La Stampa TuttoLibri 12.7.16
Svetlana Aleksievic
“Popolo russo, alzati: smettila di fare la vittima”
“I russi non sanno usare il linguaggio della libertà”
“Putin
ha saputo sfruttare il senso d’umiliazione della sua gente addossando
le colpe all’America ed esaltando un grande passato”
di Anna Zafesova
Svetlana
Aleksievic è russa di lingua e bielorussa di nascita, ma il suo Nobel
per la letteratura - come quelli dei suoi predecessori Alexandr
Solzenicyn e Boris Pasternak - è stato quasi ignorato in entrambe le sue
patrie. In Russia i suoi libri vengono pubblicati, «per ora», dice, e
riceve inviti a partecipare a festival e presentazioni: «Ma non ho una
gran voglia di andarci, dopo la campagna che hanno fatto contro di me
per il Nobel». Una vita da scrittrice scomoda, e infatti Aleksievic
inizia a pubblicare - e diventa subito famosa - solo con la perestrojka,
con La guerra non ha un volto di donna, una serie di interviste alle
protagoniste della Seconda guerra mondiale (tradotto in Italia di
recente da Bompiani): sincere, crude, lontane dalla verniciatura della
propaganda. E’ il suo metodo, che si ritrova anche nei Ragazzi di zinco
sui reduci dell’Afghanistan, nella struggente Preghiera di Cernobyl e
nell’ultimo Tempo di seconda mano: a parlare sono solo i protagonisti,
persone «normali», persone vere, persone che usano parole di ogni giorno
per raccontarsi e raccontare la loro verità personale. Aleksievic si
definisce un’antropologa dell’«impero rosso» e dell’«homo sovieticus», e
la testimonianza corale dei centinaia di suoi protagonisti è stata
definita dal Comitato dei Nobel «un monumento alla sofferenza e al
coraggio».
Tra le tante cose che le sono state rimproverate c’è quella di fare non letteratura, ma giornalismo.
«E’
un’obiezione che sento spesso in Russia, dove sono abituati a romanzi
monumentali, mai in Europa. Io chiamo quello che faccio “romanzo di
voci”, alcune recensioni europee hanno parlato di “romanzo
antropologico”. Il mondo cambia rapidamente, l’estetica viene
influenzata anche dall’attualità. Tra 50 anni qualcuno scriverà un
romanzo epocale su quello che stiamo vivendo oggi, come Tolstoj raccontò
la guerra con Napoleone a fine Ottocento. Ma il ritmo di Tolstoj non è
più adatto a quello che siamo oggi. La verità della letteratura arriva
in ritardo, i libri sul Gulag emersero negli Anni 90, i lettori erano
troppo presi da altri problemi, non li hanno letti bene. Io lavoro sul
presente e cerco forme nuove per raccontarlo. Diciamo che il metodo con
il quale raccolgo il materiale è giornalistico, il metodo con il quale
lo rielaboro è letterario».
A quali modelli si è ispirata?
«Il
mio maestro è stato Ales Adamovich, il famoso scrittore bielorusso, il
suo impegno civile, la sua passione. E poi Alexandr Herzen, la sua
maniera di ricostruire il passato. E poi libri di memorie, ricostruzioni
storiche, in cerca di quel dettaglio che coglie il senso del momento».
Come raccoglie il materiale? Parla con i suoi protagonisti più volte?
«Se
sento che hanno una storia importante da raccontarmi. Cerco di
penetrare le frasi fatte, di superare la cultura del lamento tipica del
nostro popolo, e di portarli a parlare di cose vere, a riflettere su
quello che hanno vissuto. Raccontare l’orrore è facile, ma rischio di
prendere il lettore a sassate. Il mio compito invece è raccontare la
vita, la morte, l’umanità, e il miglior complimento che mi fanno è
quando mi dicono di aver provato un sentimento catartico a leggere i
miei libri. La letteratura è questo».
Si fida di quello che le dicono i suoi protagonisti? Nell’Urss il silenzio era uno strumento di sopravvivenza.
«Infatti
negli Anni 90 sono stata subissata da una valanga di persone che
volevano raccontarsi, anche quelli che prima non avevano voluto dirmi
tutto».
Ora avverte un ritorno del silenzio?
