanico, delle periferie orientali del mondo bizantino e postbizantino, dell’oriente cristiano, enunciandone gli stili e le regole, le funzioni e le tipologie. Conoscere il loro passato remoto ci permette di capire meglio la loro funzione nel nostro passato prossimo, nel presente e forse nel futuro.
«Esiste la Trinità di Rublev, dunque Dio esiste», era, negli anni Venti del Novecento, il sillogismo di Pavel Florenskij. Perché, spiegava Florenskij, «l’icona o è sempre più grande di se stessa, se è una visione celeste, o è meno di se stessa, se non apre il mondo soprannaturale alla coscienza» di chi la guarda. Il suo scopo è sollevarla verso il mondo spirituale: se questo non si attua nella valutazione o nella sensibilità di chi guarda, l’icona resterà solo «una remota sensazione dell’oltremondo, come le alghe ancora odorose di iodio testimoniano del mare».
Secondo Florenskij «il visibile e l’invisibile sono in contatto, ma la differenza fra loro è così grande che non può non nascere il problema del confine». La linea di confine è la nostra psiche, in cui «la vita nel visibile si alterna alla vita nell’invisibile» in una serie di stati. Il più comune è il sogno, il più raro l’estasi mistica, quando «l’anima si inebria del visibile e, perdendolo di vista, si estasia ». Già quattordici secoli prima, per lo Pseudo-Dionigi Areopagita, le icone erano «rappresentazioni visibili di spettacoli misteriosi e soprannaturali», recanti una peculiare implicazione: agire su chi le contempla come la Metamorphosis di Cristo sugli apostoli; portare a una trasfigurazione dello spettatore, a un Tabor dello sguardo; dare la capacità di vedere — al di là delle parvenze materiali e atroci — la struttura spirituale e cristallina delle cose.
L’icona non è, dunque, arte figurativa. Nel grande, sottile e per lo più incompreso dibattito filosofico sull’immagine dell’VIII e IX secolo bizantino — il cosiddetto iconoclasmo — si erano alleati l’aniconismo protocristiano, già giudaico e poi islamico, e la condanna platonica dell’immagine, «copia di una copia», dispiegata in un mondo sensibile che è mera replica di quello delle idee, per mettere definitivamente in discussione l’arte figurativa. La raffigurazione artistica era lecita e non “idolatrica” solo se non intendeva rappresentare naturalisticamente la figura.
La controversia iconomaca non si era dunque conclusa con una riabilitazione teologica della vecchia idea di immagine, ma con l’invenzione e minuziosa codificazione di un’immagine completamente diversa. Tuttavia questo nuovo, rivoluzionario statuto non figurativo dell’icona, interfaccia tra il visibile e l’invisibile, dimostrazione stessa che i due mondi possono venire a contatto, sancito dalla teologia, affermato nella cultura bizantina, non era stato compreso dall’occidente. Fino al XX secolo.
La data del 1904, che vede il restauro della Trinità di Rublev, è una data simbolo, una sorta di mitico anno zero. Da un lato segna la riscoperta dell’icona da parte dell’estetica moderna, d’altro lato, e parallelamente, la nascita della moderna arte astratta. Risale all’anno successivo, il 1905, la nomina a conservatore della galleria Tretjakov di Mosca di Ilja Ostruchov, che del nuovo culto intellettuale dell’icona era stato, insieme a Pavel Muratov, l’attivista e l’apostolo. All’inizio degli anni Dieci del Novecento le icone diventano l’ossessione dell’intellighenzia russa. Nel 1911, quando Henri Matisse va a Mosca, è letteralmente sconvolto dalla loro antichissima e già futuribile forza. Le definisce il «miglior patrimonio » dell’arte medievale, invita solennemente gli artisti europei a «cercare i propri modelli nei pittori di icone piuttosto che nei maestri italiani». Quando torna in Francia ne parla agli amici, tra cui Picasso. Se Matisse è il primo occidentale a incontrare l’icona, che subito influenza la sua pittura, nel frattempo le avanguardie russe imperniano le loro ricerche e sperimentazioni non solo sulla sua estetica ma sulla teoria stessa dell’immagine che vi ha lasciato racchiusa Bisanzio.
