Corriere La Lettura 17.7.16
Felicità Accettare la vita o provare a cambiarla Il bivio dell’uomo
L’esempio
di Solone, la lezione di Aristotele e la notizia della ricca ereditiera
che s’è fatta costruire un castello di materiali preziosi per il suo
cagnolino
Che cosa dà senso alle nostre esistenze? Accontentarsi
di quello che riusciamo a strappare? O cercare di costruire qualcosa di
nuovo? In fondo, noi siamo i nostri progetti
di Mauro Bonazzi
Che
la felicità sia la cosa più importante nessuno lo può negare. Tutto sta
a intendersi, però, su cosa sia e su cosa si debba fare per
raggiungerla. Gli antichi sarebbero rimasti sconcertati guardando le
pubblicità di oggi: si evocano sempre situazioni perfette, momenti
ideali che vanno colti per rendere uniche le nostre esistenze. Ma così è
banale: godere di attimi di intensa emozione non è difficile. E se non
ci si riesce, ci sono sempre i farmaci (e le droghe), come scrive Peter
Kramer in Listening to Prozac : una polemica ricorrente, negli Stati
Uniti e in Europa, riguarda una certa disinvoltura nella prescrizione di
psicofarmaci, anche a persone clinicamente non depresse. La chiamano
«psicofarmacologia cosmetica»: fa stare better than well , «meglio che
bene». Un po’ di euforia non la si nega a nessuno. Quello che importa,
però, è costruire una vita felice, soddisfacente, completa. Questa è la
sfida, ed è dubbio che il Prozac da solo possa bastare.
Per i
filosofi greci il problema della felicità non si poneva quasi: dipende
tutto da noi. Senza rendercene conto deleghiamo la nostra felicità,
lasciamo che altri decidano cosa valga e cosa no. Ossessionati dalla
pressione sociale, dalle attese altrui, dai luoghi comuni, perdiamo il
controllo su noi stessi, sempre in cerca di qualcosa e sempre
insoddisfatti. Ma se sapremo liberarci di tutto questo, potremo
riappropriarci delle nostre giornate, riscoprire cosa veramente vogliamo
e diventare ciò che siamo, come diceva Nietzsche, uno che i pregiudizi
li combatteva con il martello. Non è facile, ci vuole coraggio. Ma ne
vale la pena. Libero dalla servitù delle paure e delle passioni «vivrai
come un dio tra gli uomini», scriveva Epicuro. Tutto a posto, dunque?
Uno
dei politici greci più grandi fu Solone. Impose una riforma
costituzionale agli Ateniesi e, invece di chiedere la ratifica con un
referendum, partì, dopo essersi fatto promettere che nessuno l’avrebbe
modificata fino al suo ritorno. Sulle coste dell’Asia Minore incontrò
l’uomo più ricco e potente, Creso re di Lidia. Il sovrano gli mostrava
ricchezze immense, terre fertili, sudditi obbedienti, una famiglia
fedele: si potrebbe chiedere altro dalla vita? Eppure Solone si
rifiutava di dirlo felice. Perché la vita è lunga e non si sa mai:
«Aspetta la fine», diceva. Parole che irritarono il sovrano, ma di cui
avrebbe presto scoperto la verità, dopo che il suo esercito era stato
sbaragliato, il regno crollato e lui stava per essere bruciato vivo. I
momenti piacevoli e le emozioni intense non erano mancati a Creso. Ma si
potrebbe definire felice la sua vita, o quella di Priamo, il re
migliore che aveva visto tutto distrutto quando i Greci avevano preso
Troia? Viviamo in media 26.250 giorni, aveva calcolato Solone;
arrotondiamo pure a 30 mila: e «ogni giorno porta qualcosa di nuovo».
Meglio non affrettarsi, dunque, a gridare la propria felicità, «perché
molti il dio, dopo aver lasciato intravedere loro la felicità, li ha
abbattuti fin dalle fondamenta». Aspetta la fine, appunto.
Sembrano
storielle edificanti. Non lo sono. Napoleone spiegò a Goethe che la
politica ha ormai preso il posto del destino: forse aveva ragione, ma
per gli uomini la situazione non cambia. La crisi economica che ha
sconvolto l’Europa. Le tante guerre con le ondate di persone
improvvisamente costrette alla fuga, all’esilio in terre non sempre
ospitali. Non ci saranno più gli dèi invidiosi dei Greci o il Dio «che
toglie e che dà» della Bibbia, ma non è che le nostre esistenze siano
più sicure. Una scelta azzardata, un investimento sbagliato, un gesto
compiuto distrattamente che produce conseguenze impreviste. Una
malattia. Troppe cose scappano al nostro controllo. La prudenza di
Solone sembra più ragionevole della fiducia dei filosofi. Ma le sue idee
non sono espressione di semplice buon senso. Se Creso e Priamo sono il
modello, non resta che ammettere che la felicità non dipende da noi:
«Siamo in balia degli eventi». Solone era anche un poeta, come Eugenio
Montale: «Felicità raggiunta si cammina/ per te su fil di lama./ Agli
occhi sei barlume che vacilla,/ al piede, teso ghiaccio che s’incrina;/ e
dunque non ti tocchi chi più t’ama». Non si poteva esprimere meglio la
stessa idea. È un cambio di prospettiva radicale, uno scarto deciso
rispetto alle promesse dei filosofi.
Chi avrà ragione?