«No, i russi
non hanno paura di raccontare. Ma è cambiato il loro modo di narrare il
loro passato: si stanno adattando alla propaganda, “abbiamo avuto
un’epoca meravigliosa”, come dice Eduard Limonov. E non sanno
raccontarsi. Parlano della loro vita pubblica, della storia, ma non di
loro stessi come persone. Non parlano il linguaggio della libertà. Sono
dettagliatissimi, profondi, addirittura poetici a raccontare le
disgrazie, ma quando cercano di riflettere, di elaborare, gli mancano le
parole, parlano solo del passato, un incubo o un rimpianto. Per
esempio, la guerra viene ancora presentata come disastro e sofferenza,
ma fanno fatica a chiedersi come sono arrivati a uccidere altri esseri
umani, cosa significa per loro oggi, alla fine della loro esistenza».
Non solo i russi però non riescono a fare i conti con il passato.
«Quando
ho sentito la notizia del Brexit ho pensato proprio questo: il passato
ci ha raggiunti. La globalizzazione è più veloce della natura umana.
L’Europa era il futuro che si stava costruendo, tra mille difficoltà, ma
il modello stava funzionando, ora tutto rischia di crollare. Noi
l’abbiamo vissuto, sappiamo come si respira sulle rovine di un impero,
quanto è difficile ricostruire un’esistenza».
Non le piacerebbe utilizzare il suo metodo per un «romanzo di voci» in Europa?
«No,
lo deve fare un europeo. Io ora sto cercando di capire come ci si
sentiva in altre epoche di grandi cambiamenti, mentre cadeva l’impero
romano, per esempio, ma era una letteratura di eroi, non c’era spazio
per le minuzie della vita umana. Sto leggendo molti libri di storia,
sugli anni ’30, sull’ascesa di Hitler, sto cercando di capire i
meccanismi che hanno portato a quello che è successo».
Il popolo silenzioso che lei rende protagonista della storia?
«La
democrazia è una sorpresa. Nel mio libro Tempo di seconda mano ho
cercato la voce del popolo. Per anni noi intellettuali avevamo detto che
non riusciva a farsi sentire. Poi è arrivato Putin, e ha saputo
cogliere i sentimenti del popolo, ha parlato con la sua voce. Il
problema infatti non è Putin il presidente, è il Putin collettivo che si
riconosce in lui e lo alimenta».
Qual è la nota nella voce del popolo russo che ha saputo cogliere?
«Il
sentirsi vittima. Noi abbiamo una storia di vittime e carnefici, ed è
nella nostra natura compatire la vittima. Ma in realtà, lo diceva anche
Dostoevskij, la vittima non esce più dal suo vittimismo, quasi se ne
compiace, non elabora, non riflette, getta la colpa solo sugli altri.
Putin ha raccontato ai russi che sono stati umiliati, che è tutta colpa
dell’America, che hanno un grande passato. E il mondo, da complicato e
confuso, è tornato a essere chiaro e lineare. In Ucraina stanno sognando
un futuro, in Russia si guarda solo al passato, chiudendosi in un
guscio di narcisismo isolazionista».
A cosa sta lavorando adesso?
«Penso
di aver chiuso il tema dell’impero rosso e dell’homo sovieticus con i
miei primi 5 libri. Ora sto lavorando su due progetti. Uno è il libro
sull’amore, sui rapporti tra gli uomini e le donne. Il secondo è sulla
vecchiaia, sul tramonto, sugli ultimi passi prima del buio. Molto
faticoso, perché i russi non hanno un linguaggio d’amore, così come non
ce l’ha la letteratura russa. A parte qualche episodio, gli scrittori
russi non hanno parlato di amore, di felicità, ma solo delle sorti della
Russia».
Forse perché in Russia la letteratura era lo spazio dove cercare la libertà?
«Noi
siamo una nazione militare. Ci siamo espansi per quasi tutta la nostra
storia, siamo abituati a essere in guerra. L’Europa è rimasta sotto
shock per le guerre. La cultura della guerra ci domina, ragioniamo
ancora in termini di rossi e bianchi, di nemici, di barricate. Ma sulle
barricate non si vede più l’individuo, l’essere umano, esiste solo il
nemico».e sarà premiato oggi al festival di Fotografia in Viaggio
«Cortona on the move».