il manifesto 17.7.16
La grammatica tedesca della razza
Storia
. Mentre compone una cartografia del discorso nazista, Johann Chapoutot
sottrae a quel crimine e a quella colpa ogni pretesa di eccezionalità:
«La legge del sangue»
di Massimiliano De Villa
«La
poiana non avrà mai il suo nido insieme al pipistrello»: perentoria,
anzi apodittica, la sentenza si affaccia dalle Fonti del diritto tedesco
di Walter Buch, giudice supremo del partito nazionalsocialista. Dentro
questa sola immagine, la più secca smentita dei Lumi e della Rivoluzione
francese: è chiaro che l’egualitarismo orizzontale, uscito dalle fucine
del pensiero illuminato e rivoluzionario, non incontra il favore delle
camicie brune. «L’essenza, non solo degli uomini ma anche di ogni cosa, è
la differenza», seguita l’autore imboccando la strada del paradosso.
Che di paradosso si tratti è evidente al lettore odierno, che conosce le
conseguenze e le ricadute storiche di questo pensiero, ma non lo era a
chi scriveva queste parole o ai destinatari del messaggio, immersi in un
quadro culturale coeso e inossidabile. Questo che inneggia alla
differenza come valore aggiunto sembrerebbe uno slogan multiculturale,
non fosse per il richiamo all’«essenza», concetto fermo e stabile, che
traccia il perimetro di una costituzione originaria, non negoziabile e
legata alle cose nel loro primo manifestarsi. Un’essenza che,
percorrendo il filo di questa logica, fonda la differenza e chiede di
essere salvaguardata a ogni costo.
Un’essenza che alberga nel
sangue. E il sangue è – sempre seguendo da vicino l’argomentazione
compatta e legnosa del nazipensiero – concetto passe-partout e vera
testata d’angolo: strato oscuro e pesante che chiama alla vita, che
scorre nella catena dei padri e delle madri, che nutre l’individuo, nel
discendere delle generazioni.
È per le vie del sangue che si
strutturano l’identità e l’appartenenza, nel legame con i gangli
dell’esistere, con i nuclei biologici primari. Nel sangue si determinano
la volontà e il pensiero, si cementa una comunità di uomini. Uomini del
passato, del presente e del futuro, che dividono la stessa sostanza
biologica. Quella tedesca – recitano monocordi gli scritti di diffusione
del discorso nazista – è una «comunità del sangue», il cui vincolo si
rinsalda lì dove la vita, la vita pura, trae origine e che congiunge
anello ad anello nella continuità della discendenza, facendo della
comunità popolare germanica un grande, secolare organismo.
In
gioco è dunque lo ius sanguinis, e della specie più scura, che unisce i
fratelli di stirpe nel rifiuto di quanti a questo sangue non
partecipano. La sostanza germanica è, prima di ogni costruzione
culturale, l’evidenza di un sangue che è necessario isolare, analizzare
nella sua purezza, proteggere da contaminazioni e misture: da qui
l’esclusione dei corpi estranei, gli ebrei prima di tutto, ma non solo.
Sono questi i fondamenti della giurisprudenza nazista e della sua
legislazione razziale. Niente di nuovo fino a qui, soprattutto nelle
strettoie della sintesi.
Nella pioggia di studi sul nazismo
composti in mille chiavi – storica, sociologica, politica, filosofica,
antropologica, teologica – e nella gamma qualitativa che naturalmente
accompagna la quantità, il libro di Johann Chapoutot, La legge del
sangue Pensare e agire da nazisti (traduzione di Valeria Zini, Einaudi,
pp. 463, euro 32,00) si distingue per taglio e accuratezza, essendo
tutto fuorché sintetico e semplificatorio. Tema fondante del volume è la
ricostruzione dell’universo mentale che unisce, in un unico orizzonte
di riconoscibilità, tutti gli attori del discorso nazista, dagli
ideologi, ai quadri, ai militanti, agli sgherri, ai criminali senza
ulteriore sfumatura.
Le coordinate del pensiero nazista sono
nette, percorse dalla forza e dalla rigidità dell’assioma, e descrivono
la «coerenza rassicurante di un sistema chiuso, che si basava su alcuni
postulati particolaristici e sulla deduzione implacabile delle loro
conseguenze». Il merito del saggio di Chapoutot è nel disegno di una
geometria del discorso nazionalsocialista, nella ricostruzione di un
quadro di riferimento comune, il cui universo di significati, di
principi e di (dis)valori viene scandagliato in modo reticolare, a
partire dai nodi concettuali e lungo i rami delle loro molteplici
variazioni e modulazioni.
