Il manifesto 3.7.16
La settima arte crede al reale e vi accede dalla porta dell’istante
Torna,
come nelle prima opere, la domanda che Gilles Deleuze rivolge al
cinema, negli anni ottanta: com’è possibile la filosofia speculativa?
«L’immagine-movimento», primo di due volumi
Michel Foucault affermò una volta che il «secolo» sarebbe stato deleuziano
di Rocco Ronchi
Michel
Foucault affermò una volta che il «secolo» sarebbe stato deleuziano. La
sentenza apparve al momento precipitosa – era il 1970 – forse più
dettata dall’amicizia personale e dalla grande stima, peraltro
totalmente ricambiata, che Foucault nutriva per l’amico filosofo. Il
secolo, se giudicato con gli occhi di quegli anni, non appariva infatti
deleuziano. Deleuze era certo un filosofo rispettato. Le sue tesi,
soprattutto quelle antipsichiatriche e antipsicoanalitiche –
L’Anti-edipo, scritto con Felixd Guattari, uscì nel 1972 – avevano
conosciuto un largo successo e avevano guadagnato consensi entusiastici
presso i movimenti di contestazione, ma il secolo nel quale erano state
elaborate era ancora il «secolo breve», il secolo del conflitto e delle
utopie rivoluzionarie. Deleuze, come Foucault del resto, non era certo
estraneo a questo clima. Si era impegnato in tante battaglie politiche,
seguendo l’esempio di Sartre, che continuava a considerare un suo
«maestro», nonostante il discredito di cui era vittima presso le nuove
generazioni della filosofia francese.
Tuttavia, nel pensiero di
Deleuze era assente proprio la passione intellettuale che aveva
caratterizzato il secolo breve: la passione per la negazione, per la
dialettica, per il rifiuto. Non c’è niente di più estraneo a Deleuze del
titanismo prometeico e ribelle. Niente è più lontano dallo spirito
della sua opera di un elogio dell’uomo al lavoro, della finitezza
radicale e angosciata, della lotta come mezzo di emancipazione. Non c’è
spazio per utopia, messianesimo ed escatologia nella filosofia
deleuziana. Forse non c’è nemmeno spazio per la critica se non sotto la
forma di una critica di ogni forma di negazione (così deve essere inteso
il prefisso anti in espressione come anti-Edipo…). Se letto come lui
stesso – un filosofo classico, dopotutto! – voleva che lo si leggesse,
il pensiero di Deleuze risulta interamente affermativo, pervaso da una
fede razionalista e quasi ottimistico nei suoi esiti.
D’altronde,
per Deleuze il filosofo per eccellenza era Spinoza, quello del Deus sive
natura, vale a dire il filosofo che afferma che tutto, senza eccezioni,
è una modificazione della sostanza infinita di Dio. Per Spinoza, come
per Deleuze, vale dunque una proposizione assolutamente indicibile nel
Novecento, tant’è che Deleuze si guarda bene dal pronunciarla, lasciando
però che sia il suo lettore-complice a intenderla. La proposizione è:
«tutto è bene»; o, come meglio si direbbe: «il bene è il tutto», il bene
non è nient’altro che l’accadere del tutto, il suo aver luogo qui e
ora, un «accadere» che Deleuze chiama «divenire» o «tutto aperto» o
«evento» e che divinizza proprio, come già avevano fatto, nella prima
metà del Novecento, due dei suoi grandi maestri: Bergson, il filosofo
della «durata creatrice» e Whitehead, il filosofo del «processo» (si
tenga presente che durata e processo sono, per entrambi, i veri nomi di
Dio).
Anche per questo la sentenza di Foucault suonava, al tempo
della sua formulazione, avventata. Il secolo breve, infatti, ha sempre
preferito riconoscersi nella tesi opposta. Ad averlo persuaso sono i
tormenti dialettici di Ivan Karamazov di fronte all’assurdità del male.
Dopo Auschwitz, diceva Adorno, è impossibile seguire le orme di Spinoza.
Impossibile fare filosofia speculativa, cioè ratificare mediante
concetti la bontà del tutto. Il tutto, scriveva ancora il filosofo
tedesco, è «falso» e, a consolare l’uomo, resta solo una speranza
infondata, un’utopia che balugina negli istanti del ricordo e nelle
immagini dialettiche che maculano l’orrore quotidiano.
Su queste
discontinuità che come lampi di trascendenza illuminano il sempre uguale
della storia (storia del male, secondo questo punto di vista) si sono
scritte e si continuano a scrivere pagine e pagine.