Il debito verso l’icona è evidente nei costruttivisti e nei suprematisti, o in artisti come Vladimir Tatlin e Natalia Goncarova, che cominciarono la loro carriera dipingendo appunto icone. Già nella collezione privata di Ostruchov, intrapresa nel 1902, le opere della tradizione bizantina erano affiancate a opere contemporanee. Ancora oggi nella galleria Tretjakov i quadri dei pittori russi degli anni Dieci e Venti, come Kliment Redko, si ammirano insieme agli antecedenti medievali ortodossi che ne sono la diretta fonte di ispirazione. Nello stesso periodo si colloca il lavoro rivoluzionario di Vassili Kandinskij, che crea programmaticamente l’astrattismo a partire dall’esperienza delle icone. Se i termini dell’ispirazione bizantina di Kandinskij si leggono ne Lo spirituale nell’arte e anche nei suoi Sguardi sul passato, il più immediato documento di questo viaggio senza ritorno sono le varie, selvagge tappe del suo lavoro su San Giorgio.
Come ha scritto Gilbert Dagron, l’arte di Kandinskij, «che chiamiamo “astratta” perché ricusa le nozioni di natura e di oggetto a favore di un’altra visibilità, ha una parentela sicura con il tipo di rappresentazione iconica che l’ortodossia ha consacrato nella sfera religiosa, ma che l’artista moderno utilizza a fini differenti ». In altre parole «è per mezzo dei suoi rifiuti, ossia del suo iconoclasmo latente, ben più che della sua diffusa religiosità, che l’icona ha permesso di precisare i grandi obiettivi dell’arte moderna ».
Il ragionamento cominciato a Bisanzio nell’VIII secolo si compie dunque, dopo una lunga invisibile parabola (ma è così che procede la storia), solo nel XX, attraverso la riflessione filosofica russa che dà fondamento all’astrattismo. L’arte contemporanea acquista le sue ragioni e trae il suo fine dall’”iconoclasmo latente” dell’icona, affrancandosi dalla dimensione religiosa e riportando al terreno secolare la sua dichiarazione di guerra alla moltiplicazione degli “idoli”, segnata, fra l’altro, dopo l’affermarsi della fotografia, dalla crescente diffusione di “false immagini” (mediatiche, pubblicitarie, comunque mercificate e “pornografiche”) nella società di massa emersa dal Secolo Breve e dalle sue rivoluzioni. In Andy Warhol, figlio di emigrati ruteni (il padre, Ondrej Warhola, aveva anglizzato il suo nome in Andrew Warhola poco dopo l’approdo negli Usa negli anni Venti), è ispirato per esplicita ammissione all’icona russa il metodo della ripetizione, l’adozione del multiplo, a perseguire lo svuotamento dell’immagine- idolo (consumistica, per esempio le bottiglie di Coca Cola, o anche semplicemente giornalistica: incidenti stradali, sedie elettriche). Yves Klein opera la cancellazione totale della figura in tavole che a pieno titolo possiamo chiamare icone, dove i fondi oro diventano soggetto autonomo e l’astratta semantica bizantina del colore, già indispensabile per leggere la Trinità di Rublev (l’oro della sovrasostanzialità, il blu della vita eterna), trionfa evidente: il famoso “Blu Klein” è eminentemente, inconfondibilmente bizantino.
