domenica 17 luglio 2016

La Stampa 17.7.16
Ankara isola la base militare
“America, consegnaci Gulen”
Tolta la corrente a Incirlik da dove decollano i jet per i raid contro l’Isis
di Paolo Mastrolilli

La base di Incirlik, in cambio dell’estradizione di Fethullah Gulen, il leader del movimento Hizmet che Erdogan accusa di aver fomentato il golpe fallito in Turchia. La tensione che cresceva da anni fra Ankara e Washington si sta trasformando in un braccio di ferro da cui dipende il futuro delle operazioni contro l’Isis in Siria, e l’intera presenza della Nato nella regione.
All’inizio del suo mandato, il presidente Obama aveva cercato di costruire una relazione con il collega turco, ma il rapporto nel frattempo si è deteriorato, al punto che durante il recente vertice nucleare di Washington il capo della Casa Bianca ha praticamente ignorato Erdogan. I motivi sono principalmente due: primo, il leader di Ankara ha consentito all’Isis di usare il suo territorio come voleva, nella speranza che facesse cadere Assad; secondo, la sua gestione dello stato è diventata progressivamente sempre meno democratica e rispettosa dei diritti umani. La Turchia, da parte sua, rimproverava agli Stati Uniti di aver ospitato Gulen, che da quasi dieci anni vive in Pennsylvania, dopo aver costruito un grande network di scuole charter in America.
L’intelligence Usa è rimasta sorpresa dal golpe, e il presidente Obama è stato il primo a condannarlo, dopo una telefonata col segretario di Stato Kerry in visita a Mosca. I complottisti però pensano che sia stata proprio Washington ad organizzare la sommossa, e le prime reazioni del governo turco hanno quanto meno confermato questi sospetti.
Poche ore dopo l’inizio del colpo di stato, infatti, la luce è stata staccata alla base di Incirlik, dove operano 1.500 soldati americani impegnati nei raid contro l’Isis in Siria. La base ha i propri generatori e e poteva continuare le operazioni, ma l’esecutivo ha chiuso lo spazio aereo obbligando i caccia della coalizione a restare a terra. A mezzogiorno il portavoce del Pentagono, Peter Cook, ha detto che «per ora l’attività della base è ancora sospesa», e il Comando Centrale è stato costretto a cercare soluzioni alternative per continuare le missioni. Mentre Incirlik veniva bloccata, Erdogan ha sfidato Gulen, suo ex alleato, a tornare in Turchia: «Alla Pennsylvania dico: hai già commesso abbastanza atti di tradimento contro la patria. Torna qui, se hai coraggio». Parlando alla tv, il presidente appena sopravvissuto al golpe ha aggiunto che se gli Stati Uniti sono un partner strategico del suo paese, dovrebbero accogliere la richiesta di estradizione, anche perché Ankara in passato non si è mai rifiutata di consegnare i terroristi agli americani: «Caro Presidente Obama, te lo avevo già detto. Deporta Gulen o rimandalo in Turchia. Tu non hai ascoltato, te lo chiedo di nuovo».
La risposta è arrivata dal segretario di Stato Kerry, che parlando in Lussemburgo ha detto di non aver ancora ricevuto una domanda formale per la consegna di Gulen, ma, prevede, «ci verranno poste domande su di lui». Quindi il responsabile della diplomazia Usa ha chiarito: «Invitiamo il governo turco, come facciamo sempre, a presentarci prove legittime che rispettino i nostri standard. Gli Stati Uniti le analizzeranno, e la giudicheranno in maniera appropriata».
Questo adesso è un nodo centrale nelle relazioni fra i due paesi. Washington dice di essere disposta a discutere l’estradizione di Gulen, se Ankara fornirà le prove che ha organizzato il golpe. Se però le sue colpe non saranno dimostrare, gli Usa non sono disposti a facilitare la repressione e la vendetta di Erdogan. Gli americani hanno bisogno della Turchia contro l’Isis, ma non al punto di rinunciare ai principi fondanti della loro democrazia. Da questo braccio di ferro dipenderà il futuro di Daesh, la stabilità regionale, e forse lo stesso ruolo di Ankara nella Nato.