giovedì 14 luglio 2016

La Stampa 14.7.16
Ecco i mille chilometri di ferrovie dove i pendolari rischiano ogni giorno
Per salvare le 23 vittime pugliesi sarebbe bastato un investimento di 4 milioni
di Alessandro Cassinis

Sarebbero bastati meno di 4 milioni di euro per mettere in sicurezza il binario della morte. Un sistema automatizzato «modello base» tipo Ertms per linee convenzionali, molto più efficace dell’ormai tragicamente famoso blocco telefonico, costa 100 mila euro a chilometro, cento volte meno del raddoppio, che si aggira sui 10 milioni al chilometro, più 20 per le gallerie. Ma nessuno poteva imporre alla Ferrotramviaria e alla Regione Puglia di fare questo investimento: l’Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria (Ansf) non ha alcun potere sulle linee «ex concesse», ossia su tutte le reti regionali affidate in gestione a privati o a enti pubblici.
In Italia ci sono 3365 chilometri di ferrovie che non appartengono alla rete nazionale o regionale Rfi, quella delle Ferrovie dello Stato, ma a una trentina di soggetti diversi, pubblici, privati o misti. Duemilasettecento chilometri di questa rete sono a binario unico, ma fin qui nulla di male, perché il doppio binario significa solo più capacità di trasporto, non più sicurezza. Il ministro Graziano Delrio riferisce però che 600 chilometri a semplice binario sono governati con il sistema del blocco telefonico e quindi sono a rischio esattamente come la Ruvo-Barletta. Se diamo un’occhiata alle linee che sfuggono ai controlli dell’Agenzia nazionale della sicurezza (vedi la mappa accanto) possiamo arrivare a un totale di mille chilometri sotto gli standard di sicurezza minimi. Ci sono infatti ferrovie a doppio binario senza un sistema automatico per il distanziamento dei treni e ancora troppi arcaici marchingegni che l’Agenzia ha condannato alla rottamazione sulla rete Rfi. Ma in ogni caso cento milioni di euro basterebbero a liberare i pendolari di tutta Italia dall’incubo di uno scontro frontale o di un tamponamento.
Facciamo un passo indietro. Nel 1991 l’Europa, con la direttiva 440, impone la liberalizzazione del servizio ferroviario. Nasce il problema di controllare che tutti gli operatori rispettino le norme di sicurezza. Nel 2007 nasce l’Ansf, che però prende sotto il suo controllo solo Rfi, la rete principale, con la missione di estendere «gradualmente» le sue competenze a tutte le altre imprese. Non lo potrà mai fare. Nel 2015 Delrio firma una bozza di decreto ministeriale per dare ad Ansf, ora presieduta da Amedeo Gargiulo, la vigilanza su tutte le altre ferrovie. La presenta il 2 febbraio alla Conferenza delle Regioni e qui il provvedimento si incaglia. Ovvio: l’Agenzia imporrebbe investimenti in sicurezza che gli enti locali farebbero solo tagliando i servizi o scaricando il peso sugli utenti.
Ecco un esempio. Nel 2012 una direttiva dell’Ansf impone a Rfi di eliminare il blocco elettrico manuale, un sistema che molti ferrovieri rimpiangono per la sua efficace semplicità: rossi e solidi come macchine del caffè da bar, questi «istrumenti» servivano ai dirigenti del movimento a bloccare l’accesso dei treni sul semplice binario finché questo era impegnato da un altro convoglio. Rfi li ha tolti, così come aveva fatto con il blocco telefonico, e fra il 2005 e il 2015 ha equipaggiato tutte le sue linee con i più moderni sistemi elettronici. Investimenti importanti, che le Regioni e i soggetti privati non hanno nessuna voglia di sostenere.
Nell’Italia a due velocità le ferrovie secondarie amministrano la sicurezza secondo coscienza e portafogli, con grande libertà e fantasia. In Lombardia Ferrovienord adotta il blocco automatico a correnti codificate e il blocco conta assi, molto affidabili, e sta installando il sistema di controllo marcia treno e il sistema di supporto alla condotta come sulle linee Rfi. In Piemonte Gtt (Gruppo torinese trasporti, controllato dal Comune di Torino), che opera su 57 chilometri di binario unico e su altrettanti di doppio binario fra Torino e Ceres e sulla Canavesana, unisce sistemi automatizzati a vecchie tecniche come il «sistema a spola» fra Pont e Rivarolo e fra Ceres e Germagnano. In Liguria la ferrovia a scartamento ridotto Genova-Casella, l’adorato trenino rosso che ha appena ripreso servizio fra ali di folla, ricorre ancora al telefono: il capotreno scende in una delle 11 stazioni di incrocio, chiama la «centrale» e chiede il consenso per passare. La velocità media è di 25 chilometri l’ora. Sistemi artigianali resistono in Sardegna (Sassari-Sorso), in Campania, in Calabria (Cosenza-Catanzaro Lido), in Sicilia (Circumetnea).
Tutte queste imprese non Rfi rispondono al ministero dei Trasporti attraverso gli Ustif, Uffici speciali trasporti a impianti fissi, che danno il nulla osta e ogni sei mesi controllano a piedi la linea e visitano locomotori e vetture.
«Gli Ustif sono carrozzoni», tuona Dario Balotta, presidente dell’Osservatorio nazionale liberalizzazioni infrastrutture e trasporti, ex segretario della Fit-Cisl Lombardia. «Così non si garantisce la sicurezza per tre milioni e mezzo di pendolari».