Il Sole Domenica 17.7.16
Cibo e sesso
Nutrirsi di pensiero magico
di Giberto Corbellini
L’ideologia del «naturale» determina scelte politiche sbagliate in due ambiti cruciali della vita
Due
cose riempiono l’animo umano di falsità e autoinganni: cibo e sesso.
Prima e più della religione. Che, infatti, è servita in parte per
diffondere e regolare le più diverse credenze superstiziose su cosa o
come dovremmo mangiare, e su come o con chi trarre piacere erotico.
Superstizioni che in passato servivano per evitare intossicazioni e
malattie, dovute alla contaminazione degli alimenti e alle pratiche
sessuali più sfrenate. La principale menzogna, alla quale credono quasi
tutti, è che il cibo e il sesso siano tanto più buoni (nel senso di più
sicuri e piacevoli ai sensi, ma anche eticamente) quanto più sono
“naturali”.
Sia il libro di Segré, per quanto riguarda il cibo,
sia quello di Fuso, che parla anche di sesso, cosmesi e medicine,
spiegano che le credenze naturiste sono false. Il cibo che consumiamo,
da circa diecimila anni e cioè da quando l’uomo uscì dallo stato di
natura inventando il mondo agricolo, non ha niente di naturale. Quindi
la domanda sarebbe: perché se abbiamo così tante prove che si tratta di
una credenza falsa, non la abbandoniamo? È una lunga storia, di cui le
neuroscienze cognitive ed evoluzionistiche danno conto nei dettagli, e
di cui su questa pagine della Domenica si è scritto ad abundantiam.
Segré
si orienta saggiamente in un mondo dove la politica agricola e la
logica degli affari non è sanamente regolata dal libero mercato, ma da
aspiranti profeti come Carlo Petrini, il quale diffonde il suo verbo
incantatore con il sostegno di una sinistra snob ed entropica, che da
decenni ha smesso di occuparsi delle persone economicamente in
difficoltà; o da prepotenti e astuti capitani d’industria come Oscar
Farinetti, che si camuffa da passatista per arricchirsi; o da
un’associazione privata come Coldiretti, che a proprio vantaggio impone a
governi e ministeri scelte ipocrite e assistenzialiste. Segré non crede
alle favole (le narrazioni) di Farinetti e Petrini, ma se la prende
anche lui col mercato e si lascia commuovere dalla tradizione. Slow
Food, Eataly e tutte le filiere dei prodotti DOP sarebbero realtà
economiche interessanti, se l’agricoltura italiana si fosse anche
modernizzata, e non fosse quasi tutta supina all’ideologia delle
produzioni tipiche. Saremmo un paese di bengodi se fosse rimasto
vantaggioso commercialmente coltivare e vendere, grazie a innovazioni
come gli ogm, anche prodotti di più largo consumo (mais, barbabietole da
zucchero, grano, etc.), così che anche le persone con minori
disponibilità possano mangiare cose buone e a prezzi accessibili. O di
modo che l’occupazione in agricoltura fosse di molto superiore e la
nostra bilancia commerciale agricola non perdesse 6-7 miliardi all’anno
da almeno quindici anni.
Il libro di Segré è un manifesto
cultural-politico. Ma una volta letto ci si chiede: e allora? Ci si
aspettava che nel dire che gli ogm non sono un tabù (evviva! ma è comico
scrivere che il cisgenico è “più naturale”), e che se li avversiamo ce
li troveremo nel piatto senza accorgercene, si aggiugesse che già sono
tra noi. I due terzi dei mangimi che alimentano la filiera dei prodotti
tipici sono ogm e importati. Essendo Segré un economista agrario avrebbe
potuto informare che tutte le esportazioni dei prodotti tipici
serviranno tra un anno o due a pagare i soli mangimi importati. Mangimi
che potremmo produrre in Italia, solo che non fossimo preda di un
incantesimo ideologico-affaristico piuttosto criminale. E avrebbe potuto
aggiungere che il settore dell’innovazione e ricerca più remunerativo
per investimenti pubblici è, storicamente, quello agricolo. Almeno fino a
quando i paesi occidentali investivano in ricerca agraria. Ma lo è a
condizione che la ricerca sia fatta in modi indipendenti dalla politica e
non per inseguire vantaggi o subire i ricatti e le superstizioni
biodinamiche del ministro Martina. Altrimenti, e questo è un messaggio
per gli scienziati che scodinzolano intorno a ministri che erogano fondi
in cambio di silenzio sulle innovazioni “scomode” alla politica, si
ripete Lyssenko – mutatis mutandis.
