Il Sole Domenica 3.7.16
I protagonisti della Bibbia
Mosè va dallo psicologo
Da Freud agli esegeti più recenti questa figura continua a suscitare interesse e interrogativi sulla sua storicità
di Gianfranco Ravasi s.j.
«Questo
lavoro che prende le mosse dall’uomo Mosè sembra al mio spirito critico
una ballerina in equilibrio sulla punta di un piede». Questa
confessione di Freud riguardo al trittico di saggi raccolti sotto il
titolo L’uomo Mosè e la religione monoteistica è condivisa dalla
maggioranza degli esegeti che hanno letto quelle pagine; anzi, essi sono
per lo più convinti che la ballerina abbia alla fine perso l’equilibrio
e sia piombata a terra. Tuttavia è indubbio il fatto che, come spesso
accade, non si possa del tutto uscire indenni da una lettura provocante e
provocatoria. È ciò che suggerisce di sperimentare il libretto che
raccoglie un’analisi succinta di quello scritto freudiano approntata da
Pier Cesare Bori, un noto docente di storia delle dottrine teologiche,
morto nel 2012 a Bologna ove insegnava. A lui, tra l’altro, dobbiamo
(con Giacomo Contri ed Ermanno Sagittario) la migliore versione del Mosè
freudiano, edita da Boringhieri nel 1977.
Bori, anche se più
anziano di cinque anni, era stato mio compagno di studi teologici presso
l’Università Gregoriana di Roma. Poi le nostre strade si erano
divaricate, non solo per ragioni topografiche (lui era di Casale
Monferrato e forse alla sua fine, sia pure tardivamente, ha contribuito
l’inquinamento da Eternit), ma anche religiose. Egli era, infatti,
successivamente approdato all’«Associazione religiosa degli Amici», i
cosiddetti Quaccheri (da quake, “tremare” davanti al Signore), una
confessione fondata nel 1649 dall’inglese George Fox, priva di ogni
predicazione, rito, sacramento, ministri, affidata solo al silenzioso
incontro personale con Dio. Ritrovo ora la sua acribia e finezza
ermeneutica in questo breve testo, ampiamente introdotto da Gianmaria
Zamagni che ci conduce, però, con acutezza anche nell’orizzonte della
particolare e “ballerina” esegesi di Freud.
Come riassume lo
stesso Bori, tre sono le tesi centrali: l’origine egizia di Mosè; la sua
sorte tragica, simile a un parricidio operato dagli stessi Ebrei (su
questo il padre della psicanalisi si appoggiava a un’interpretazione
ipotetica di un noto esegeta tedesco, Ernst Sellin, riguardo a un passo
oscuro del profeta Osea); infine il dualismo tra il culto e il legalismo
jahvista, da un lato, e il monoteismo puro, propugnato poi dai profeti,
dall’altro. La questione della dipendenza del monoteismo ebraico da
quello professato dal faraone Akhnaton, attraverso la fede nell’unico
dio solare Aton, connessione fieramente dibattuta e controversa,
permette però di affrontare indirettamente un quesito più generale,
quello del rapporto complesso e rilevante tra storia e religione. Non
per nulla il titolo del saggio di Bori è emblematico: È una storia vera?
Ed è facile immaginare quanto sia arduo discernere i due fili nel
groviglio del loro intrecciarsi, annodarsi e ingarbugliarsi.
Gli
stessi interrogativi, puntati soprattutto sul monoteismo, hanno
coinvolto la ricerca anche di uno dei più famosi egittologi
contemporanei, Jan Assmann, che però ha allargato il ventaglio delle sue
analisi oltre il perimetro storico-filologico per inoltrarsi
nell’orizzonte più fluido del nesso tra cultura e religione. Tra
l’altro, la sua analisi si è incrociata con quella dello studioso
bolognese, tant’è vero che ne è nata una Lettera a Pier Cesare Bori che
si può leggere nello scritto di Assmann Monoteismo e distinzione
mosaica, edito dalla Morcelliana nel 2015. A tradurre quella lettera era
stata Elisabetta Colagrossi alla quale dobbiamo ora una suggestiva
intervista all’egittologo, autore lui pure di un Mosè l’egizio (Adelphi,
II ed. 2007). Il dialogo permette di ricomporre la mappa dei «sentieri
teorici e autobiografici» percorsi da questo “archeologo” della memoria e
dei popoli, divenuto noto per la sua rovente (e contestata) tesi sulla
radice violenta dei monoteismi.
In queste pagine vengono
ovviamente affrontati in modo sintetico i tanti itinerari di ricerca
assmanniani. Noi ne vogliamo segnalare due in particolare. Il primo
concerne la cosiddetta “distinzione mosaica” formulata dallo studioso
nel 1995, riguardante la distinzione tra vero e falso. Sentiamo lo
stesso autore: «La mia tesi afferma che essa non appartiene alla
religione. Nella religione si tratta di ciò che puro e impuro, santo e
profano, giusto o sbagliato nello svolgimento dei riti, ma non di ciò
che è vero e falso. Questa distinzione appartiene alla scienza, che
lavora per dimostrazioni, come la logica, la matematica, la storia, la
giurisprudenza, ma non alla religione. In tale dominio essa è penetrata
per la prima volta col monoteismo, che delimita il vero Dio rispetto ai
falsi dèi e il vero credo rispetto alla falsa credenza e all’eresia».
L’altra
tesi di Assmann che segnaliamo è quella della cosiddetta religio
duplex. In pratica si confrontano, per contrappunto o per dialettica, in
duello o in duetto secondo i casi, una verità religiosa rivelata e una
di indole più naturale e universale. Si delinea così, nella storia
dell’umanità una sorta di doppia verità che spesso si polarizza, pur
avendo talora tangenze e convivenze personali e sociali. Si configura in
tal modo «una sovra- o inter-religione, una religione naturale, comune a
tutti gli uomini, al di là delle loro religioni positive ereditate». La
declinazione di questa dualità si attua nel contrasto o confronto tra
fede popolare e religione codificata, affidata a una rivelazione, a
misteri e riti, tra una spiritualità personale e una religiosità
pubblica, tra una epifania cosmica, essoterica cioè aperta a tutti, e
una teofania circoscritta ed esoterica.
È facile intuire in quale
linea prevalentemente si collochi, secondo Assmann, il monoteismo
all’interno della religio duplex. Significative sono le ultime battute
dell’intervista, in cui lo studioso rimanda alla famosa parabola dei tre
anelli di Lessing per concludere – con una punta di relativismo
faticosamente esorcizzato dallo stesso autore – centrando ancora una
volta la sua batteria contro il monoteismo: «Il problema del monoteismo
della verità risiede nel suo pretenzioso concetto di rivelazione, con la
sua paradossale connessione di esclusività e universalità. Ci sono
molte religioni, ma non può esistere più di una verità assoluta e
universale». La cosiddetta “teologia fondamentale”, interpellata da
tempo su questa aporia, ha elaborato una serie di repliche che non
trovano, però, eco nelle pagine di Assmann e questo è un po’ dovuto
anche all’autoreferenzialità che relega spesso la teologia sistematica
nell’hortus conclusus delle accademie teologiche.