La Stampa 4.7.16
Pd, il rischio di saltare il dibattito
di Federico Geremicca
Aleggia
un rischio sul Matteo Renzi che riunisce oggi, dopo due rinvii, la
Direzione del Partito democratico: la sottovalutazione - o addirittura
la rimozione - di quanto accaduto (ormai quindici giorni fa) nei
ballottaggi per il governo delle grandi città.
Almeno un paio di novità, infatti, potrebbero indurre il premier-segretario in questa tentazione.
La
prima - che potremmo definire il rischio del «c’è ben altro cui
pensare» - sta nei drammatici sviluppi internazionali che hanno segnato
le due ultime settimane: dalla Brexit alle nuove stragi del terrorismo.
La seconda - che in fondo è il solito «mal comune mezzo gaudio» -
risiede invece nelle forse inattese ma comunque pesanti difficoltà che
il Movimento Cinque Stelle sta incontrando nell’avvio della sua
esperienza di governo a Roma.
Certo, la Brexit ha cambiato molte
delle carte che erano sul tavolo europeo, rovesciando sull’Italia
diversi problemi ma anche inedite opportunità: e il nuovo «direttorio
Ue» Merkel-Hollande-Renzi, subito riunito dopo l’addio di Londra, rende
in qualche modo plastico il ruolo di maggior responsabilità cui il
nostro Paese è chiamato. Discutere di questo non è certo un errore:
farlo, però, magari con l’obiettivo recondito di aggirare i problemi
aperti in Italia, potrebbe risultare oltremodo pericoloso.
Stesso
discorso per le difficoltà del Movimento di Beppe Grillo, i cui problemi
a Roma sono evidentissimi ma nulla c’entrano, evidentemente, col
rovescio elettorale subito dal Pd. Il pantano nel quale sono finiti i
«grillini» nella Capitale, testimonia solo - al massimo - che certi vizi
della politica (correntismo, personalismi e dossieraggio) hanno
attecchito rapidamente anche lì: e che la neo-sindaca Virginia Raggi
farà bene a scegliere in fretta tra l’autonomia di cui l’hanno investita
i cittadini e certi regolamenti interni di staliniana memoria.
Il
Pd, i suoi problemi e il suo declinante radicamento territoriale hanno
insomma poco a che fare con la Brexit e le magagne a Cinque Stelle.
Discutere della forma-partito, delle difficoltà incontrate nelle
periferie e perfino dell’opportunità di tenere vincolati i ruoli di
segretario e di premier, dunque, non sarà (non sarebbe) inutile: resta
da capire se Renzi intenderà farlo.
A giudicare dall’intervista
concessa ieri a Maria Latella (Sky) - e volendola considerare
un’anticipazione di quel che il segretario dirà oggi in Direzione - la
minoranza interna non dovrebbe avere molti motivi d’ottimismo. La linea
sulla quale sarebbe attestato Renzi, infatti, non parrebbe molto
distante dalle valutazioni espresse subito dopo il voto: valutazioni che
Bersani, Cuperlo e Speranza non hanno fatto mistero di non apprezzare.
La
posizione del premier-segretario, in sostanza, non dovrebbe concedere
molto alle richieste ed ai problemi sollevati fin qui dalla minoranza:
le ragioni della sconfitta sarebbero da ricercare in un mix di fattori
locali e «voglia di cambiamento» che il Pd non è riuscito - città per
città - a intercettare; di organigrammi e vicesegretari unici non
sarebbe nemmeno il caso di parlare; sull’Italicum non esisterebbero
maggioranze parlamentari sufficienti a cambiarlo e il dibattito intorno
alla separazione delle cariche di segretario e premier - dulcis in fundo
- sarebbe addirittura «lunare».
Se dovesse andare davvero così,
il Pd rischierebbe di perdere un’occasione di discussione che sembra
ormai imposta dai fatti. I sondaggi danno il Movimento Cinque Stelle a
ridosso o addirittura davanti al Partito democratico e lo stesso
consenso alla figura del premier cala, in ragione della crisi che ancora
attraversa il Paese. Bypassare tutto ciò per continuare a scommettere
sugli effetti salvifici del referendum costituzionale di ottobre,
potrebbe essere un grave errore: non solo perchè oggi le priorità sono
altre, ma perchè su quel risultato e sui suoi effetti quasi nessuno più è
disposto a scommettere il classico euro.