La Stampa 11.7.16
Matteo Renzi cambia i toni sul referendum
di Federico Geremicca
Da
qualche giorno Matteo Renzi approccia il doppio rebus referendum
costituzionale-Italicum in termini diversi rispetto a qualche settimana
fa. La sensazione è che la correzione di rotta riguardi, per il momento,
più i toni che la sostanza delle questioni aperte: ma è giusto
osservare che, se anche si trattasse solo di questo, il confronto tra
gli schieramenti in campo avrebbe certo da guadagnarne.
La nuova
posizione del presidente del Consiglio potrebbe esser definita di
scettica apertura o - per certi versi - addirittura di agnostica
terzietà. Cambiare l’Italicum? «E’ una buona legge, ma io non ne parlo
più: è nella disponibilità del Parlamento». «Spacchettare» i quesiti
referendari, concedendo ai cittadini un voto più articolato? «Io sarei
per la scheda unica: ma se le Corti decideranno in altro modo, non avrò
problemi».
Difficile dire se si tratti di un aggiustamento di toni
determinato dal mezzo rovescio elettorale di giugno o del tentativo di
svelenire il clima in apertura di una settimana che si annuncia
complicata: fatto sta che minoranza Pd e alleati centristi di governo
hanno festeggiato questo aggiustamento come foriero di importanti
novità.
Quanto questo «disgelo» sia effettivo lo si potrà
apprezzare già mercoledì nell’aula del Senato, dove va ai voti un
provvedimento (la riforma dei bilanci degli enti locali) che ha bisogno,
per l’approvazione, della metà più uno dei componenti l’Assemblea: una
soglia (161 voti) impegnativa da raggiungere, tanto per i mal di pancia
degli alleati dell’Ncd quanto per il fatto che stavolta mancherà il
«soccorso» dei senatori di Denis Verdini.
Non è la prima volta che
la maggioranza di governo affronta il voto di Palazzo Madama con il
batticuore, ma lo stabilizzarsi di questa precarietà - il ritorno, cioè,
dell’«incubo-Senato» di prodiana memoria - rischia di avere sul Pd un
effetto perfino psicologicamente deprimente. Del resto, solitamente sono
proprio i numeri (quelli delle elezioni o delle maggioranze
parlamentari, per dire) a tradurre in maniera plastica difficoltà che
analisi consolanti e annunci di contrattacco tentano di nascondere.
Da
questo punto di vista, le sconfitte di Roma e Torino e l’appesantirsi
del clima intorno al governo stanno lasciando segni che il premier ha
smesso di sottovalutare. Dall’interno della sua stessa maggioranza nel
Pd, del resto, continuano ad arrivargli inviti alla riflessione (sabato
lo hanno fatto Fassino e Chiamparino, che di Renzi non sono certo
nemici).
E l’interrogativo di fondo - rilanciato già subito dopo
la sconfitta di Torino proprio dal Piemonte - sembra esser ormai chiaro:
perché, a differenza di quel che accadeva ancora due anni fa, il Pd a
«trazione renziana» non raccoglie più quella spinta al cambiamento che
pare esser diventata prerogativa esclusiva del Movimento Cinque Stelle?
L’interrogativo
ha diverse risposte possibili, ma risulta comunque ostico per Matteo
Renzi la cui giovane leadership sembrava la più indicata per arginare il
fenomeno-Grillo. Cosa non ha funzionato? Dove si è sbagliato? E basta
consolarsi con l’affermazione che oggi «le leadership invecchiano
presto»? Gli avversari del premier ne dubitano e segnalano diversi
errori.
Quello capitale, in fondo, è così riassumibile: come è
stato pensabile tentare di prosciugare i consensi dei «grillini»
stipulando prima il patto del Nazareno con Berlusconi e poi un’alleanza
con Verdini? Insomma, molte delle difficoltà di oggi - accusano i nemici
del premier - sono frutto di scelte politiche sbagliate compiute ieri.
Renzi non ne è certo, ma ascolta e riflette: non escludendo, magari, di
correggere qualcosa. Cominciando dai toni, certo. Che può sembrare poco:
ma invece non lo è affatto, considerato il profilo caratteriale del
premier.