domenica 17 luglio 2016

La Stampa TuttoLibri 12.7.16
Svetlana Aleksievic
“Popolo russo, alzati: smettila di fare la vittima”
“I russi non sanno usare il linguaggio della libertà”
“Putin ha saputo sfruttare il senso d’umiliazione della sua gente addossando le colpe all’America ed esaltando un grande passato”
di Anna Zafesova

Svetlana Aleksievic è russa di lingua e bielorussa di nascita, ma il suo Nobel per la letteratura - come quelli dei suoi predecessori Alexandr Solzenicyn e Boris Pasternak - è stato quasi ignorato in entrambe le sue patrie. In Russia i suoi libri vengono pubblicati, «per ora», dice, e riceve inviti a partecipare a festival e presentazioni: «Ma non ho una gran voglia di andarci, dopo la campagna che hanno fatto contro di me per il Nobel». Una vita da scrittrice scomoda, e infatti Aleksievic inizia a pubblicare - e diventa subito famosa - solo con la perestrojka, con La guerra non ha un volto di donna, una serie di interviste alle protagoniste della Seconda guerra mondiale (tradotto in Italia di recente da Bompiani): sincere, crude, lontane dalla verniciatura della propaganda. E’ il suo metodo, che si ritrova anche nei Ragazzi di zinco sui reduci dell’Afghanistan, nella struggente Preghiera di Cernobyl e nell’ultimo Tempo di seconda mano: a parlare sono solo i protagonisti, persone «normali», persone vere, persone che usano parole di ogni giorno per raccontarsi e raccontare la loro verità personale. Aleksievic si definisce un’antropologa dell’«impero rosso» e dell’«homo sovieticus», e la testimonianza corale dei centinaia di suoi protagonisti è stata definita dal Comitato dei Nobel «un monumento alla sofferenza e al coraggio».
Tra le tante cose che le sono state rimproverate c’è quella di fare non letteratura, ma giornalismo.
«E’ un’obiezione che sento spesso in Russia, dove sono abituati a romanzi monumentali, mai in Europa. Io chiamo quello che faccio “romanzo di voci”, alcune recensioni europee hanno parlato di “romanzo antropologico”. Il mondo cambia rapidamente, l’estetica viene influenzata anche dall’attualità. Tra 50 anni qualcuno scriverà un romanzo epocale su quello che stiamo vivendo oggi, come Tolstoj raccontò la guerra con Napoleone a fine Ottocento. Ma il ritmo di Tolstoj non è più adatto a quello che siamo oggi. La verità della letteratura arriva in ritardo, i libri sul Gulag emersero negli Anni 90, i lettori erano troppo presi da altri problemi, non li hanno letti bene. Io lavoro sul presente e cerco forme nuove per raccontarlo. Diciamo che il metodo con il quale raccolgo il materiale è giornalistico, il metodo con il quale lo rielaboro è letterario».
A quali modelli si è ispirata?
«Il mio maestro è stato Ales Adamovich, il famoso scrittore bielorusso, il suo impegno civile, la sua passione. E poi Alexandr Herzen, la sua maniera di ricostruire il passato. E poi libri di memorie, ricostruzioni storiche, in cerca di quel dettaglio che coglie il senso del momento».
Come raccoglie il materiale? Parla con i suoi protagonisti più volte?
«Se sento che hanno una storia importante da raccontarmi. Cerco di penetrare le frasi fatte, di superare la cultura del lamento tipica del nostro popolo, e di portarli a parlare di cose vere, a riflettere su quello che hanno vissuto. Raccontare l’orrore è facile, ma rischio di prendere il lettore a sassate. Il mio compito invece è raccontare la vita, la morte, l’umanità, e il miglior complimento che mi fanno è quando mi dicono di aver provato un sentimento catartico a leggere i miei libri. La letteratura è questo».
Si fida di quello che le dicono i suoi protagonisti? Nell’Urss il silenzio era uno strumento di sopravvivenza.
«Infatti negli Anni 90 sono stata subissata da una valanga di persone che volevano raccontarsi, anche quelli che prima non avevano voluto dirmi tutto».
Ora avverte un ritorno del silenzio?
