Corriere La Lettura 3.7.16
L’islam spiazza il terzomondismo
La
religione musulmana sembra oggi l’unico elemento capace di mobilitare
le masse, un ruolo che fino a pochi decenni fa spettava al marxismo
rivoluzionario e anticoloniale. Il quale, a sua volta, ha creduto utile
allearsi con l’oltranzismo in nome dell’antimperialismo. Ma l’obiettivo
del jihad è tutto tranne che progressista e punta a soppiantare la
politica
con la fede. Niente equivoci: l’internazionalismo della
«guerra santa» non è quello democratico delle brigate antifasciste
nella Spagna del 1936
di Donatella Di Cesare
L’islam
politico sembra essere oggi l’unico ideale in grado di mobilitare masse
di donne e uomini e di sfidare l’ordine globale, l’unica bandiera per
la quale migliaia di giovani sono pronti ad affrontare la morte
dall’altra parte del pianeta. Sarebbero già oltre 20 mila i jihadisti,
giunti dai cinque continenti, per combattere nelle file dello «Stato
islamico dell’Iraq e del Levante». Le brigate del jihad mondiale,
riunite nel 2016 in Siria, richiamano alla memoria un precedente, che si
staglia, indelebile, nel nostro immaginario, quello delle «Brigate
internazionali» — costituite da circa 32 mila stranieri — che dal 1936,
in Spagna, lottarono contro il generale Franco, il fascismo e il
nazismo. A giustificare il paragone è un impegno senza frontiere.
Si
tratta, senza dubbio, di un paragone amaro, che suona quasi come un
affronto per la sinistra, erede delle «Brigate internazionali». Che
dire, infatti, se la solidarietà internazionale dei lavoratori,
l’alleanza tra gli emarginati delle periferie del mondo, la lega tra gli
oppressi delle metropoli occidentali, viene soppiantata dal mutuo
soccorso della fratellanza musulmana? Difficile rispondere. Perciò la
questione viene sistematicamente passata sotto silenzio. A meno di non
scegliere una delle numerose scorciatoie interpretative che indicano nei
jihadisti dei «mostri sanguinari», degli «psicopatici narcisisti», le
«vittime della crisi economica», il «risultato immediato del disordine
globale», la «prova del naufragio dell’integrazione», i «figli di
internet e dei videogiochi»...
Sono forse i luoghi comuni a
mettere sulla pista sbagliata. Anzitutto quello del «multiculturalismo»,
un termine abusato, che spinge a leggere il confronto tra mondo
musulmano e Occidente come un conflitto tra un’identità particolare e
un’appartenenza universale. Ma lo scontro — ha spiegato di recente il
filosofo francese Étienne Balibar nel libro Saeculum. Culture, religion,
idéologie , edito da Galilée — è piuttosto tra differenti
universalismi, rivali e incompatibili. A contrastare l’egemonia del
sistema capitalistico non è più solo la sinistra internazionalista.
Lungi dall’essere il terzo incomodo, l’islam appare l’unica potenza
capace di imporre un universalismo militante che si ripromette di essere
l’avvenire stesso di questo mondo.
E la sinistra? Come legge
questo scontro a tre? Considera l’islam un temibile avversario oppure un
possibile alleato, lo ritiene un concorrente aberrante e perverso,
sebbene temporaneo e caduco, oppure un complice necessario nella lotta
contro l’arroganza del mercato? Perché questo è almeno certo: che da
tempo il capitale, grazie anche alla tecnica, ha varcato i confini,
estendendosi su scala planetaria.
Dopo la caduta del Muro di
Berlino, mentre andava delineandosi la vittoria incontrastata del
liberalismo economico, in cui molti si sono affrettati a scorgere
l’orizzonte ultimo della storia, le disillusioni si sono moltiplicate e
la sinistra ha subito il contraccolpo restando sulla difensiva. Molte
speranze sono state allora riposte nel terzomondismo, etichetta con cui,
negli ultimi decenni del Novecento, si è indicato quel movimento che ha
sostenuto le lotte di liberazione dei Paesi del Terzo Mondo dal dominio
coloniale.
All’alba del nuovo secolo, però, il terzomondismo ha
assunto contorni diversi: da Seattle a Bangkok, da Porto Alegre a
Parigi, si è articolato in una galassia no-global che comprende
organizzazioni non governative, associazioni ecologiste, sindacati e
gruppi politici che rivendicano diritti dell’immigrazione, del lavoro,
ecc. Senza dimenticare l’esperienza dell’anticolonialismo, passata, per
motivi storici, in secondo piano, questa galassia si è coagulata intorno
alla necessità di rispondere alla uniformazione del Mcmondo con una
alternativa anti-liberista, indicando il bisogno di vivere in forme
diverse, nel segno della solidarietà. L’«altermondismo», come viene
chiamato il movimento no-global nella sua versione ultima, ha cercato di
contrastare l’eterno trionfo del mercato, mostrando che, proprio se si
muove dal «mondo altro» delle periferie dimenticate, un «altro mondo»
appare possibile.
Sennonché, in mancanza di un chiaro progetto
politico, la rivoluzione senza frontiere si è tradotta in una
mobilitazione senza domani. Mentre l’internazionalismo tentava di
scalfire la globalizzazione capitalistica, una nuova forza ha fatto una
spettacolare irruzione sulla scena della storia: l’islam politico. E ben
presto, con la sua logica transnazionale, la sua aspirazione
trascendente, per un verso ha lanciato una sfida inedita all’immanenza
profana del capitale, per l’altro ha tentato di spodestare la sinistra
terzomondista. In un saggio pubblicato nel 2015, Marxism, Orientalism,
Cosmopolitanism (Haymarket), Gilbert Achcar, uno dei pochi intellettuali
ad aver toccato questo argomento scottante, è ricorso a espressioni
taglienti: «L’integralismo islamico è cresciuto sul cadavere in
decomposizione del movimento progressista».
