Il Sole Domenica 3.7.16
Per adulti e bambini
Ragazzi, qui si gioca all’infinito
Tra
arte e percezione visiva, la mostra milanese offre, oltre alle opere,
un preciso percorso di concetti, idee, paradossi e riferimenti
matematico-scientifici per capire divertendosi
di Armando Massarenti
Avendo
rievocato, domenica 12 giugno, il modo in cui Jorge Luis Borges bambino
aveva pensato per la prima volta alla nozione di infinito, un lettore
ha pensato di aver riconosciuto la scatola di latta cui lo scrittore
argentino accennava scrivendo che «in un angolo dell’immagine compariva
la stessa scatola con la stessa figura, e su questa c’era la stessa
figura e così via (almeno potenzialmente) all’infinito...». «Si tratta
del cacao olandese Droste!», è stato il suggerimento del lettore. Ottima
intuizione. Peccato solo che i ricordi di Borges siano di molto
anteriori, risalendo ai primi del ’900, e che egli parlasse di una
scatola di biscotti con sopra disegnata «una scena giapponese» con
«bambini o guerrieri». Dunque la caccia a quest’altra scatola è ancora
aperta e davvero saremmo felici se qualcuno ci dicesse di averla
trovata. Nel frattempo però il cacao Droste lo ritroviamo nella mostra
su Escher, nella sezione dedicata agli «escherabilia», che comprende
copertine di libri e di dischi (Ummagumma dei Pink Floyd, per esempio,
variante anch’essa dell’effetto Droste), locandine e pubblicità
televisive, film, fumetti e oggettistica varia. Ma soprattutto,
visitando la mostra, si può assistere dal vivo all’insorgere dello
stupore borgesiano in un bambino di oggi, più di un secolo dopo.
Galleria
di stampe, del 1956, è l’opera che Escher considerava la più riuscita
delle sue illusioni: un osservatore all’interno di una galleria di
stampe osserva un quadro che rappresenta un paesaggio di cui la galleria
di stampe è parte integrante. A partire da quest’opera, i curatori
della mostra hanno pensato bene di produrre un bel gioco al computer:
una webcam permette allo spettatore reale di situarsi esattamente nella
posizione in cui si trova lo spettatore della galleria nell’opera di
Escher, e poi di spostarsi nella posizione più avanti, di tornare
indietro, continuando a vedere se stesso come protagonista di un effetto
Droste: avanti, e ancora avanti... «All’infinito!», abbiamo sentito
esclamare un bambino (lui, spettatore nel quadro) all’unisono con la
propria madre.
Basti questo episodio per dare il senso di una
mostra che sì, contiene tutte le opere dell’artista olandese rendendone
chiara la parabola creativa, ma che nel contempo rende partecipe lo
spettatore del suo orizzonte di idee, senza il quale la sua opera
risulterebbe incomprensibile, o fin troppo enigmatica. Le illusioni
ottiche, in tale percorso, assumono un ruolo centrale soprattutto a
partire dal 1936, anno in cui Escher comincia a utilizzare con sempre
maggiore consapevolezza una serie di risultati della psicologia della
Gestalt. Illusioni che si combinano con una sensibilità matematica e
geometrica già fortemente esplorata in precedenza.
Escher però non
è un matematico, e ciò rende ancora più sorprendente il suo modo di
operare. Ne è un esempio proprio Galleria di stampe. Osservatela qui a
fianco. Vedrete che al centro si trova un bollino bianco dove Escher
appone la sua firma. È il sintomo di una intuizione, e insieme di uno
smacco. L’autoreferenzialità dell’immagine è realizzata attraverso una
deformazione prospettica che la ingrandisce per ogni lato di un fattore
quattro. L’intelligenza grafica guida Escher verso un’intuizione
matematica, della quale però non conosce la soluzione (e una cosa simile
avvenne anche nel campo della cristallografia). Dunque non riesce a
completare l’immagine e deve coprire lo smacco con la firma! Ma nel 2003
due matematici di Leida, Lenstra e de Smit, hanno dimostrato che la
figura di quella litografia rientra nella geometria delle mappe conformi
o isogoniche, ossia griglie che, pur sottoposte a deformazione,
mantengono gli angoli inalterati. Così l’immagine è stata completata e
appare in mostra anche senza il bollino bianco.
Giocare con
l’infinito è tutt’uno con il giocare con la prospettiva, con la
geometria (euclidea e non euclidea), con i solidi platonici e con i
poliedri stellati, con la percezione visiva, con la logica e con i
paradossi. Paradossi logici e visivi che hanno nomi ben precisi. Come ad
esempio la scala di Schröder, che domina in Relatività (1953): una
scala ambigua per come è disegnata in prospettiva, che appare
contemporaneamente come costruita sul pavimento o sul soffitto e che può
essere percorsa sia stando sopra sia stando sotto i gradini. La
ritroviamo anche in Concavo e convesso (1955) dove si unisce a un altro
paradosso visivo, cosiddetto “dei cubi reversibili” (dove le facce del
cubo possono essere viste come interne o esterne). Un altro tipo di cubo
ambiguo è il cubo di Necker, utilizzato pervasivamente in Belvedere
(1958), così come altri cubi e triangoli impossibili, come quello di
Penrose. Il massimo dell’autoriferimento, tipico dei paradossi logici
come quello del mentitore («sto mentendo», «questa frase è falsa»),
Escher lo ottiene visivamente con le mani che disegnano sé stesse in
un’opera celeberrima del 1948. E che dire di Superficie increspata
(1950), che gioca in maniera virtuosistica sulla tendenza del nostro
apparato visivo a comporre in unità figure che in realtà, intere, di per
sé non esistono, facendoci vedere la superficie dell’acqua, gli alberi
che vi si rispecchiano e la luna che li sovrasta attraverso le
increspature prodotte da due gocce (altrettanto inesistenti ma ben
visibili!) cadute in uno stagno. Pura poesia ottenuta dalla
consapevolezza di come funziona la nostra vista e di come essa possa
ingannarci, così come avviene anche nella rivisitazione escheriana
dell’arte della tassellatura e nelle figure incastonate tra loro, come
in Giorno e notte (1938), in cui i virtuosismi della simmetria si
uniscono alla forte consapevolezza, mutuata dagli studi percettologici,
del funzionamento del rapporto figura-sfondo.
Potremmo proseguire
ancora per molto. «All’infinito?!», chiederebbe forse qualcuno dei tanti
bambini che si incontrano in mostra. Sì, all’infinito, o quasi, perché
le idee qui proposte accendono in un gioco senza fine immaginazione e
conoscenza, uniscono pensiero astratto e percezione sensibile entro
spazi in cui l’infinito è a portata di mano, racchiuso in piccoli
gioielli rifiniti quali sono le opere di Escher.