Il Sole Domenica 17.7.16
Il mito ebraico è in moto
Lo studio di Elena Loewenthal sulla mitologia ebraica e i suoi continui rifacimenti e riadattamenti
di Giulio Busi
Si
sa che la morale non era il forte dei vecchi numi pagani. Tutte quelle
scappatelle, le vergini rapite, le mogli tradite, i ragazzini sedotti e
abbandonati non giovavano certo alla reputazione di Zeus e compagni. Né a
quella delle Veneri e degli Apolli di turno, eccelsi abitatori d’Olimpo
finché si vuole ma pur sempre divini sporcaccioni.
Quando si
trattò di far piazza pulita della religione antica, i venerandi padri
della Chiesa ebbero vita facile. Con i flirt e gli innumerevoli adulteri
che pesavano sulla loro coscienza, i protagonisti della mitologia
classica si trovarono senza lavoro da un giorno all’altro. Bastò
metterne alla berlina la vita scapestrata e la pochezza degli ideali
familiari, ed ecco che il panteon greco e romano, prodigo di principesse
rapite da tori e di pastorelle inseguite, concupite e trasformate in
piante e in laghi, perse di credibilità e d’attrattiva. Scacciato dagli
altari dei templi, il mito fu costretto a cercare rifugio tra i bugiardi
di professione. Letterati, sognatori, pittori - furono loro, per
secoli, ad arrabattarsi con dei, dee, eroi sgualdrini e sgualdrine
divinizzate. La nuova fede scelse di adornarsi di sobrietà, senza gli
orpelli delle favole e i trucchi da postribolo.
L’idea che il mito
sia bello e bugiardo ha una storia lunga, antica di millenni e
veneranda di conflitti. Una religione accusa l’altra di bugie, le
strappa le storie sacre come se fossero i capelli di una rivale odiata.
Poi, però, ricomincia a raccontare. Parola dopo parola, un apologo che
segue il precedente, il mormorio delle generazioni riprende il filo
interrotto. Mito deriva dal greco mutheomai, che significa dire,
nominare, dar ordine. Chi potrebbe mai smettere, di dire e di
raccontare? E quale cultura saprebbe privarsi delle parole, che
ammoniscono e consolano, che si sollevano dalla terra in cielo e poi
discendono di nuovo, piano piano, come se fossero di neve leggera?
Preso
così, alla lettera, nel senso di racconto che s’intreccia al rito e
alla devozione, il mito può scrollarsi di dosso gli antichi sospetti di
paganesimo. Ci sono miti cristiani e ci sono, naturalmente, miti
ebraici. Più sobri di quelli, opulenti, di Atene e di Roma, meno
lascivi, con minor orgoglio di dettagli, i miti di Israele hanno in
compenso un ornamento prezioso. Sono semplici, carichi d’esperienza.
Mica
se ne stanno inerti in un libro, per venerando e autorevole che sia. Se
la Bibbia non la leggete e rileggete, rischiate di non accorgervi che
quelle storie di pastori caparbi, spose trascurate, figli smarriti e
ritrovati sono in realtà miti, e della specie più fine. Sono cioè
racconti sacri che, mentre li dite, “fanno” la fede. Convincono e
ammaestrano, stupiscono e impauriscono. Miti ebraici di Elena Loewenthal
mette in pratica, brillantemente, la regola fondamentale di questo
genere letterario, antico come il mondo. Un mito è tale solo se non
rimane mai uguale a se stesso. Lo dovete raccontare di nuovo, con le
vostre parole, magari cambiarlo, adattarlo, ricucirlo. Come si faceva un
tempo coi vestiti, che passavano dai fratelli più grandi ai piccini, e a
forza di aggiunte e tagli perdevano la forma originaria e si caricavano
di affetto e di mistero. Loewenthal riscrive il racconto della
creazione, la missione di Mosè, il viaggio di Elia verso il cielo.
Sembrerebbe un lavoro fin troppo ambizioso, e invece è opera
indispensabile, devota. Basta cambiare un accento, infilare una frase
nuova, mettere un punto dove prima non c’era, lasciare che l’ebraico
faccia capolino nella prosa italiana. Il caos e l’informità del Genesi
s’increspano in un disordine mai visto, la luce dei primordi diviene più
fioca di quanto ci aspettassimo, e anche il Dio distante dei primi
versetti – quello che disse e fu – si fa un po’ più vicino. Il mito è
come un fiume che porti acqua fresca tra argini vecchi. Sappiamo dove
trovarlo, e pure ci dona una forza rinnovata.
La parte più bella
del libro è quella dedicata alle spose. Sono diverse l’una dall’altra,
queste donne ebree, vissute secoli fa, oppure non vissute mai, ma solo
immaginate e narrate. C’è la saggia Berurya, maestra d’età talmudica,
coltissima, silenziosa, ironica. C’è Lea, che sotto il baldacchino
nuziale viene rapita da uno spirito dannato – una storia da far
accapponare la pelle dallo spavento. E c’è una ragazza bellissima, che
non ha un nome, triste come la più disgraziata principessa delle favole.
Solo che la sua è una leggenda di distruzione e non di vita, e anziché a
una strega, lei deve tener testa all’Angelo della morte in persona. Non
aspettatevi un mito sboccato. La narrazione è essenziale, malinconica.
Per tre volte, la bella ha perso il proprio sposo subito dopo le nozze.
Alla quarta cerimonia, la maledizione si fa ancora più cupa,
invincibile. Eppure basterebbe una parola, una goccia sola dal grande
mare della Torah, e tutto sarebbe salvo. I miti sono bugiardi?
Convincete l’Angelo della morte, se ne siete capaci.
Elena Loewenthal, Miti ebraici , Einaudi, Torino, pagg. 210, € 15.