La Stampa 8.7.16
Democrazia, un modello da rilanciare
di Luigi La Spina
L’ultimo
segnale, il più simbolico perché avvenuto nella patria della democrazia
moderna, l’Inghilterra, è arrivato dalle clamorose dimissioni di tutti i
principali leader della campagna per il referendum sull’Europa. A
cominciare da chi, come Cameron, l’ha incautamente indetto ed è stato
sconfitto a coloro che l’hanno vinto, come Johnson e Farage. Un gesto
che ammette il generale fallimento del rapporto di credibilità e di
fiducia tra il popolo e la classe politica che dovrebbe guidarne le
scelte fondamentali.
Una crisi, ormai, così evidente in tutto il
mondo occidentale di cui non si può più nasconderne il significato
dietro ipocrisie verbali: si tratta del tramonto della democrazia,
almeno di quella che abbiamo conosciuto nelle forme degli ultimi tre
secoli.
Il regime di governo sorto a metà del Seicento
nell’Inghilterra di Cromwell e, poi, diffuso negli ultimi secoli dello
scorso millennio nella gran parte del mondo occidentale con la classica
definizione di democrazia rappresentativa, si è fondato su quattro
fondamentali pilastri. Un Parlamento, istituzione deputata ad esprimere
la volontà popolare, partiti che raccolgono e orientano le diverse
opinioni politiche della società civile, corpi intermedi, come
sindacati, associazioni professionali e di categoria che rappresentano
interessi collettivi, una comunicazione politica tra elettori ed eletti
capace di informare e formare la coscienza critica dell’opinione
pubblica.
Tutti questi fondamenti della democrazia sono, e da
tempo, in una condizione di debolezza assoluta, sostanzialmente in una
decadenza irreversibile. Il Parlamento, non solo in Italia, ma in tutte
le nazioni occidentali, è solo il teatro di una rappresentazione scritta
altrove, senza alcun vero potere autonomo di decisione e senza che ne
sia riconosciuta e, quindi, rispettata, la funzione di specchio
affidabile della volontà popolare. I partiti, privi di ideologie forti,
capaci di esprimere non solo gli interessi, ma anche le speranze, i
sogni, la fiducia nella possibilità di costruire un futuro migliore del
passato, sono diventati clan di potentati personali, strumenti spesso di
corruzione pubblica e privata. Stessa sorte hanno avuto le associazioni
cosiddette «intermedie», appunto, tra classe politica e società civile,
i cui poteri si riducono molte volte a formare catene di resistenza di
interessi corporativi a qualunque riforma che tenti di ridurne privilegi
ormai insostenibili.
Trascurata, ma non meno importante come
segno di crisi della democrazia, è una comunicazione che, in nome di un
ingannevole rapporto diretto tra eletto ed elettore, ambisce ad abolire
qualsiasi filtro professionale di informazione e di giudizio
sull’operato della classe politica. Con il risultato di un progressivo
degrado del dibattito pubblico, come si vede sia in tv, sia attraverso
la rete di Internet e, quindi, di un tale abbassamento della coscienza
critica degli elettori da aprire la strada al più cinico e strumentale
populismo.
Effetto finale di questo complesso di debolezze dei
fondamenti della democrazia è la mediocre selezione della classe
dirigente e politica che produce leader privi di qualsiasi visione che
superi la prima prova elettorale, in una ricerca così esasperata del
consenso immediato da rinunciare al dovere di formarlo e indirizzarlo
verso obbiettivi che possono anche imporre sacrifici temporanei per
ottenere importanti vantaggi a più lungo termine.
La
contraddizione, a questo punto, è drammatica. Da una parte, società
ormai globalizzate e molto complesse come le nostre pongono problemi
difficili, le cui soluzioni hanno conseguenze vaste e poco prevedibili,
che non si possono risolvere in poco tempo, con scelte draconiane e
accettate da tutti. Dall’altra, classi politiche non adeguate alle dure
circostanze attuali illudono i propri sostenitori che si possano,
invece, adottare provvedimenti semplici, miracolistici, con effetti di
vantaggi collettivi evidenti e subitanei e, magari, senza colpire
interessi forti e irriducibili.
Le cure finora approntate dai
tanti stregoni che si affollano intorno al letto della nostre democrazie
malate aggravano il male e accelerano la loro fine. L’esaltazione dello
slogan «uno vale uno» si rivela un espediente maldestro di una
eterodirezione dell’opinione pubblica poco trasparente e, soprattutto,
incontrollabile. Uno slogan che, fingendo di ossequiare il giusto
rispetto per l’uguaglianza di tutte le persone nei loro diritti e nei
loro doveri, apre la via spianata agli abili e spregiudicati
manipolatori di coscienze, con conseguenze da brivido per i destini
futuri delle nostre società. Oppure, l’uso allargato e non corretto del
referendum come strumento di consultazione della volontà popolare si
rivela, spesso, inadatto a compiere scelte che non possono essere divise
tra un «sì» e un «no» o che estendono le conseguenze di quel verdetto
pure a chi non ha partecipato al voto, come nel caso della Brexit.
Bisogna
riconoscere, così come la chiara diagnosi del tramonto della democrazia
rappresentativa nel mondo occidentale agli albori del secondo
millennio, un’altrettanto chiara ammissione dell’assenza, finora, di una
terapia adeguata alla sua trasformazione in un regime politico capace
di soddisfare le esigenze di sicurezza, prosperità economica, fiducia
nel futuro e, perché no, felicità individuale dei futuri abitanti di
questa parte del nostro pianeta. Ma una giusta terapia non la si troverà
girando la testa per non vedere questo tramonto.