Chiuso
tra i suoi libri, mentre intorno il mondo cambiava vorticosamente,
anche Aristotele si poneva le stesse domande. Era un filosofo, ma si
preoccupò di ascoltare le ragioni degli altri. Di certo, i filosofi sono
troppo ambiziosi, così ambiziosi che qualche sospetto sulle loro idee
nasce. È vero che molto spesso ci rendiamo schiavi di noi stessi per
debolezza, perché incapaci di riflettere su cosa veramente ci serve o
desideriamo. Ma a quale prezzo possiamo conquistare la felicità
perfettamente autosufficiente degli dèi? Essere è sicuramente meglio che
apparire. Ma non basta essere giusti, saggi o virtuosi. Si tratta anche
di agire ed è qui che diventiamo vulnerabili, esposti come siamo alle
vicende del mondo. I filosofi vogliono sempre spiegare tutto, convinti
che ci sia un ordine dietro all’apparente confusione delle cose, e che
basti attenersi a quello per trovare la serenità. Ma così non si finisce
per rinchiudersi in uno schema preconcetto, rinunciando alle
concretezze della vita quotidiana, disordinata, imprevedibile,
contingente?
Agire, vivere, significa insomma immergersi nel
mondo, con tutti i rischi che comporta. Per evitare delusioni o
fallimenti non conviene allora modificare le proprie attese, imparando a
modellare le proprie giornate secondo i tempi scostanti e mutevoli
della realtà? Si celebrano sempre i caratteri forti, le persone che
sfidano impavide il corso degli eventi. Forse è meglio ridurre le
pretese, accontentarsi e sfruttare le occasioni che capitano. Ieri come
oggi, queste sono le parole d’ordine in un mondo precario. Lo pensava
Solone, e lo ripetono in tanti. Non sembra un’idea sbagliata.
In
parte lo è, secondo Aristotele. Perché in questo modo si rinuncia a
qualcosa di troppo importante. Appiattendoci tra le pieghe degli eventi
quello che verrebbe perso saremmo noi stessi: noi stessi, e le nostre
possibilità. Viviamo immersi nel tempo, esposti alle sue contingenze,
cercando di costruirci un’esistenza buona, giusta, soddisfacente.
Abbiamo progetti e ambizioni, private e pubbliche: costruire una
famiglia, migliorare la società in cui viviamo, trovare un lavoro
appagante. Non è semplice, certo, e c’è sempre la tentazione di lasciar
perdere, per paura di un insuccesso o per difficoltà oggettive. Ma se
rinunceremo a tutto questo per accontentarci di quello che riusciremo a
strappare o di quello che ci verrà concesso, non rinunceremo soltanto ai
progetti. Il rischio dei filosofi era quello di chiudersi davanti al
mondo; qui il rischio è perdere noi stessi, mentre la flessibilità
diventa rassegnazione. È inutile farsi illusioni: quello che siamo
dipende anche da quello che facciamo, dal modo in cui abbiamo deciso di
vivere. Noi siamo le nostre esperienze e i nostri progetti. Lottando per
questi lottiamo per noi.
Un po’ di inflessibilità e di
ostinazione aiutano a preservare noi stessi. Anche quando le cose non
vanno come speravamo che potessero andare. Amante delle classificazioni,
Aristotele ha distinto tra gli infelici e i non-felici. Non sono giochi
di parole. Infelice è chi ha rinunciato a se stesso, lasciandosi
vivere. Potrà essere stato fortunato, aver ottenuto tanto, ma anche in
quel caso la sua vita sarà trascorsa invano, senza progetti e idee.
Non-felice è chi ci ha provato e non è riuscito. Succede, a volte. Ma
chi offre prova maggiore del valore della vita umana, nella sua
irripetibile bellezza, tra chi combatte per una vita migliore e fallisce
(ognuno pensi a chi vuole: da Priamo a oggi gli esempi non mancano), e
quella ricca ereditiera che si è fatta costruire un castello di
materiali preziosi per il suo cagnolino (è una notizia comparsa sui
quotidiani nei giorni scorsi)? I primi sono un caso esemplare di vita
non-felice: di una vita che non può essere detta felice, nonostante
tutti gli sforzi compiuti. La vita di eterna vacanza della ricca
ereditiera è stata baciata dalla fortuna: può anche essere definita
felice? Ad alcuni sembrerà una domanda paradossale o ad altri uno
sfoggio di facile moralismo. Aristotele, comunque, non avrebbe avuto
dubbi: una vita così non è felice, è sprecata. E per questo infelice. Il
destino può sempre mettersi di traverso, ma la possibilità della
felicità dipende prima di tutto da quello che vorremo fare di noi
stessi. Su questo punto, decisivo, ha ragione Epicuro, non Solone. La
felicità non è un regalo, è qualcosa che ci costruiamo nel tempo.
Siamo
come generali, scrive ancora Aristotele, che devono organizzare le
truppe di cui dispongono nel modo migliore per vincere la battaglia.
Meglio pensare con Voltaire a dei giardinieri: ci vuole pazienza,
costanza, intelligenza. A volte succede che le cose non vadano come
previsto: le circostanze esterne contano, molto, e sarebbe folle
pretendere che non sia così. Bisogna imparare a fronteggiare anche gli
imprevisti. Ma il rischio e l’impegno rendono ancora più bello il
tentativo. Perché, piaccia oppure no, parte del valore delle nostre vite
consiste proprio nella sua fragilità e incertezza. Gli dèi, così
perfetti, non potranno mai capirlo, e neppure le persone troppo
fortunate. È una gioia osservare il giardino delle nostre vite prendere
forma, lasciando una traccia, un segno di quello che siamo e abbiamo
voluto essere. Le cose belle, si sa, sono difficili. Ma non impossibili.