La Stampa 6.7.16
Il vecchio capitalismo ha i secoli contati
Pioggia
di nuovi libri sul sistema politico ed economico che ha segnato
l’Occidente: dai critici degli squilibri della globalizzazione alla
nuova era socio-tecnologica
di Massimiliano Panarari
Il
capitalismo è come l’araba fenice. Capace di rigenerarsi dalle sue
ceneri, sospinto dalla schumpeteriana distruzione creatrice a risorgere
incessantemente, e vocato darwinisticamente a fare la selezione naturale
al proprio interno, con nuovi business al posto di quelli «fossili» e
«rottamati».
L’economia di mercato è il paradigma che ha garantito
all’Occidente una straordinaria diffusione del benessere, ma ha
partorito recentemente un (turbo)capitalismo velocissimo e sempre più
smaterializzato al prezzo di un aumento mai visto in precedenza della
forbice delle disparità sociali. Un tema su cui riflette il filosofo
liberale Harry G. Frankfurt nel suo Sulla disuguaglianza (Guanda, pp.
108, euro 11), dove sostiene che esiste un dovere morale alla rimozione
della povertà, ma di sicuro non all’attuazione dell’uguaglianza
economica; e su cui si confrontano, ne La società dei diseguali
(Castelvecchi, pp. 46, euro 5), l’economista-star Thomas Piketty e la
giurista e politica della sinistra del Partito democratico Elizabeth
Warren rigettando quella «teoria dello sgocciolamento» che fu uno dei
cavalli di battaglia del reaganismo.
L’ipoteca morale
Il
capitalismo torna così al centro della battaglia delle idee. O, per
meglio dire, lo è sempre stato, come dimostra il volume di John Plender.
La verità sul capitalismo (Bollati Boringhieri, pp. 270, euro 23).
L’autore - già editor per la finanza dell’Economist e ora editorialista
di punta del Financial Times) - ha tutte le carte in regola per
raccontare la storia delle travagliate liaisons dangereuses tra il mondo
intellettuale e questo modello economico, fondato sul movimento e la
dinamicità, ma oggetto praticamente da sempre di un’ipoteca di tipo
morale. Con la differenza, appunto epocale, che ora, dopo - e nonostante
- la Grande recessione del 2008, i suoi avversari non riescono a
proporre sistemi alternativi. L’unica minaccia possibile viene dunque
direttamente dalle sue viscere, e si chiama instabilità (come aveva
intuito Karl Marx, il suo critico più totale e al contempo, per molti
versi, un suo fervente ammiratore).
Plender accompagna il lettore
lungo un fascinoso dibattito intellettuale, che si intreccia con la
cultura occidentale, tra alfieri e nemici del mercato. Troviamo così
l’accanita discussione intorno alla «tulipanomania», la prima bolla
finanziaria accertata, scoppiata in materia di prezzo dei tulipani in
una fino ad allora fiorentissima potenza mercantile, l’Olanda del
Seicento; e scopriamo che Charles Dickens, un bel po’ di tempo dopo,
evidenziò in alcuni romanzi una perfetta comprensione dei meccanismi che
presiedono la «psicologia delle bolle», che per Jonathan Swift era un
altro modo, de facto, di intendere la «pazzia delle folle».
La mano invisibile
Si
apprende che la «mano invisibile» ha un prequel: prima di divenire
l’originale formula (destinata a fama imperitura) di Adam Smith, il
concetto era stato in qualche modo elaborato, in momenti diversi, dal
teologo medievale Ugo di San Vittore, da Blaise Pascal e anche da
Giambattista Vico. La globalizzazione degli affari trovò un acuto
teorizzatore, già a inizio Settecento, nello scrittore e uomo politico
Joseph Addison, cofondatore del modernissimo quotidiano londinese The
Spectator. Voltaire e gli illuministi si fecero moschettieri
dell’interesse personale e del commercio quali veicoli di pace tra le
nazioni e anticorpi rispetto al fanatismo religioso. E, via via,
attraverso i secoli della modernità del Vecchio e del Nuovo continente,
si arriva fino ai megabanchieri americani del XX secolo, e a quella
«questione etica» portata alla luce da John Maynard Keynes quando, nella
sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta,
descriveva il processo per cui la speculazione aveva finito per
soppiantare l’investimento a lungo termine.
Si torna così alla
dimensione morale che sempre circonda il denaro flottante, già «sterco
del demonio» nel Medioevo cristiano oppure, al contrario, segno
tangibile di un vincolo da rispettare, quel debito necessariamente da
onorare pilastro della Germania protestante, dalla dinastia bancaria dei
Fugger sino agli ordoliberali del secondo dopoguerra e agli odierni
«falchi» capitanati da Wolfgang Schäuble.
Lehman Brothers
Plender
iniziava il suo racconto dal fallimento della banca d’affari Lehman
Brothers. Un episodio talmente emblematico da diventare, qui da noi,
un’opera teatrale grazie a Luca Ronconi e alla sua Lehman Trilogy
scritta dal drammaturgo Stefano Massini, che ha da poco pubblicato un
libro sul Lavoro (il Mulino, pp. 132, euro 12). All’altro capo rispetto
alla finanza «immateriale», difatti, si potrebbe proprio collocare il
lavoro nella sua concretezza e «pesantezza», da intendersi anche come
gravitas. Massini si interroga sulle sue metamorfosi attuali con lo
sguardo dell’uomo di teatro, mentre sempre dalle parti del mondo dello
spettacolo arriva un’altra riflessione sul tema, quella
dell’intellettuale della televisione per antonomasia, Carlo Freccero,
che analizza L’idolo del capitalismo (Castelvecchi, pp. 46, euro 5) in
bilico tra Adorno, Debord e il film «Matrix».
E oggi, secondo il
giornalista britannico Paul Mason, siamo entrati nell’età del
Postcapitalismo (Il Saggiatore, pp. 382, euro 22), quella del cambio di
paradigma. Se il socialismo per Lenin era la somma del potere dei soviet
e della elettrificazione, nella versione postmodernizzata di Mason
basta sostituirli, rispettivamente, con la nozione di comunità
collaborativa degli utenti e con le Ict (information and communications
technologies), e «il gioco (meglio, il download) è fatto». Insomma, il
sol dell’avvenire sorgerà e avrà le sembianze del socialismo digitale: e
il determinismo high tech si fonde così con quello politico. Ma chissà
quale sarebbe l’opinione di Marx in proposito.