Il Sole Domenica 3.7.16
Yves Bonnefoy (1923-2016)
L’innesto dell’invisibile
Sì è spento a Parigi uno dei più grandi poeti del Novecento che ha raccolto l’eredità più ardita di Giacomo Leopardi
di Carlo Ossola
Nato
a Tours il 24 giugno 1923 Yves Bonnefoy si è spento a Parigi il 1
luglio 2016. Ha tenuto dal 1981 al 1993 la cattedra di Études comparées
de la fonction poétique al Collège de France; quelle lezioni sono state
pubblicate nel volume Lieux et destins de l’image, 1999.
La poesia
di Bonnefoy è antignostica: se gnosi è «ogni maniera di percepire il
mondo dove viviamo come insufficiente o cattivo, a paragone e ricordo di
un’altra realtà – questa sì buona e appagante - che avrebbe potuto
esistere o potrà essere, ma aldilà del tempo presente o anzi come
trasgressione e dissipazione del tempo stesso, il quale non sarebbe che
uno degli aspetti più cupi dell’umana derelizione». La poesia di
Bonnefoy è «offerta del gratuito», gravida di luce che matura: «[…] O
terra, terra, / Presenza tanto consenziente, tanto donata / […] / Tanto
desiderio di te, terra perfetta, / Non erano fatti per maturare come un
frutto / Nel suo istante di estasi si stacca / Dal ramo dalla materia,
puro sapore?» (Quel che fu senza luce. I, Il ricordo).
Non si
tratta tuttavia – e sempre più acutamente, in questo finale compimento –
di un mondo panico, di una natura naturans della quale la poesia
sarebbe il prolungamento memoriale; bensì il raccogliersi dell’esistente
nella trasparenza pura di un “accento di vissuto”, nella sua minima
essenza: «È ora davanti a me, intorno a me, in me, il mondo quale si
mostra quando si stacca dal sogno, cosa dopo cosa ritirandosi in sé,
riducendosi al suo solo apparire, restituendo vita a quest’altra e sola
evidenza che è il canto del gallo, l’abbaiare d’un cane per via, il
brusio lontano d’una vettura che passa». Leopardi del Novecento, Yves
Bonnefoy ne ha raccolto l’eredità più ardita: quella di far passare
l’universo delle forme nell’icona del silenzio, ascetico Morandi della
parola: «Come hai vissuto? Siano tuo specchio / La finestra, il letto
della camera vuota» (Light, in a empty room).
Il suo non è un
rivolgersi (gnostico appunto) verso un Eden perduto, bensì un ascendere
scorticato verso cime di alberi dal fogliame spinoso; così l’estremo
apologo Voix à la cime des arbres: «Ho visto – dice [Eva]. – Che cosa
dunque? [Adamo]. – L’altrove, ho visto l’altrove. Molto piccolo. Nubi
immote. Case. / E già offre ad Adamo dell’altrove, questo frutto
dell’albero. – Saliamo ancora! / Ah, quanti rami, quante foglie, quanti
frutti! Scostano rami per accedere ad altri, sempre più alti. Guardano
lontano, ora insieme. Variante che diremo “Vera vita”. / E non
ridiscenderanno più. Bimbi giocano lassù, ruzzano, con scoppi di grida e
di risa che non s’intendono sulla terra. / È molto se fan caso a pietre
che cadono da non san dove, nell’ancor più alto del mondo. Pietre di
diversi colori e grandezza che rimbalzano sui rami, e talvolta li
rompono. Talvolta uccidono. / È, questa, la variante, “cima degli
alberi”» (da Ensemble encore).