A parte rare
eccezioni, la sinistra ha reagito con una ambivalenza fatale. Già
durante la guerra d’Algeria era emerso con chiarezza che l’islam non
costituiva un semplice «di più» ma era piuttosto il cuore pulsante della
rivolta. Via via che l’islamismo si è imposto nel paesaggio politico
internazionale, la sinistra terzomondista è stata costretta a scegliere:
o prendere le distanze dai movimenti islamisti, piccolo-borghesi,
antimodernisti, per molti versi reazionari, schierandosi dalla parte
delle donne, degli omosessuali, fino a coalizzarsi con le correnti
liberali; oppure scegliere il «fronte unico» islamo-socialista, in nome
della comune lotta anti-imperialista. Malgrado le frequenti
oscillazioni, ha finito per prevalere la tattica rischiosa
dell’alleanza, dettata da numerosi motivi. Anzitutto dalla convinzione
che malessere e ideali dei giovani islamisti avrebbero potuto essere
facilmente «canalizzati» verso obiettivi progressisti. Sostenuta a
chiare lettere nel fortunato pamphlet The Prophet and the Proletariat ,
pubblicato nel 1994 dall’attivista britannico Chris Harman, questa tesi,
che ha resistito almeno fino alle «primavere arabe», spiega il sostegno
incondizionato all’islamismo inteso come movimento anti-capitalista e
anti-imperialista. Il sostegno è giunto fino ad appoggiare
organizzazioni fondamentaliste come Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza, e
a unire, nelle manifestazioni contro la guerra in Iraq, le proprie
bandiere a quelle di gruppi vicini ai Fratelli musulmani.
Il
criterio che ha preso il sopravvento è quello del nemico principale:
dato che si deve sconfiggere l’imperialismo, sarà giocoforza essere
dalla parte dei talebani. Al fondo si scorge una presunzione
paternalistica mista all’ottimismo, molto occidentale, di riportare quei
fratelli minori, non ancora emancipati, che si muovono sull’onda
dell’integralismo religioso, all’interno della grande flotta socialista.
E
la religione? L’islam politico non ha forse sempre rinviato al suo
orizzonte teologico? Certo. Ma c’è un precedente, spesso sottovalutato,
nella storia del terzomondismo, ed è la teologia della liberazione.
Nell’America latina, a partire dagli anni Sessanta, la sinistra atea
trova un formidabile alleato nel profetismo anti-imperialista di quei
preti delle favelas che, appellandosi alla giustizia e alla uguaglianza,
coniugano il Vangelo con la lotta di classe. Sembrano così realizzare
quel vincolo tra socialismo moderno e antico messianismo
ebraico-cristiano, evocato già da Rosa Luxemburg. Ecco che la religione
appare — secondo il famoso e complesso passo di Marx — non tanto
espressione della miseria quanto «protesta» contro la miseria, non tanto
«oppio» quanto eccitante dei popoli.
Perché non dovrebbe accadere
lo stesso con l’islam politico? Che la fiducia domini ancora nella
sinistra latino-americana non è un caso. Molto presto, però, sembra
evidente che l’islamismo non intende appoggiare i movimenti
progressisti, bensì emarginarli e soppiantarli. Questo accade già
nell’Iran di Khomeini. Nel 1978 Michel Foucault smette gli abiti del
filosofo per recarsi a Teheran come inviato del più grande quotidiano
italiano, il «Corriere della Sera». Critico verso il marxismo, è
attratto dall’evento dell’insurrezione. Intervista operai e studenti:
«Che cosa volete?». Si aspetta in risposta «la parola “rivoluzione”».
Invece quelli replicano «il governo islamico». Per Foucault la religione
non è il velo che maschera la rivolta bensì è il suo vero volto.
«L’islam — che non è semplicemente religione, ma modo di vita,
appartenenza a una storia e a una civiltà — rischia di costituire una
gigantesca polveriera». Così scrive in un articolo dell’11 febbraio
1979.
Si capisce allora perché quei suoi testi rari e
appassionanti, grazie ai quali Foucault si chiama fuori dal coro, siano
ancora oggi fonte di discussione. Su questo tema è tornato di recente
Slavoj Žižek nel suo volume In difesa delle cause perse (Ponte alle
Grazie). Proprio Žižek fa parte di quei pochi che sollecitano
l’abbandono di alcuni tabù, a cominciare dalla «proibizione di ogni
critica dell’islam in quanto caso di “islamofobia”». Tanto più che —
come ha osservato Jean Birnbaum nel suo ultimo libro — prevale ancora un
«silenzio religioso». Come se fosse impossibile da un canto dissociare
la fede musulmana dalla perversione islamista, dall’altro riconoscere la
dimensione religiosa della violenza jihadista.
Non è facile per
la sinistra terzomondista scoprire oggi che, seguendo una bussola ben
diversa, altri hanno imparato a navigare meglio nell’oceano della
collera universale e della speranza senza frontiere. Troppo tardi? Forse
no. Purché si ammetta che i jihadisti del Levante non vogliono aprire
un nuovo capitolo della storia umana ma chiudere una volta per tutte con
la storia profana, non vogliono portare la politica alla sua apoteosi
ma disertarla. E purché si riconosca che la fraternità del terrore non è
la fratellanza dei popoli, che il califfato, a cui aspira il jihad
mondiale concentrato in Siria, non è l’Internazionale per la quale
combatterono i volontari di Spagna.