il manifesto 8.7.16
La Costituzione bottino di guerra
di Livio Pepino
Quando
mancano tre mesi al referendum sulla riforma costituzionale, la
Confindustria, il presidente del Consiglio e l’immancabile presidente
della Repubblica emerito si scatenano preannunciando, nell’ipotesi di
vittoria del No, sfracelli indicibili, tra i quali spicca – tragedia
senza pari – il ritorno del giovane e incompreso premier alla natia
Firenze. Ce ne faremo una ragione. Ma, intanto, è utile ricordare gli
sconquassi che una vittoria del Sì provocherebbe sul sistema politico
(ben più rilevanti delle personali fortune di Matteo Renzi e del suo
entourage).
Gli sconquassi sono molti ma uno li riassume tutti e
sta nella stessa concezione della politica sottostante alla riforma
Renzi-Boschi. Essa, infatti, non è una semplice (ancorché brutta)
operazione di ingegneria istituzionale ma un intervento che incide
profondamente e negativamente sul senso della Costituzione, sul suo
rapporto con la società, sulla struttura della democrazia. Partiamo,
dunque, da qui.
Le costituzioni contemporanee (non a caso definite
“rigide”, cioè modificabili solo con maggioranze qualificate e
procedure rafforzate), tracciano il quadro delle regole condivise
all’interno del quale si svolgono il confronto e, occorrendo, lo scontro
politico. Sono, in altri termini, l’elemento unificante di una
collettività. Così è stato per la nostra Carta del ’48, che ha
trasformato un paese diviso e lacerato (dal ventennio fascista, dalla
guerra e dallo stesso referendum istituzionale) in una casa comune,
riconosciuta come propria pur nelle profonde differenze ideali,
politiche, economiche e sociali dalla generalità dei cittadini. Non a
caso essa venne approvata, pur all’esito di un dibattito a volte aspro,
con 453 voti favorevoli su 515 e non ebbero ricadute sul patto
costituzionale neppure la rottura dell’unità antifascista e
l’estromissione delle sinistre dal Governo, intervenute nel maggio del
1947, come sottolineò, nella dichiarazione di voto per conto del Partito
comunista, l’onorevole Togliatti precisando che: «noi siamo fuori del
Governo ma dentro la Costituzione». Questa impostazione ha guidato tutti
i processi parlamentari finalizzati al cambiamento della Carta fino
alla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali istituita con
legge 24 gennaio 1997 e presieduta dall’onorevole D’Alema, i cui lavori
si conclusero senza alcun intervento modificativo perché, come annunciò
il presidente della Camera nella seduta del 9 giugno 1998, la
Commissione «ha preso atto del venire meno delle condizioni politiche
per la prosecuzione della discussione».
Tutt’altro il disegno che
ha ispirato la riforma approvata nell’aprile scorso da un Parlamento
eletto in base a una legge dichiarata incostituzionale: iniziativa del
Governo (pur privo di competenza al riguardo, tanto che, per esempio, in
sede di assemblea costituente l’allora presidente del Consiglio De
Gasperi intervenne una sola volta e, ostentatamente, dal suo seggio di
deputato e non nel ruolo di capo del Governo), iter parlamentare
caratterizzato da artifici e colpi di mano, spaccatura verticale nel
voto delle Camere (con prevalenza del voto favorevole per poche unità).
Non
è un fatto del tutto nuovo. Così vennero approvate, dal centrosinistra,
le modifiche costituzionali del 2001 (relative al titolo V) e, dal
centrodestra, quelle del 2006 (relative alla forma del Governo e dello
Stato). Ma si trattò allora di interventi limitati o bocciati, poi,
dall’esito referendario. Ora, anche con il supporto di una inedita
campagna mediatica, si persegue la chiusura del cerchio di un progetto
nato agli albori della cosiddetta seconda Repubblica su iniziativa di
forze politiche estranee al progetto costituzionale del 1948. Si deve,
infatti, al costituzionalista di riferimento della Lega, Gianfranco
Miglio, la teorizzazione secondo cui «è sbagliato dire che una
Costituzione deve essere voluta da tutto il popolo. Una Costituzione è
un patto che i vincitori impongono ai vinti. Qual è il mio sogno? Lega e
Forza Italia raggiungono la metà più uno. Metà degli italiani fanno la
Costituzione anche per l’altra metà. Poi si tratta di mantenere l’ordine
nelle piazze» (L’indipendente, 25 marzo 1994). Oggi quel progetto si
realizza e la Costituzione si trasforma da “casa di tutti” in “attico
per alcuni”, legge di parte, “bottino di guerra” dei vincitori.
Ciò
– è bene sottolinearlo – porta con sé la delegittimazione della
rappresentanza, l’esclusione in radice della mediazione e del confronto
come regola della democrazia, un modello di società divisa e disuguale
in cui non c’è posto per gli sconfitti. L’effetto inevitabile è una
società disgregata, senza punti di riferimento comuni (in particolare
nei momenti difficili, quando i governanti invocano l’unità del paese…),
in cui viene travolto nei fatti anche il principio di uguaglianza
previsto nell’articolo 3 della Carta (che non può fondarsi sulla
prevaricazione del più forte).