domenica 3 luglio 2016

Il Sole Domenics 3.7.16
Grande Guerra / 2
Il feroce attacco della Spagnola
di Raffaele Liucci

La Grande Guerra non segnò soltanto una lussureggiante esplosione di modernità, ma anche un paradossale ritorno all’antico. Secondo lo storico Jay Winter, propiziò la rinascita di «un complesso vocabolario tradizionale, ispirato a modelli classici, romantici o di tipo religioso», i soli in grado di elaborare l’enormità del lutto. La stessa guerra di trincea – ha osservato un altro studioso, Eric J. Leed – trasfigurò i fanti in tenebrosi cavernicoli, dando loro l’impressione di trovarsi a combattere «in un ambiente pre-civilizzato, che aveva ben poco in comune con il mondo tecnologico». Quando poi, verso la fine del 1918 (a conflitto quasi concluso), la terribile febbre spagnola raggiunse l’apice di aggressività, ai contemporanei sembrò di precipitare in un nuovo medioevo. «Dai tempi della Morte Nera – si lesse sul «Times» del 18 dicembre – mai una simile pestilenza aveva spazzato la faccia del mondo. E mai, forse, una pestilenza è stata accettata più stoicamente».
Fu una «strage invisibile», racconta Riccardo Chiaberge, «occultata prima dalla censura militare, poi dalla generale amnesia». Ma fu anche l’epifenomeno della nascente globalizzazione. Il frenetico spostamento di enormi quantità di uomini e di merci, unito al carnaio delle trincee, agevolò infatti la diffusione del virus. Oggi le cronologie vi dedicano pochi cenni, però «l’epidemia del secolo» provocò tra il ’18 e il ’20 oltre 50 milioni di decessi (mentre i civili e militari uccisi nella Prima guerra mondiale furono «solo» 12-13 milioni), assumendo contorni apocalittici. «Basta vedere le tre colonne dei morti della gente per bene nel “Corriere” per persuadersi qual è la morte nei quartieri popolari», scriveva Anna Kuliscioff a Filippo Turati: «Non si sa più dove mettere i bambini orfani di madre e i cui padri sono al fronte». Sprovvisti di rimedi efficaci (la penicillina entrerà in produzione industriale solo nel ’43), gli ammorbati si spegnevano nel giro di pochi giorni, tra violentissimi colpi di tosse e sbocchi di sangue. Una morte «sporca», lontanissima dall’epica guerriera decantata nei monumenti ai caduti innalzati dopo la fine del conflitto.
Ripercorrere le vicende della «più catastrofica pandemia della storia», come ha fatto Chiaberge con stile vivace e seducente, non significa soltanto districarsi fra virus, teorie del complotto (i germi dell’influenza disseminati in gran segreto dai sommergibili tedeschi), improbabili untori (gli operai cinesi impegnati come manovalanza nei campi di battaglia) e pozioni salvifiche spacciate dagli immancabili ciarlatani. Significa soprattutto rievocare uomini e donne, a volte illustri. La «spagnola», infatti, «colpisce alla cieca», sparigliando destini individuali e collettivi.
Come sarebbe stata la nostra infanzia se il sedicenne Walt Disney non avesse sconfitto l’influenza nel settembre 1918? All’epoca, il futuro ideatore di Mickey Mouse guidava ambulanze per la Croce rossa Usa. Purtroppo, in età matura non si salverà da un altro virus, quello maccartista, che durante la Guerra fredda lo porterà a denunciare i colleghi davanti alla Commissione per le attività antiamericane. Altri due celebri statunitensi guariranno dalla «spagnola»: Franklin Delano Roosevelt, allora vice ministro della Marina, e Woodrow Wilson, presidente in carica, il quale ne fu colpito nel corso della conferenza di pace di Parigi (1919). La momentanea infermità fiaccò la sua lungimirante contrarietà a un trattato troppo punitivo verso la Germania.
Non tutti riusciranno a farla franca. Apollinaire morì a Parigi il 9 dicembre 1918, nel pieno dei festeggiamenti per la vittoria. Egon Schiele si arrese il 31 ottobre 1918, in una Vienna spettrale, stremata dalla guerra ormai perduta. Sophie Freud, figlia di Sigmund, spirò ad Amburgo nel gennaio 1920, a soli 26 anni, colpita da uno degli ultimi focolai dell’epidemia. Più fortunato Edvard Munch, il quale si raffigurerà febbricitante in alcuni autoritratti.
Quest’angosciante «lotteria biologica» non risparmierà neppure, su sponde opposte, due personaggi d’inquietante attualità. Mohammed Abdullah Hassan, il «mullah pazzo», fondatore in Somalia di uno staterello islamico quasi antesignano di quello odierno. E Sir Mark Sykes, il diplomatico di Sua Maestà artefice cento anni fa di quell’accordo spartitorio del Medio Oriente di cui ancor oggi scontiamo i postumi. L’8 settembre 2008, le sue spoglie sono state riesumate da un virologo di Oxford, alla vana ricerca di qualche particella del virus che lo aveva ucciso.
Riccardo Chiaberge, 1918. La grande epidemia. Quindici storie della febbre spagnola , Utet, Novara, pagg. 234, € 16