La Stampa 7.7.16
Appalti senza gara per i padiglioni. Così la mafia ha fatto affari a Expo
Arresti per gli appalti a Expo “I soldi finiti ai clan mafiosi”
L’irresistibile richiamo di Tangentopoli
di Mattia Feltri
Abracadabra:
la parola magica arriva anche a Milano. Dopo Mafia capitale, la mafia
sull’esposizione universale. Tutti quelli che vivono in Lombardia sanno
delle infiltrazioni forse da tre decenni, nessuna sorpresa.
Soltanto
dispiacere. E nonostante i magistrati abbiano detto che Expo non
c’entra nulla, che per ora è una questione fra criminalità organizzata e
imprenditoria, prevale l’immagine suggestionante del procuratore
Francesco Greco e del procuratore aggiunto Ilda Boccassini stretti in
conferenza stampa, loro che furono gli immediati eredi degli Eroi di
Mani Pulite: Tonino Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo,
periodicamente ricondotti alle glorie delle cronache. La politica è
fuori dal pasticcio, dicono i due, ma non importa, il piatto è ricco,
forze politiche di opposizione si giocano l’occasione buona, protestano
per una specie di fallo di confusione: la parola «mafia» è
l’irresistibile richiamo di chi fa il gioco sporco, e si diverte a far
passare la classe dirigente vecchia, o seminuova, come l’inevitabile
prolungamento del malaffare. E’ chiaro che bisogna stare attenti,
bisogna preoccuparsi, niente va preso sotto gamba ma di colpo, anzi
ancora, per la millesima e periodica volta, ci ritroviamo immersi in una
fumisteria di inchieste, intercettazioni estranee alle indagini ma
riversate in gran copia sui giornali, di pettegolezzi e di maldicenze,
di tutta quella materia giudiziaria e psichedelica trasformata in armi
non convenzionali della discussione democratica.
Sarebbe
davvero un peccato se mancasse buon giudizio e intelligenza nel
valutare i fatti di queste ore, soprattutto al Nord, perché Milano da un
paio d’anni aveva tutta l’aria della città in uscita e a petto in fuori
dalla depressione post Tangentopoli, una città in fibrillazione,
cresciuta in verticale e in bellezza e in modernità al pari delle più
scintillanti metropoli occidentali, di nuovo colma di buon umore e di
ottimismo, un futuro promettente e da bere - sì, da bere - in cima ai
vecchi palazzi rimessi in ghingheri, riflesso in vetrine inesistenti in
altre parti d’Italia, dove la rabbia a cinque stelle si è fermata a un
dieci per cento, cifra accettabile di malcontento. Sarebbe un peccato se
una inchiesta della procura senza squilli e rulli di tamburi fosse
utilizzata con cecità tutta italiana per robetta di bottega, per
raccattare qualche votino in più a diffamazione globale di una società
che qua e là funziona, come sembra funzionare Milano.
Le
faccende di Angelino Alfano non sono poi così diverse. Un giorno il
ministro dovrà rendere conto agli elettori, e non agli strepiti via
social, del suo nebbioso progetto politico, ma montare l’indignazione
planetaria per intercettazioni valutate penalmente irrilevanti dalla
magistratura, e regalate per i collage di virgolettati dei giornali, non
è da Paese serio. I limiti giuridici dell’utilizzo delle
intercettazioni sono già stati rimarcati ieri sulla Stampa dalla scienza
del professor Carlo Federico Grosso. Però sono avvilenti le minoranze,
ora di destra, altre volte di sinistra, a capofitto come cani sull’osso,
a chiedere chiarimenti parlamentari, a dare un segnale di vita in una
diretta televisiva dal Parlamento in cui si innalzano misteriose virtù
opposte alla Casta di turno. Se Alfano debba dimettersi o no è questione
politica, e seria, e non andrebbe trattata in questo modo, in cui si
ricorda la caduta di Maurizio Lupi e si dimentica che quella inchiesta
si è chiusa in niente. Che partiti e movimenti in attesa del potere
godano di un pretesa e immortale Tangentopoli, e ci marcino senza
curarsi se poi toccherà a loro, è il segno di un’Italia incapace di
volersi bene.