Corriere 11.7.16
Le parole che l’Islam non dice
di Ernesto Galli della Loggia
Chissà
se in quella tragica sera di Dacca qualcuno dei nove italiani, mentre
veniva torturato e si preparava ad essere sgozzato per non aver saputo
rispondere a dovere alle domande di catechismo islamico, avrà pensato
che i suoi compatrioti avrebbero preso l’impegno di vendicarlo. Penso
proprio di no, dal momento che quegli italiani erano certamente esperti
del mondo e della vita. Non sta bene covare sentimenti di vendetta, e
tantomeno dirlo: loro sapevano che noi la pensiamo così, e dunque non
potevano certo farsi illusioni.
Verso la memoria di quelle vittime
però, dovremmo tutti prendere almeno un impegno di serietà e di verità.
Dunque, parlando di ciò che li ha condotti alla morte, rinunciare al
buonismo di principio, ai giudizi programmaticamente tranquillizzanti,
agli equilibrismi. Che ad esempio i maggiori quotidiani del loro Paese,
quasi per farsi perdonare l’audacia di aver avanzato in un primo momento
il sospetto che nella macelleria bengalese, vedi mai, la religione
islamica c’entrasse qualcosa, che quei giornali, dicevo, immediatamente
dopo si sarebbero sentiti in dovere, in omaggio a una presunta
obiettività, di pubblicare articoli volti a rigettare il sospetto di cui
sopra giudicandolo calunnioso e frutto di ignoranza, ebbene che una
cosa simile sarebbe accaduta questo forse nessuna di quelle vittime è
arrivata certamente a pensarlo.
I nvece è andata proprio così.
Anche questa volta è andata così. Per la strage di Dacca, come in tante
altre occasioni da anni. E non certo solo da noi. Da anni infatti
terroristi islamici seminano dovunque la morte ma l’opinione pubblica
occidentale si sente puntualmente ripetere che la loro religione non
c’entra nulla. Il più delle volte con l’argomento (evidentemente
reputato in grado di chiudere la bocca a chiunque) che, a tal punto il
terrorismo islamico non c’entrerebbe nulla con la religione islamica che
spesso le sue vittime sono proprio gli stessi islamici. Come chi
dicesse che poiché le guerre di religione nell’Europa del
Cinque-Seicento vedevano dei cristiani ammazzare altri cristiani,
proprio per questo la religione con quella violenza non avesse nulla a
che dividere.
Le cose stanno ben altrimenti. «I jihadisti — ha
scritto Tahar Ben Jelloun, conosciutissimo teorizzatore dell’Islam
tollerante all’interno di un’auspicata tolleranza universale — prendono a
riferimento dei versetti che erano validi all’epoca della loro
rivelazione ma oggi non hanno più senso». Già. Ma mi chiedo: e chi è che
lo decide quali versetti del Corano continuano ad «avere senso» e quali
invece sono per così dire passati di moda? Chi? E in ogni caso non vuol
forse dire quanto scrive Ben Jelloun che comunque in quel testo ci sono
parole e precetti che si prestano e magari incitano ad un certo uso
della violenza?
Certo, tutti sappiamo che il monoteismo in quanto
tale intrattiene un oscuro rapporto con la violenza. Ma fa qualche
differenza o no — mi chiedo ancora sperando di non incorrere per questo
nell’accusa di islamofobia — fa qualche differenza o no se nel testo
fondativo di un monoteismo i riferimenti alla violenza ci sono,
espliciti e ripetuti, e in un altro invece sono del tutto assenti? Fa
una differenza o no, ad esempio, se i Vangeli non registrano nella
predicazione di Gesù di Nazareth alcuna azione o proposito violento
contro coloro che non credono? Non ha significato forse proprio questo
la possibilità nell’ambito del monoteismo cristiano di mantenere aperto
costantemente uno spazio di contraddizione, di obiezione nei confronti
della violenza pur commessa in suo nome che altrove invece non ha mai
potuto vedere la luce? Mi pare assai dubbio insomma che tutte le
cosiddette religioni del Libro adorino davvero lo stesso Dio come
sostengono gli instancabili promotori delle tante occasioni di «dialogo
interreligioso» che si organizzano dovunque tranne però, chissà perché,
nei Paesi musulmani. Per la semplice ragione che in realtà quel Libro è
per ognuna di esse un Libro dal contenuto e dal significato ben diversi.