Ascendere è rastremare e ferirsi,
lasciarsi arare: «In parole che ancora si ricordano / Di tante e tante
cose che il tempo / ha duramente arato con i suoi artigli» (Il tutto, il
niente, II; da Inizio e fine della neve) - «Le mani aggrappate soltanto
alla luce». La poesia di Bonnefoy non è dunque idillio, ma è l’additare
oltre la forma nella quale si consola (ci consola) il mito. Nessuna
lettura della bellezza di Elena è stata più radicale di quella di
Bonnefoy: «Eppure chi, salvo forse Paride, l’ha vista mai? / I portatori
non avranno saputo di lei che la grande pietra rossiccia / Rugosa,
crepata, / Che dovettero issare, fra sudori e bestemmie, / Fin sui
bastioni, di fronte alla notte. // Quella roccia, / Quella sabbia
dell’origine che si sfalda, / È Elena? Quelle nuvole, quei rossi
bagliori / Non si sa se nell’anima o nel cielo? // Forse la verità, ma
serbata silente, /Non la svela neppure Stesicoro, / È questa: la
sembianza d’Elena fu solo un fuoco / Acceso controvento su una spiaggia»
(Di vento e di fumo, da La vita errante).
Yves Bonnefoy è stato
il più intenso interprete della civiltà italiana nel XX secolo: non solo
in Rome 1630 o nell’Arrière-pays, ma in quel suo aderire alla medicina
che distilla dal dolore contemplato, come – esemplarmente – in Su una
pietà di Tintoretto: «Mai dolore / Fu più elegante nelle grate / Nere,
divorate dal sole. E mai / Eleganza fu cagione più spirituale». Qui «Il
desiderio lacerò il velo dell’immagine».
Forse il segreto della
poesia di Bonnefoy è l’umano desiderio, l’umano patire, l’umano sperare
che bruciano l’immagine che li rappresenta, e si presentano – mendichi e
fedeli come Ulisse – alla terra del ritorno a sé, alla zolla del
vissuto e dell’amato, non fosse questo che l’ultimo spegnersi e
protendersi di una voce: «Celebro la voce screziata di grigio / Esitante
ai confini del canto smarrito / Come se di là da ogni forma pura /
Vibrasse un altro canto, il solo assoluto. // […] / Sembra che tu
conosca le due rive, / L’estrema gioia e l’estremo dolore. / Laggiù, fra
grigi canneti nella luce, / Tu attingi, parmi, all’eterno» (Alla voce
di Kathleen Ferrier, da Hier régnant désert).
La sua è stata e
rimane una lotta contro l’evidenza della datità, come scrisse con vigore
nella breve, essenziale premessa all’ Improbable et autres essais:
«Dedico questo libro all’improbabile, vale a dire a ciò che è. / A uno
spirito di veglia. Alle teologie negative. A una poesia di desiderio, di
piogge, d’attesa e di vento. / A un grande realismo, che interroghi
anziché risolvere, che additi l’oscuro, che ritenga le evidenze come
nubi sempre dilacerabili. Che abbia cura di un’alta e impraticabile
chiarezza».
Con quel suo umile consentire all’umana fragilità:
«Sì, anche per l’errore, / Che avanza, // Sì, per la gioia semplice, la
voce spezzata» (Lo sparso, l’indivisibile, da Nell’insidia della
soglia).
È stato il poeta dell’amicizia e della fedeltà, riunendo
intorno a sé cammini di uomini, voci di classici: Shakespeare,
Baudelaire, Rimbaud, Dante, Petrarca, Leopardi. Sarà difficile ereditare
un lascito immenso di generosità, di pudore, di esigente etica e
tenerezza indifesa: «E vero è, amica mia, - quando tutto svanisce /
qualcosa rimane. Le nostre dita toccano, / congiunte, delle corde,
nell’invisibile. / […] / Sono, e non sono. Dal non esserci / fiorisce la
mia dimora in voi. / Dormirete, mentre sono in voi - veglio» (Insieme
la musica e il ricordo, VI). «E che ho da lasciarvi? Ciò che ho
desiderato / […] / Il dio in noi che non avremo posseduto» (Ensemble
encore, explicit).
Ci siamo salutati in un tardo pomeriggio di sguardi e sillabe; stringendomi la mano, soltanto: «Carlo, le bien social!».
Yves
Bonnefoy, Ensemble encore, suivi de Perambulans in noctem , Mercure de
France, Parigi, pagg. 144, € 14,80; L’écharpe rouge , Mercure de France,
Parigi, pagg. 272, € 19; La poésie et la gnose , Galilée, Parigi, pagg.
112, € 18