Walter
Benjamin, che, ben più di Adorno, ne è stato l’ispiratore, è diventato
il riferimento obbligato di ogni teoria critica della cultura. Citarlo
ammirati è indispensabile se si vuole essere accolti nei piani nobili
della filosofia contemporanea. Di lui, non di Deleuze, si dovrebbe
allora dire che è stato il filosofo del secolo. La sfida di Deleuze è
stata infatti quella di sperimentare, nel tempo del negativo e della
critica, la via dell’immanenza assoluta, della continuità uomo-natura e
dell’impersonale, mentre quella di Benjamin e di tutti i critici della
cultura che a lui si richiamano è stata quella di provare ad ancorare
l’esistenza umana alla possibilità residuale di un senso trascendente.
Proprio
la recente ripubblicazione del primo volume degli scritti di Gilles
Deleuze sul cinema, L’immagine-movimento Cinema 1 (traduzione di
Jean-Paul Manganaro, Einaudi, pp. 288, euro 26,00) permette di misurare
tutta la distanza che separa il filosofo francese dal secolo (che è
invece ben rappresentato dalle tesi di Benjamin).
Deleuze si
rivolge al cinema, negli anni ‘80, spinto da una urgenza puramente
filosofica. La sua conoscenza della materia cinematografica è
impressionante, tuttavia la domanda che Deleuze pone attraverso il
cinema è la stessa che era presente fin nelle sue prime opere: come è
possibile la filosofia speculativa? Come fare l’immanenza assoluta, come
realizzare il Deus sive natura di Spinoza? Solo così si spiega come mai
Deleuze, per definire il cinema, si rivolga a Bergson, il filosofo
apparentemente meno indicato, dal momento che per il Bergson
dell’Evoluzione creatrice (del 1907) il cinema valeva solo come esempio
negativo di spazializzazione della durata (il tempo ricostituito
assommando istanti immobili, cioè fotogrammi).
Ma Bergson è il
filosofo della durata e la durata è il puro cambiamento: è il
cambiamento come assoluto. In un cambiamento assoluto non conta più la
cosa che cambia. Non c’è più una forma a cui il cambiamento tende come
al proprio scopo e alla propria verità. Questo lo credevano semmai gli
antichi filosofi, per i quali il cambiamento era una misteriosa
degradazione di una forma eterna. Con Galileo e con la scienza moderna
il movimento è invece considerato per se stesso. Non è più ricondotto a
un istante privilegiato (una «posa»), a una acme, a una idea
trascendente, a un valore di cui sarebbe una variazione inspiegabile, ma
– scrive Deleuze, coniando un concetto straordinariamente fecondo – è
ricondotto all’«istante qualsiasi». Così si costituisce la scienza
moderna e così si costituisce il cinema: «Il cinema è il sistema che
riproduce il movimento in funzione del momento qualsiasi, cioè in
funzione di istanti equidistanti scelti in modo da dare l’impressione di
continuità». A questa definizione generalissima del cinema data nelle
primissime pagine del suo saggio Deleuze è sempre rimasto fedele. Il
cinema è l’arte moderna per eccellenza perché al pari della scienza
moderna, come suo fondamento, assume il più prosaico degli istanti,
spogliandolo di ogni privilegio ontologico.
Nel secondo volume,
L’immagine-tempo, Deleuze mostrerà l’esito a cui porta l’opzione per il
cambiamento assoluto, che era già operante all’inizio del cinema (in
Marey come nei Lumière): sganciandosi dall’azione, che ancora lo
tratteneva nell’orbita del fatto (e cioè nell’ambito della vicenda
narrata, dell’intrigo dell’avventura), il cinema, nelle sue più rigorose
sperimentazioni contemporanee, presenta «un frammento di tempo allo
stato puro». Deleuze intende con questa espressione il puro accadere, il
puro aver luogo di quello che ha luogo. Intende l’evento.
Sta
insomma provando a rispondere alla classica domanda che chiede quale sia
lo specifico filmico: la sua tesi è che sia l’immanenza assoluta, lo
spinoziano Deus sive natura. Il cinema è l’arte del reale, o, meglio, è
la consacrazione del puro reale. Il cinema «crede» nella positività del
reale e, proprio come aveva fatto tre secoli prima la scienza moderna,
vi accede attraverso l’umile porta dell’«istante qualsiasi».
Non
ci può essere, quindi, posizione più distante da quella teologica e
dialettica di Benjamin per il quale l’istante era invece la porta regale
dalla quale poteva ancora passare una trascendenza momentanea Il Messia
è chiamato in causa da Benjamin per «redimere», in istanti eccezionali,
un reale di cui si percepisce tutta la intollerabile contraddittorietà.
Al pari di tutto il secolo, Benjamin non crede nel reale. Foucault non
aveva però del tutto torto a fare di Deleuze il filosofo del secolo. Se
infatti per «secolo» si intende il presente assoluto (l’istante
qualsiasi) nel quale ogni vita non cessa di passare, allora veramente
Deleuze ne è stato il filosofo e il cinema ne è stata l’arte.