In
realtà è assai difficile pensare che l’Islam non abbia un problema
specifico tutto suo con la violenza. Ne è prova non piccola, a me pare,
come esso continui a praticarla nei suoi riti i quali sembrano non aver
conosciuto in misura decisiva il processo di trasfigurazione simbolica
avutosi in altri monoteismi. Chiunque ad esempio si è trovato in una
località islamica il giorno della Festa del Sacrificio (che ricorda il
sacrificio del primogenito richiesto da Dio ad Abramo) ha potuto
assistere allo spettacolo di ogni capofamiglia che, armato di coltello,
sgozza sulla pubblica via un agnello procuratosi in precedenza. Certo,
la pratica non è più universale ma è ancora abbastanza diffusa da
impedire di credere che essa non costituisca tutt’oggi un paradigma dal
potentissimo richiamo emotivo per l’insieme dei credenti. Così come
ancora oggi — per menzionare un altro ambito fondamentale — l’ambiente
familiare islamico appare dominato da un tratto gerarchico-comunitario e
da un’arcaica fissità di ruoli maschile e femminile, l’uno e l’altro
ispirati dai precetti religiosi. Ora, sarà pure tutto ciò fonte preziosa
di protezione e solidarietà per l’individuo, sarà pure benefico
elemento di coesione del gruppo, ma di certo una tale struttura
familiare sembra fatta apposta per essere una continua palestra di
costrizione, di repressione e alla fine di violenza. Non è davvero
singolare — almeno all’apparenza e a quel che è dato di sapere: ma in
caso contrario perché non ci è dato di sapere? — che le banali
osservazioni appena fatte non siano oggetto di alcuna discussione nelle
società islamiche, che di fronte a ciò che sta accadendo non ci si
chieda se per caso la tradizione religiosa, sia pure al di là di ogni
sua intenzione, non sia implicata per qualche verso nei comportamenti di
non pochi dei suoi adepti? Come mai i processi di analisi
storico-culturale che si sono così largamente sviluppati nei Paesi
cristiani e altrove, nel mondo islamico invece sembrano non avere alcun
corso, almeno pubblico? Che cos’è che lo impedisce? Perché ancora oggi
nei Paesi islamici non si traduce quasi nulla della letteratura
scientifica mondiale riguardante la società, la religione, la psiche, il
sesso, la storia? Perché questa ferrea cortina d’ignoranza calata sul
futuro di quei popoli?
Con queste e analoghe domande, se volessimo
realmente onorare i morti di Dacca, non dovremmo stancarci di incalzare
il mondo islamico. Ripetutamente, insistentemente, ogni volta che
chiunque prenda la parola in qualche modo a suo nome.
Così come,
per parlare infine di politica, dovremmo una buona volta porre anche il
problema dell’Arabia Saudita, l’Arabia Saudita è il vero cuore della
violenza terroristica islamista perché ne è di gran lunga il maggiore
finanziatore. Da anni tutti gli osservatori lo dicono e lo scrivono,
sicché la cosa è in pratica di dominio pubblico. I soldi per le armi e
le bombe destinati a seminare strage da Bombay a Parigi vengono quasi
sempre da Riad. Ma egualmente da Riad proviene il fiume di soldi con cui
negli ultimi decenni l’élite saudita ha acquistato in mezzo mondo (ma
di preferenza in Occidente, naturalmente) partecipazioni azionarie,
interi quartieri residenziali, proprietà e attività di ogni tipo.
Trascurando nel modo più assoluto qualunque solidarietà islamica — ai
disperati, spessissimo musulmani, che ogni giorno tentano la traversata
del Mediterraneo, da loro non è mai arrivato un centesimo — ma curandosi
solo di arricchirsi sempre di più e di mutare a proprio favore la
bilancia del potere economico mondiale.
Ma perché, mi chiedo, non
si possono immaginare nei confronti dell’Arabia Saudita e dei suoi
dirigenti misure di sanzione, diciamo pure di rappresaglia, volte a
colpire gli interessi di cui sopra? Proprio l’idea che agli occidentali
interessi più il denaro di qualsiasi altra cosa è tra le cause di quel
disprezzo culturale che ha non poco a che fare con lo scatenamento della
violenza specialmente contro di essi. Quale migliore occasione, allora,
per dimostrare che le cose non stanno proprio così, che ci sono anche
per noi cose più importanti del denaro?