In quanto professore di
economia, Segré dovrebbe anche provare a svegliare i suoi colleghi dal
delirio che l’economia si governi solo per via finanziaria, politica e
burocratica, cioè senza affrontare il problema di lasciare la libertà di
produrre in modi competitivi beni concreti e attesi, accessibili sempre
al maggior numero possibile di persone e con ridotto impatto
ambientale. Forse è già tardi, ma gli economisti farebbero bene a
ricordare ai politici italiani che l’unico bisogno davvero incoercibile è
quello del cibo, e che le crisi alimentari sono un rischio sempre reale
e dal quale nessun paese è immune, con le inevitabili instabilità
politiche che provocano nei paesi troppo economicamente dipendenti. Se
si guarda poi agli aspetti ambientali, che tante emozioni muovono, ci si
chiede con quale criterio si possa combattere l’uso di piante che
riducono l’uso di insetticidi o di metalli pesanti come il rame usato
come fungicida. Piante che assimilano meglio l’azoto riducendo
l’emissione di vari gas serra e l’uso di combustibili fossili. Piante
che riducono l’uso dell’acqua, ben sapendo che il 70% dell’acqua
potabile è usata in agricoltura.
L’idea originale di Segré è di
superare le spettacolarizzazioni televisive e la propaganda, che
caricano il cibo di valori falsi o effimeri. E, aggiungiamo,
impoveriscono la cultura italiana trasformando dei cuochi in maître à
penser. È un “cibo educato”, quello proposto da Segré, i cui valori
autentici andrebbero veicolati da una pertinente educazione alimentare.
La proposta ha senso, perché la salute umana del futuro e le minacce per
la libertà, dipenderanno anche dagli stili alimentari. Il libro rimane
però nel vago sui contenuti dell’educazione da promuovere, mentre le
conoscenze evoluzionistiche e biochimiche sugli alimenti e sul
metabolismo umano danno delle indicazioni molto precise quanto a
salubrità delle diete. Fuori da troppi fronzoli romanzeschi.
Ripercorrendo
le diverse declinazioni della falsa equazione “naturale=buono”, Silvano
Fuso dimostra che in ciò che è spacciato per naturale (cibo,
medicinali, cosmetici, etc.) c’è spessissimo del cattivo e del
rischioso, e che alcune pratiche ritenute innaturali, come
l’omosessualità, sono naturalissime. Opportunamente si sofferma sulle
basi cognitivo-epistemologiche dell’equazione. Sul fatto che siamo
spontaneamente essenzialisti, ovvero naturalmente guidati, se non
alleniamo anche l’intelligenza fondata sulla capacità di astrazione e di
critica, dal pensiero magico. Un modo di ragionare che porta a credere
che gli oggetti accumulino essenze, ma anche che i simboli siano dotati
di un potere, che le azioni abbiano conseguenze a distanza, che la mente
sia senza confini e abbia una vita propria, che il mondo sia vivo e che
vi sia uno scopo o ragione in qualunque cosa accade.
L’essenzialismo
e il pensiero magico erano strumenti formidabili per sopravvivere in un
mondo ascientifico e premoderno. L’invenzione del metodo scientifico ha
cambiato lo scenario cognitivo e consentito di coltivare (educare)
potenzialità che ci hanno portato fuori dalle “minorità” e affrancati da
malattie, malnutrizione, miseria, sudditanza, ecc. Insistere nell’usare
il pensiero magico, quindi credere in una natura benigna e salvifica, è
come accanirsi a sfasciare lo scafo della nave (senza ripararlo come
per la nave di Neurath) sulla quale precariamente navighiamo in un
oceano di rischi, che è pronto a inghiottirci. Non proprio un esempio di
intelligenza.
Silvano Fuso, Naturale = Buono? , Carocci, Roma, pagg. 256, € 19
Andrea Segré, Cibo , Il Mulino, Bologna, pagg. 116, € 12