La Stampa 17.7.16
Le convention al tempo della paura
di Maurizio Molinari
Nell’arco
di dieci giorni le Convention elettorali di Cleveland e Philadelphia
vedranno repubblicani e democratici esprimere volti, idee e programmi in
aspra competizione per la conquista della Casa Bianca. E dunque per
assumere la leadership di un mondo libero assediato dalle crisi
riassunte da quanto avvenuto nelle ultime tre settimane: lo scontento
sociale che ha causato Brexit, il terrorismo jihadista che ha
insanguinato Dacca e Nizza, le crisi internazionali come il fallito
golpe in Turchia e il conseguente complessivo indebolimento delle
proprie alleanze, Ue e Nato.
Le democrazie industriali
dell’Occidente sono in affanno davanti ad un complesso di sfide senza
precedenti dal termine della Guerra Fredda: si tratta di ridisegnare un
modello economico capace di sanare le diseguaglianze causate dalla
globalizzazione, di redigere una dottrina della sicurezza collettiva per
difendersi dai nuovi nemici e di concordare principi comuni per
affrontare un ordine internazionale in progressiva decomposizione.
Queste
sono le ragioni per cui i cittadini dell’Occidente guardano alla
Quicken Loans Arena di Cleveland ed al Wells Fargo Center di
Philadelphia.
Lo fanno per tentare di comprendere se gli Stati
Uniti possono contribuire, ancora una volta nella Storia, a trovare le
risposte di cui c’è bisogno.
Sulla carta alcuni indicatori
suggeriscono scetticismo: da un lato a Cleveland si riunisce una partito
repubblicano polverizzato dalla nomination del controverso magnate
Donald J. Trump e dall’altro a Philadelphia si ritrova un partito
democratico unito attorno a Hillary R. Clinton, sostenitrice di alcune
politiche del presidente Barack Obama all’origine dell’attuale fase di
instabilità. Con i conservatori incapaci di esprimere un leader
condiviso ed i liberal rivolti all’indietro, l’America rischia di essere
in ritardo rispetto alla missione che può svolgere. Ma «la nazione
indispensabile del Pianeta», come la definì l’ex Segretario di Stato
Madeleine Albright, resta il laboratorio di approcci che sfidano
convenzioni e pregiudizi. Per accorgersene bisogna fare attenzione a
quanto affermano gli sfidanti. Hillary propone una politica di sicurezza
«più robusta» contro avversari come Isis e rivali come la Russia. Trump
immagina una ridefinizione di disoccupazione e povertà per includervi
il ceto medio indebolito che sfugge ai parametri esistenti. Bernie
Sanders, rivale di Clinton nelle primarie democratiche, progetta un
aumento del salario minimo al ritmo del 2,5 per cento annuo per
risollevare i consumi di chi non spende. Mike Pence, vice di Trump,
propone una riforma dell’immigrazione per incentivare gli arrivi sulla
base di posti di lavoro assegnati prima della partenza dai rispettivi
Paesi di origine.
Sono idee come queste a suggerire che la sfida
fra Hillary, paladina dell’establishment, e Trump, leader dei populisti,
si preannuncia come uno scontro aspro sull’identità dell’America capace
di trasformarsi nel volano di programmi di cui l’Occidente ha bisogno
per risollevarsi. Se invece a prevalere, a Cleveland e Philadelphia,
dovessero essere aggressività verbale e violenza fisica - ripetendo
quanto avvenne alla Convention democratica di Chicago nel 1968 - gli
Stati Uniti rischierebbero di precipitare in un vortice di debolezza
cronica, foriero di conseguenze negative anche per l’Europa. Ecco perché
quanto avverrà dall’apertura, domani, dei lavori repubblicani a
Cleveland fino alla chiusura, il 28 luglio, di quelli democratici a
Philadelphia, conta non solo per i cittadini americani ma per tutti.