Data per acquisita la sempre necessaria
riflessione sulla dialettica tra cultura e barbarie, sul fondamento
distruttivo di ogni umanesimo; bandita ogni scorciatoia che derubrichi
il pensiero e soprattutto le pratiche del nazismo a figli di
un’aberrazione vertiginosa o a esiti di un folle calcolo – la famosa
«lucida follia», sintagma che, passando di bocca in bocca, si è da tempo
logorato – lo studio di Chapoutot attinge a un serbatoio documentale di
amplissima portata: un corpus di scritti – più di un migliaio – che
vanno dalla scrittura pubblica a quella privata e passano per pagine di
carattere informativo o divulgativo, per volantini ad usum militis,
opuscoli, colonne di quotidiano, pamphlet, discorsi pubblici, stralci di
diario o di lettere fino alle immagini squadrate e icastiche dei
filmati didattici di regime.
Su queste testimonianze si struttura
l’orientamento culturalista al nazismo di Chapoutot che, stazione dopo
stazione, attraversa tutti i cardini del discorso bruno: la battaglia
ingaggiata contro il giudaismo e il cristianesimo, colpevoli di avere
instradato la serena e luminosa naturalità germanica verso una sterile
antinatura, gravata dalla colpa e dal peccato, segnata dalla condanna
del corpo e, va da sé, porta d’accesso di ogni stortura figlia della
repressione. E ancora, per conseguenza, la paganizzazione della
religione o, come minimo, la sua degiudaicizzazione per consentire a un
tedesco di ceppo sano e di pura razza di seguire un profeta nato in
Giudea. Resta comunque il fatto che «Gesù ha più familiarità col lago di
Tiberiade che con le dune di Rügen». Poi il rifiuto del diritto romano,
soprattutto nella sua versione tarda e bizantina, e la rifondazione di
un diritto germanico ancorato alla vita e alla forza, al senso buono del
contadino che vive in accordo con le leggi della terra e con i cicli
delle stagioni. Un’archeologia normativa, dove l’arcaico è la cellula
primordiale per una rifondazione giuridica della nuova Germania.
Ancora,
di capitolo in capitolo, Chapoutot descrive le politiche razziali, con
gli inviti alla procreazione e la selezione, su base eugenetica, dei più
forti e dei migliori, la sterilizzazione dei soggetti la cui prole
sarebbe indesiderata, lo sbarramento della via patologica per una
comunità dove lo spazio è riservato, in esclusiva, ai puri e ai sani. In
una parola, ciò che il pensiero nazista pretende è la revoca risoluta
della dottrina della pietà, frutto avvelenato offerto da rabbini e
preti, da sempre nemici della vita, alla nobile semplicità delle stirpi
germaniche. Il transito dalla biologia alla storia avviene poi, per
estensione concettuale, sulle cadenze della legge del conflitto, la
guerra razziale che apre, per ineludibile necessità storica, gli spazi
dell’Est all’eterno popolo germanico, costretto in una terra
insufficiente che ne frena la propulsione. Di qui, il tempo storico si
squarcia verso l’escatologia del Regno, raggiunge la frontiera del
millennio e va oltre, stabilendo il governo sul mondo, in un compiersi
del tempo che è nient’altro che una rimasticatura, in chiave politica,
di un messianesimo depurato dalla grammatica giudaico-cristiana.
All’avanzare
degli anni e al restringersi degli spazi di libertà, la pretesa del
sangue è sempre più imperiosa e, dal 1939 al 1945, si riversa
nell’eliminazione di quella sub-umanità esclusa dal tocco aureo della
purezza biologica: malati ereditari, individui asociali, nemici del
popolo, fino alla creazione dell’universo concentrazionario, nella
logica d’acciaio di un umanitarismo inverso: «Esigere che individui
difettosi non possano più generare altri scarti», infatti «è l’atto più
umano dell’umanità» perché «là dove regna veramente la volontà di Dio,
nel cuore della natura, non si trovano tracce di pietà per il debole e
per il malato». Questo è ciò che si ritrova nel volume di Chapoutot:
un’esatta cartografia del discorso nazista nella sua coerenza interna e,
allo stesso tempo, una tessera significativa di storia sociale e
intellettuale che toglie al crimine ogni manto di eccezionalità:
recingere l’orrore dentro lo steccato della mostruosità e
dell’incomparabilità è, infatti, operazione tra le più pericolose e
facile via alla rimozione. «Facendo dei criminali soggetti estranei alla
nostra comune umanità» – questo è il rischio che Chapoutot addita in
ogni sua pagina, l’avvertimento che trapela dietro ogni stralcio
documentale – «noi ci esoneriamo da ogni riflessione sull’uomo,
l’Europa, la modernità, l’Occidente, su tutti i luoghi che i criminali
nazisti abitano, dei quali partecipano, e che noi abbiamo in comune con
loro».