«No, i russi non hanno paura di raccontare. Ma è cambiato il loro modo di narrare il loro passato: si stanno adattando alla propaganda, “abbiamo avuto un’epoca meravigliosa”, come dice Eduard Limonov. E non sanno raccontarsi. Parlano della loro vita pubblica, della storia, ma non di loro stessi come persone. Non parlano il linguaggio della libertà. Sono dettagliatissimi, profondi, addirittura poetici a raccontare le disgrazie, ma quando cercano di riflettere, di elaborare, gli mancano le parole, parlano solo del passato, un incubo o un rimpianto. Per esempio, la guerra viene ancora presentata come disastro e sofferenza, ma fanno fatica a chiedersi come sono arrivati a uccidere altri esseri umani, cosa significa per loro oggi, alla fine della loro esistenza».
Non solo i russi però non riescono a fare i conti con il passato.
«Quando ho sentito la notizia del Brexit ho pensato proprio questo: il passato ci ha raggiunti. La globalizzazione è più veloce della natura umana. L’Europa era il futuro che si stava costruendo, tra mille difficoltà, ma il modello stava funzionando, ora tutto rischia di crollare. Noi l’abbiamo vissuto, sappiamo come si respira sulle rovine di un impero, quanto è difficile ricostruire un’esistenza».
Non le piacerebbe utilizzare il suo metodo per un «romanzo di voci» in Europa?
«No, lo deve fare un europeo. Io ora sto cercando di capire come ci si sentiva in altre epoche di grandi cambiamenti, mentre cadeva l’impero romano, per esempio, ma era una letteratura di eroi, non c’era spazio per le minuzie della vita umana. Sto leggendo molti libri di storia, sugli anni ’30, sull’ascesa di Hitler, sto cercando di capire i meccanismi che hanno portato a quello che è successo».
Il popolo silenzioso che lei rende protagonista della storia?
«La democrazia è una sorpresa. Nel mio libro Tempo di seconda mano ho cercato la voce del popolo. Per anni noi intellettuali avevamo detto che non riusciva a farsi sentire. Poi è arrivato Putin, e ha saputo cogliere i sentimenti del popolo, ha parlato con la sua voce. Il problema infatti non è Putin il presidente, è il Putin collettivo che si riconosce in lui e lo alimenta».
Qual è la nota nella voce del popolo russo che ha saputo cogliere?
«Il sentirsi vittima. Noi abbiamo una storia di vittime e carnefici, ed è nella nostra natura compatire la vittima. Ma in realtà, lo diceva anche Dostoevskij, la vittima non esce più dal suo vittimismo, quasi se ne compiace, non elabora, non riflette, getta la colpa solo sugli altri. Putin ha raccontato ai russi che sono stati umiliati, che è tutta colpa dell’America, che hanno un grande passato. E il mondo, da complicato e confuso, è tornato a essere chiaro e lineare. In Ucraina stanno sognando un futuro, in Russia si guarda solo al passato, chiudendosi in un guscio di narcisismo isolazionista».
A cosa sta lavorando adesso?
«Penso di aver chiuso il tema dell’impero rosso e dell’homo sovieticus con i miei primi 5 libri. Ora sto lavorando su due progetti. Uno è il libro sull’amore, sui rapporti tra gli uomini e le donne. Il secondo è sulla vecchiaia, sul tramonto, sugli ultimi passi prima del buio. Molto faticoso, perché i russi non hanno un linguaggio d’amore, così come non ce l’ha la letteratura russa. A parte qualche episodio, gli scrittori russi non hanno parlato di amore, di felicità, ma solo delle sorti della Russia».
Forse perché in Russia la letteratura era lo spazio dove cercare la libertà?
«Noi siamo una nazione militare. Ci siamo espansi per quasi tutta la nostra storia, siamo abituati a essere in guerra. L’Europa è rimasta sotto shock per le guerre. La cultura della guerra ci domina, ragioniamo ancora in termini di rossi e bianchi, di nemici, di barricate. Ma sulle barricate non si vede più l’individuo, l’essere umano, esiste solo il nemico».e sarà premiato oggi al festival di Fotografia in Viaggio «Cortona on the move».