Il Fatto 11.7.16
Politica e religione, quell’intreccio che genera male
di Orazio Licandro
Nell’88 a.C. in Asia Minore si commise un enorme brutale eccidio, poi chiamato Vespri asiatici, ad opera di Mitridate, re del Ponto, in guerra contro i Romani per il controllo del Vicino Oriente. Ce lo racconta Appiano: “(Mitridate) scrisse di nascosto a tutti i suoi satrapi e magistrati che il trentesimo giorno successivo avrebbero dovuto procedere all’uccisione di tutti i cittadini romani e italici nelle loro città, comprese le loro mogli, i figli, i loro domestici di
nascita italica, gettando poi i loro corpi fuori dalle mura, insepolti, e dividere i loro beni con lo stesso sovrano. (...) Offrì anche ai debitori che avessero ucciso (gli Italici) la liberazione di metà dei loro obblighi verso i loro usurai”. Gli ordini furono eseguiti con assoluto scrupolo: “Gli Efesini, che erano fuggiti e si erano rifugiati nel tempio di Artemide, li uccisero dove si trovavano le immagini della dea. Gli abitanti di Pergamo li colpirono con il lancio di frecce, mentre avevano cercato scampo presso il tempio di Esculapio ed erano aggrappati alle sue statue.Gli Adramiteni (...) perseguitarono gli Italici che si erano rifugiati presso la statua di Vesta, li strapparono dal santuario, uccisero i figli davanti agli occhi delle loro madri, e poi uccisero le madri stesse e dopo i loro mariti”. I cittadini di Tralles, invece per evitare che il sangue cadesse su di loro, ingaggiarono un killer che “diresse le vittime al tempio della Concordia e là li uccise, tagliando le mani di alcuni che stavano abbracciando le immagini sacre” (Appiano, Guerre mitridatiche 22-23). Quando la politica e la religione si intrecciano inestricabilmente il male, il grande male, scende sull’umanità: oggi come 2000 anni fa.
Il Fatto 11.7.16
Sole, caldo, ipertensione. E quella voglia di sospendere i farmaci
Il primo consiglio è: evitare per quanto possibile gli sbalzi termici e l’esposizione prolungata al calore
di Leda Galiuto
Professoressa, sono iperteso e assumo costantemente dei farmaci per tenerla a bada. D’estate però, con il caldo la pressione si abbassa. Posso sospendere i farmaci?
Questa è una domanda che i pazienti ipertesi mi fanno spesso ed è anzi un bene che la facciano, perché alcuni sospendono i farmaci di testa propria, senza consultare il medico, e così corrono dei seri rischi per la salute. È indispensabile sapere che l’ipertensione arteriosa è una vera e propria malattia dalla quale non si guarisce, ma che può essere “tenuta a bada” da numerosi farmaci che risultano efficaci nella maggior parte dei casi. Se non curata, l’ipertensione produce un danno progressivo di tutte le arterie dell’organismo e poi di organi importanti come il cuore, i reni, il cervello. Gli sbalzi di pressione sono particolarmente dannosi perché possono portare a rottura di arterie vitali e produrre emorragie in vari distretti corporei (ictus nel caso del cervello). I farmaci agiscono in vario modo, secondo vari meccanismi, mantenendo bassi i valori di pressione che deve attestarsi idealmente intorno ai 120-80 mm Hg. D’estate accade che il calore produca vasodilatazione e conseguente abbassamento dei valori di pressione, con comparsa di un certo senso di spossatezza e, talora, capogiri e possibili svenimenti. Il primo consiglio da dare a un paziente iperteso in terapia con farmaci è di evitare per quanto possibile gli sbalzi termici e l’esposizione prolungata al calore, incluso quello solare. Il secondo consiglio è quello di misurare la pressione durante gli episodi di malessere, per verificare che si tratti effettivamente di cali di pressione, perché il malessere, estivo e non, può riconoscere cause diverse. Se si verifica che i valori di pressione sono costantemente inferiori a 120-80 mm Hg, soprattutto se si raggiungono i 100 mmHg di pressione sistolica (massima), allora è necessario consultare il cardiologo curante che potrà ottimizzare la terapia antipertensiva, magari riducendo il dosaggio dei farmaci o scegliendo molecole che agiscono di meno sulla dilatazione dei vasi, ma utilizzano meccanismi diversi per produrre il desiderato controllo dell’ipertensione. Vietatissimo il fai da te. Sospendere autonomamente farmaci che curano l’ipertensione vuol dire correre seri rischi di ictus per emorragia cerebrale a causa di rialzi improvvisi dei valori di pressione arteriosa non più controllata come necessario.
(Per le domande alla professoressa Galiuto, scrivere a salute@ilfattoquotidiano,it).